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SERBIA, ALBANIA ED IL FATTORE PRIŠTINA

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La sospensione dell’incontro calcistico tra Serbia e Albania sembra aver inaugurato una nuova stagione di gelo diplomatico tra i due rispettivi Paesi, nonostante nei mesi precedenti un effimero ritorno alla stabilizzazione dei rapporti politici aveva lasciato ben sperare l’intera comunità europea. Gli incidenti allo stadio di Belgrado hanno infatti prorogato la visita ufficiale, la prima dal 1948, del premier albanese Rama con il suo alter ego serbo Aleksandar Vučić.

Il drone, che ha sorvolato lo Stadion Partizana inneggiando un ritorno all’Albania, potrebbe essere stato pilotato da attivisti vicini ai movimenti di Kreshik Spahiu o Sali Berisha, i due leader del nazionalismo albanese che hanno promosso lo scorso anno dei referendum per l’annessione delle storiche parti balcaniche tutt’oggi a maggioranza albanese, soprattutto quelle presenti nella regione del Kosovo. Le rassicurazioni del premier Rama hanno però confermato l’assenza di qualsiasi progetto politico di “Grande Albania” poiché proprio Tirana, insieme agli altri due paesi confinanti Macedonia e Montenegro, ha già riconosciuto l’indipendenza del Kosovo subito dopo la sua dichiarazione del 2008.

Al di là dell’evento sportivo, le incomprensioni tra Serbia ed Albania celano argomenti politicamente ben più rilevanti ed oggi non solamente dipendenti dal consueto nazionalismo etnico che in passato si è manifestato anche al di fuori della sfera storica o politica.

A distanza di anni, infatti, una delle sfide più importanti tra i due rispettivi Paesi dei Balcani è la palese volontà di imporsi sull’apatico scenario che si sta evolvendo in Kosovo, terra storicamente e culturalmente legata alla Serbia, ma a maggioranza etnica albanese. Sempre la Serbia, coinvolta principalmente nelle vicende kosovare, ha negli ultimi mesi migliorato le proprie strategie di collaborazione con Priština rispetto al passato. Anche l’Alto Commissario europeo Catherine Ashton si è congratulata per i positivi risultati raggiunti.
Oggi il Kosovo rappresenta, non solo per Serbia e Albania, ma soprattutto per il proprio futuro, una delle sfide più importanti nei Balcani occidentali e non solo.

Gli avvenimenti che dopo la conclusione delle elezioni, da oltre cinque mesi, tengono in stallo i lavori parlamentati dell’Assemblea kosovara, per l’incapacità di eleggere il Presidente dello stesso Parlamento, sembrano confermare le convinzioni della Serbia in merito alla non comprovata legittimità politica e reale indipendenza di Priština e del suo governo. Belgrado non ha mai riconosciuto infatti la dichiarazione di indipendenza del Kosovo, continuando a considerare tale regione come una propria provincia autonoma annessa ai suoi stessi confini nazionali.

Mentre l’attuale Presidente dell’Assemblea, Atifete Jahiaga, non esclude la possibilità di nuove elezioni, appellandosi all’art. 84 della Costituzione, l’ultima sentenza della Corte Costituzionale sembra sottolineare le carenze di un sistema politico nel suo sistema di funzionamento politico interno. Infatti, se da un parte la sentenza ha sancito la possibilità della maggioranza neoeletta di scegliere un Presidente legato al proprio gruppo parlamentare, dall’altra è impossibile non rilevare una grave discrasia nei rapporti istituzionali tra lo stesso sistema politico e quello giuridico. Oltre ad non esservi alcuna previsione costituzionale riguardante la mancata elezione del Presidente, che quindi non bloccherebbe i lavori dell’Assemblea stessa, l’estrema scelta di nuove elezioni dissolverebbe un parlamento eletto dai cittadini e disfatto solo perché composto da parlamentari non in grado di comportarsi nel modo auspicato.

Forse dal 18 febbraio 2008, data della dichiarazione unilaterale di indipendenza nei confronti di Belgrado, le autorità kosovare non hanno mai affrontato una crisi così forte del proprio sistema politico. Sebbene la comunità internazionale osserva inerte gli ultimi sviluppi in Kosovo, la stessa Assemblea è tutt’oggi un´istituzione di autogoverno amministrata dallo United Nations Interim Administration in Kosovo (UNMIK).
La presenza delle Nato in Kosovo non è mai stata legittimata da Belgrado che ne ha sempre denunciato, fin dal biennio 1998-99, l’ingerenza all’interno dei propri confini nazionali. In quell’occasione, nonostante la presenza dei caschi blu delle Nazioni Unite, la conferma di crimini efferati contro la minoranza serba al nord del Kosovo, eseguita dall’organizzazione terroristica dell’Esercito di Liberazione del Kosovo Albanese (UÇK), è rimasta una ferita aperta in Serbia.

Gli stessi requisiti di indipendenza del Kosovo vengono attualmente riconosciuti come casi emblematici non solo dalle istituzioni o dal popolo serbo, ma anche dalla dottrina del diritto internazionale. L’ex madre patria kosovara, non riconoscendo a Priština alcuna legittima politica, contestandone  in modo persistente  e  inequivocabile l’indipendenza stessa, ha condotto nel luglio 2010 la Corte internazionale dell’Aja ad esprimersi in modo favorevole al ricorso contro la stessa dichiarazione di indipendenza kosovara definita dai giudici «non illegale» ma nemmeno «legittima». Tale sentenza è stata ultimamente ribadita dalle parole del Commissario all’allargamento dell’Unione Europea, Stefan Fuele, che non ha imposto alla Serbia alcun obbligo di riconoscimento del Kosovo soprattutto dopo le ultime tensioni avvenute con l’Albania e lo stallo del Parlamento di Priština.
Sebbene tutto ciò sia un ulteriore conferma dell’incapacità politica delle istituzioni kosovare, proprio
l’attuale scenario non appare essere sottovalutato da Belgrado.

Il ritorno ad un Kosovo nuovamente serbo appare al momento quasi impossibile da realizzare; ma, viste l’inerzia della comunità internazionale e le critiche del senatore statunitense Christopher Murphy durante l’ultima visita proprio in Serbia, Belgrado potrebbe verosimilmente sostituirsi nel ruolo di partner regionale. La popolazione serba presente in Kosovo, maggioritaria nei distretti di Leposavic, Zvecan, Zubin Potok al nord e Strpce al sud, non preoccupa al momento le strategie di Belgrado.

Anche le sanzioni commerciali imposte a Mosca, conseguenti la crisi in Ucraina e la guerra civile in atto in Crimea, stanno giocando un ruolo fondamentale nel triangolo Belgrado-Priština-Tirana.
Lo scorso settembre il Kosovo, insieme a Macedonia e Montenegro, ha ufficializzato la propria favorevole posizione alle sanzioni contro Mosca, in linea con la politica dell’Unione Europea e degli Stati Uniti d’America. Ciò che ha spinto le istituzioni kosovare a tale decisione è la comparazione, nonostante le abissali e molte differenze, tra lo scenario che si sta definendo in Crimea e gli avvenimenti accaduti tra Priština e Belgrado prima della dichiarazione del febbraio 2008. La Serbia, invece, appare l’unico Paese dei “Balcani occidentali” a non approvare le sanzione contro Mosca ed appoggiare la politica di Putin nel suo Paese ed in tutta la Federazione Russa.

Dopo le irrilevanti relazioni tra i due Paesi tra il 2000 ed il 2003, le sanzioni contro Mosca sembrano essere diventate la giusta chiave per una nuova e salda cooperazione tra Putin e Aleksandar Vučić, capace di trasformare una storica vicinanza politico-culturale in un forte legame sia sul piano economico che soprattutto geopolitico. All’interno di tale area, la posizione della Serbia in merito agli avvicendamenti di Priština è migliore rispetto a quella albanese.

Il presidente Putin non ha mai negato, ma l’ha sostenuta, la vicinanza tra il popolo russo e quello serbo, mantenendo salde le proprie idee sul non riconoscimento del Kosovo come Stato indipendente. L’assenza di qualsiasi tipo di relazione diplomatica o dialogo tra Mosca e Priština conferma ulteriormente la chiara posizione russa a sostegno di Belgrado.

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“GEOPOLITICA DELLE RELIGIONI”: CONFERENZA DI “EURASIA” A BRESCIA

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Sabato 8 novembre 2014 a Brescia nella sala comunale di Via Pasquali 5 si è svolta una conferenza organizzata dall’associazione culturale “Nuove Idee” con lo scopo di presentare al pubblico il nuovo numero della rivista “Eurasia” dedicato alla geopolitica delle religioni. Sono intervenuti come relatori: il direttore della rivista Claudio Mutti, Paolo Rada, esperto di Islam e di religioni e Ali Reza Jalali, analista geopolitico del Vicino Oriente.

L’intervento di Claudio Mutti si è concentrato sulla geopolitica delle religioni a livello generale, con una riflessione ad ampio respiro che ha sottolineato l’importanza del fattore religioso nel mondo contemporaneo, al contrario di quello che avevano previsto i molti studiosi che in passato avevano frettolosamente decretato la fine di ogni forma di spiritualità a favore del predominio del materialismo.

Brescia 8 nov. 2014

Dopo una prima parte introduttiva, il direttore di “Eurasia” ha proposto di applicare criteri ispirati alla geopolitica delle religioni a tre casi particolari: Ucraina, Palestina e Iraq. Nel primo caso, lo scontro in atto all’interno del paese europeo può essere letto, anche, come uno scontro fra la componente uniate occidentale e quella ortodossa orientale. Nel caso della Palestina, invece, un progetto colonialista ispirato da un messianismo deviato incontra la resistenza di un katéchon che impedisce la distruzione dei Luoghi Santi ad opera dei “fanatici dell’Apocalisse”. In Iraq, infine, vediamo in modo chiaro l’emergere di una forma pseudoreligiosa, il wahabismo, corrente eterodossa nata in Arabia alcuni secoli fa, che ora tramite il famigerato “Stato Islamico” sta occupando ampie zone del paese mesopotamico. Tutti questi esempi ci fanno comprendere come la religione, nel bene o nel male, non sia affatto tramontata, ma anzi rappresenti un fattore identitario molto forte da prendere in considerazione nelle analisi geopolitiche.

Dopo l’intervento di Claudio Mutti, è arrivato il turno del secondo relatore, Paolo Rada, esperto di Islam, che ha sottolineato la radice comune delle tre religioni monoteistiche, mettendo però in risalto un fatto importante: ovvero che l’Islam e il Cristianesimo, proponendosi come religioni a destinazione universale, hanno rifiutato il settarismo e il particolarismo della religione giudaica. Inoltre all’interno dell’Islam esistono delle divergenze tra le diverse scuole, soprattutto tra sciiti e sunniti, con i primi che per molti aspetti si approssimano al Cristianesimo. Addirittura, secondo l’Islam sciita, il Mahdi, il salvatore dell’umanità che si manifesterà alla fine dei tempi per sconfiggere il Male, è non solo un discendente di Muhammad, profeta dell’Islam, ma anche di San Pietro, essendo la madre del Mahdi una principessa bizantina.

Brescia 8 nov. 2014 Pubblico 2

Ha concluso la serie degli interventi Ali Reza Jalali, analista geopolitico, che ha fatto una relazione concernente la geopolitica delle religioni applicata alla situazione del Vicino Oriente oggi, con uno scontro settario senza precedenti tra sciiti e sunniti, soprattutto in Iraq e Siria, dove le principali potenze regionali, soprattutto Turchia e Iran, vogliono ricreare di fatto la grandezza degli imperi del passato, rispettivamente in nome dell’Islam sunnita (neoottomanesimo) e dell’Islam sciita (neosafavidismo). Non a caso l’Iran difende i governi iracheno e siriano, influenzati in qualche modo dal fattore sciita, mentre la Turchia sostiene le opposizioni sunnite.

Al termine delle tre relazioni, vi sono state delle domande del pubblico ai relatori, domande che hanno affrontato vari argomenti concernenti il tema della conferenza.

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BRASILE: LA VITTORIA DI DILMA RILANCIA IL PROGETTO EURASIATICO

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La pur striminzita vittoria di Dilma Roussef (51,6% contro il 48,3% dello sfidante Aecio Neves) alle elezioni presidenziali del Brasile tenutesi lo scorso 26 ottobre, suggerisce diverse riflessioni.
Chi ha seguito le vicende elettorali direttamente da Rio De Janeiro deve innanzitutto constatare come il Brasile possa oggi considerarsi una Nazione finalmente matura, dotata di un grande potenziale di crescita sia economica che politica.
I giorni immediatamente antecedenti al ballottaggio tra i due candidati hanno visto sfilare in maniera a volte rumorosa e colorita ma sempre rispettosa ed ordinata, i sostenitori dei due schieramenti, sia nelle strade sia nelle spiagge (bandiere per Dilma ad Ipanema, foto 1).

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Nella strategica città di Rio De Janeiro, ex capitale e simbolo culturale del Paese verdeoro, le manifestazioni a sostegno di Roussef e Neves si sono svolte in assoluta tranquillità, al punto che il massiccio spiegamento delle forze di polizia il giorno delle votazioni, perfino in prossimità dei quartieri vip di Ipanema e di Leblon, ha quasi sorpreso i passanti e i pochi turisti presenti.
Nonostante l’esiguo successo, si pensi che il primo exit-poll riportava la vittoria di Dilma con solo il 50,5% dei voti, la città è rimasta tranquilla e un violento temporale ha ulteriormente raffreddato gli animi di quanti erano scesi in strada tra caroselli di auto e grida di giubilo.
Determinante nel conteggio finale la vittoria del Partito dos Trabalhadores (PT) nello Stato chiave del Minas Gerais, che alcuni sondaggi attribuivano a Neves (Governatore di quella regione).
Oltre allo scarto minimo, non bisogna comunque sottovalutare alcuni elementi caratterizzanti questo votazione.
Il Brasile si ripresenta elettoralmente spaccato in due; mentre il Nord-Est dei poveri (seppur in crescita economica) si è espresso massicciamente a favore della Roussef, il ricco Sud-Ovest si è schierato a favore di Neves ma avrebbe fatto lo stesso con chiunque fosse stato avversario del PT.
Si tratta di una divisione che riflette in buona parte la composizione sociale classista del paese, dove ancora oggi fatica ad emergere un vero ceto medio nonostante 12 anni di politiche “laburiste”.
L’ultimo anno dell’economia brasiliana ha registrato risultati tutt’altro che confortanti, al punto che è tornato ad affacciarsi lo storico spettro dell’inflazione e il debito pubblico è aumentato ulteriormente.
Se è vero che l’esame dei Mondiali di calcio è stato brillantemente superato, mentre i catastrofisti della propaganda yankee soffiavano sul fuoco di improbabili rivolte, in vista dei Giochi Olimpici di Rio 2016 occorre un ulteriore scatto di reni.
Il Brasile deve affrontare e risolvere una volta per tutte alcuni nodi interni che gli impediscono di decollare definitivamente e che riguardano essenzialmente tre fattori: la lotta alla corruzione (vedi scandalo Petrobras), la lotta all’analfabetizzazione di grandi fasce della popolazione (i test scolastici sono ancora lontani dagli obiettivi prefissati dalle Amministrazioni precedenti), la lotta alla criminalità e alla droga (che costituiscono una delle piaghe storiche in diverse zone del Brasile).
Le priorità immediate di Dilma riguardano comunque il rilancio degli investimenti e pertanto i primi provvedimenti verranno varati a favore delle imprese, con una politica chiara e trasparente necessaria a riprendere la crescita e le esportazioni (che continuano ad essere centrate soprattutto sulle materie prime e non sui prodotti dell’industria di trasformazione).
Accumulato il capitale necessario, lo Stato brasiliano dovrà quindi incentivare la costruzione delle infrastrutture, riformare il fisco (alleggerendo la burocrazia) e tentare di risolvere gli intrecci negativi nelle stesse politiche sociali (sanità-corruzione, lavoro-assistenzialismo, oltre alla storica concentrazione monopolistica della proprietà terriera).
Bisogna comunque riconoscere al PT una buona capacità di mobilitazione, in quanto tutti i grandi media brasiliani (televisioni in particolare) si trovano nelle mani di 5 grandi famiglie che di certo non hanno tifato a favore della Roussef e che tuttavia non sono riuscite a mobilitare più di 2.500 persone a San Paolo (e solo poche decine a Rio de Janeiro, vedi foto 2) per l’impeachment a Dilma.

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Quest’ultima ha condotto una campagna presidenziale sulla base degli slogans: “Governo Novo” – “Ideias Novas” (http://www.dilma.com.br/), come a confermare che il Brasile deve ritrovare quello slancio parzialmente perso negli ultimi tempi e che potrà avvenire solo con un serio rinnovamento della stessa classe dirigente che l’ha guidato negli ultimi 12 anni.
Solo così Brasilia potrà giocare la propria parte nel nuovo sistema mondiale ipotizzato dai Paesi del BRICS, la cui nuova Banca avrà sede a Fortaleza e il cui statuto verrà redatto dal dirigente del Ministero degli Esteri verdeoro Samuel Pessoa.
La vittoria di Dilma, assicura infatti una forte spinta propulsiva al progetto eurasiatico di un mondo multipolare libero dall’egemonia statunitense, perciò i rapporti con Russia e Cina assumeranno ora contorni sempre più stretti, regalando al Brasile quella sovranità nazionale che potrà essere utilizzata per riscattare l’intero continente latino-americano dall’abbraccio letale di Washington.

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NUOVO RAPPORTO DELL’OIL SUL LAVORO FORZATO

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L’ Organizzazione Internazionale del Lavoro rivede le sue stime sul lavoro forzato nettamente al rialzo: 21 milioni di lavoratori coinvolti, per un profitto di 150 miliardi di dollari all’ anno.

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I nuovi dati sono stati esposti nel documento “Profits and Poverty: The Economics of Forced Labour”. Il riscontro più agghiacciante emerso da questo studio è che ben 99 miliardi di proventi, sui 150 totali, derivano dallo sfruttamento sessuale; i restanti 51 miliardi sono ricavati invece da lavori forzati in ambito commerciale: principalmente lavoro domestico e agricoltura. Da quanto emerge dalla ricerca sono quindi le donne e le bambine ad essere più soggette ai lavori forzati, mentre gli uomini svolgono la loro attività nell’ambito edile e minerario. Analizzando i proventi derivati dai diversi settori produttivi si nota che mettendo insieme il lavoro industriale, quello in miniera ed il settore edile, i ricavi raggiungono i 34 miliardi di dollari; altri 9 miliardi derivano dagli sfruttamenti nel settore primario ed altri 8 dal lavoro forzato nelle mura domestiche.
La ricerca dell’ OIL ha anche trattato l’impatto che il lavoro forzato manifesta nelle diverse aree geografiche. Nell’ Asia-Oceano Pacifico gli sfruttamenti sono più diffusi: quasi 12 milioni di persone sono sottoposte ad abusi, garantendo un ricavo annuo di 40 miliardi. Nelle economie sviluppate invece il profitto è di 34 miliardi, prodotti da un milione e mezzo di lavoratori sfruttati. Le stime del numero di lavoratori coinvolti sono date da una precedente ricerca del 2012, condotta sempre dall’ International Labour Organization.

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L’OIL, oltre ad aver garantito dei dati empirici, si è anche preoccupata di sviluppare un’analisi su quelle che sono le cause principali di questo fenomeno, ancora così diffuso in molte parti del mondo. Contribuiscono in maniera sostanziale la scarsa educazione di base, la povertà, i fenomeni migratori ed una cultura in cui è assente la parità di genere. Da specificare, riguardo all’ elaborato in questione, resta il fatto che lo studio prende in considerazione solamente il lavoro forzato privato, perché “si registrano progressi nella riduzione del lavori forzati imposti dai vari stati (come ad esempio il lavoro carcerario non regolamentato o il reclutamento forzoso dei bambini soldato) e gli sfruttamenti ormai riguardano per il 90% l’economia privata, perciò dobbiamo soffermare maggiormente la nostra attenzione sui fattori socioeconomici che rendono le persone vulnerabili alle pratiche di lavoro forzato nel settore privato”: questa l’opinione di Beate Andrees, Direttore del Programma Speciale di Azione dell’OIL per combattere il lavoro forzato.
Dopo l’analisi approfondita è essenziale sviluppare nuove strategie per limitare gli abusi sui lavoratori. In primo luogo si cercherà di garantire maggiori risorse al fine di incrementare gli investimenti nell’educazione e nella formazione professionale, per aumentare le opportunità di lavoro dei soggetti più svantaggiati. Si tenterà inoltre di garantire maggiori prestiti a soggetti che hanno perso il lavoro o hanno subito una imprevista diminuzione di guadagni, al fine di scoraggiare l’usura e la dipendenza economica dagli sfruttatori. Un altro obiettivo sarà quello di prevenire ed evitare gli abusi sui migranti ed il lavoro clandestino; sarà, infine, importante tutelare maggiormente le organizzazioni di rappresentanza dei lavoratori che fanno parte dei settori più colpiti dallo sfruttamento.
Dopo aver dichiarato tutti questi obiettivi il direttore dell’OIL, Guy Ryder, ha ribadito nuovamente che “se vogliamo dare un cambio significativo nella vita di questi 21 milioni di uomini, donne e bambini vittime del lavoro forzato, dobbiamo adottare misure concrete e immediate. Questo significa collaborare maggiormente con i governi per migliorare le legislazioni in materia, adottare nuove politiche e preoccuparci della loro successiva applicazione. Indispensabile sarà continuare il dialogo con i diversi sindacati, affinché continuino a rappresentare tutti i lavoratori in situazioni di disagio”. Riferendosi al Profits and Poverty: The Economics of Forced Labour il direttore ha aggiunto che “il nuovo studio porta ad un livello superiore la nostra conoscenza sulla tratta di persone, sul lavoro forzato e sulla schiavitù moderna. Questo documento aggiunge un nuovo carattere di urgenza ai nostri sforzi per sconfiggere questa piaga dell’umanità”.
Un prossimo passo importante per l’OIL sarà certamente quello di aggiornare la Convenzione internazionale sul lavoro forzato, datata 1930, messa in campo per lottare contro le pratiche del colonialismo e che risulta ormai in buona parte obsoleta. L’appuntamento è fissato alla prossima riunione generale dell’Organizzazione, in cui verrà discusso un protocollo per allargare la Convenzione anche al settore privato.

Ecco il testo integrale del documento dell’OIL, di seguito il rapporto 2012
http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—ed_norm/—declaration/documents/publication/wcms_243027.pdf
http://www.ilo.org/wcmsp5/groups/public/—ed_norm/—declaration/documents/publication/wcms_182004.pdf

Immagini tratte dal sito dell’Organizzazione Internazionale del Lavoro www.ilo.org

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L’IMPERIALISMO STATUNITENSE IN CAMBOGIA DURANTE LA GUERRA DEL VIETNAM

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Gli Accordi di Ginevra del 1954 posero fine alla guerra di Indocina, che si era conclusa con la sconfitta dei francesi ad opera del Vietminh a Dien Bien Phu. I firmatari, fra cui Francia, URSS, Cina e Vietnam del Nord, riconobbero l’indipendenza della Cambogia e la sua posizione internazionale come stato neutrale. Tuttavia, la Cambogia indipendente dovette subire le politiche imperiali statunitensi a causa della sua posizione strategica. Gli USA, sempre più coinvolti nel conflitto vietnamita e decisi ad impedire l’avanzata del comunismo nel sud-est asiatico, pretendevano che la Cambogia entrasse a far parte della SEATO (Organizzazione del Trattato del Sud Est Asiatico) che comprendeva Stati Uniti, Gran Bretagna, Francia, Australia, Nuova Zelanda, Thailandia e Filippine. Il principe Sihanouk, che all’epoca era alla guida di quella nazione, oppose sempre un netto rifiuto, poiché era deciso a conservare la neutralità del proprio paese. Gli Stati Uniti, irritati dal comportamento di Sihanouk, alternarono aiuti economici, minacce e appoggio alla sovversione interna ed esterna. La CIA creò una classe militare cambogiana conservatrice e apertamente filoamericana, finanziando allo stesso tempo alcuni gruppi armati di opposizione anticomunisti che intendevano instaurare un regime repubblicano. Inoltre, gli Stati Uniti sostenevano le rivendicazioni territoriali dei paesi alleati Thailandia e Vientam del Sud, che rifiutavano di riconoscere i confini con la Cambogia. Fra il 1957 e il 1958 le truppe sud-vietnamite, sostenute dagli USA, invasero Stung Treng, una provincia cambogiana nord-orientale in cui vi era una presenza significativa dell’etnia vietnamita, ma furono respinte dopo violenti combattimenti. Le truppe sud-vietnamite, coadiuvate dalla CIA, proseguirono le proprie incursioni in territorio cambogiano per tutti gli anni ’60. La Thailandia, forte dell’appoggio statunitense , occupò la provincia cambogiana occidentale di Preah Vihear nel 1958, ma soltanto nel 1962, dopo l’intervento della Corte Internazionale di Giustizia, acconsentì al ritiro delle sue truppe. In questo periodo la CIA, intenzionata a creare un corridoio strategico tra il Vietnam del Sud e la Thailandia, tentò invano di fomentare una rivolta secessionista nelle provincie di Siem Reap e di Kompong Thom per creare uno stato fantoccio degli USA che comprendesse il nord della Cambogia e il Laos meridionale. La CIA organizzò inoltre, senza successo, numerosi attentati contro Sihanouk, assoldando sicari e recapitando pacchi esplosivi. Alla fine del 1965, gli Stati Uniti bombardarono con i B-52 il confine fra il Vietnam del Sud e la Cambogia provocando migliaia di morti e feriti fra i civili di entrambi i paesi. Questi avvenimenti costrinsero Sihanouk ad accettare gli aiuti economici e militari cinesi e a permettere tacitamente ai nord-vietnamiti e ai vietcong di utilizzare il Sentiero di Ho Chi Minh, che attraversava la Cambogia orientale, per penetrare nel Vietnam del Sud dove effettuavano le proprie missioni militari contro il regime di Saigon, fantoccio degli USA. Alla fine degli anni ’60, l’instabilità della Cambogia fu ulteriormente aggravata dalla presenza di un crescente movimento comunista di opposizione, dominato dai khmer rossi, che stava prendendo piede nelle campagne cambogiane. I bombardamenti americani in Cambogia cominciarono nel marzo 1969 per volontà del presidente Nixon. A partire da quell’anno, la Cambogia fu sempre più coinvolta nel conflitto in corso nel vicino Vietnam, con conseguenze devastanti. Tramite i bombardamenti sulla Cambogia, gli USA intendevano proteggere la sicurezza del traballante regime di Saigon. Fino all’estate del 1973 i B-52 americani sganciarono sulla sola Cambogia 539.129 tonnellate di bombe, tre volte il tonnellaggio complessivo, armi atomiche comprese, sganciato sul Giappone durante la II Guerra Mondiale. I bombardamenti americani distrussero l’economia cambogiana e ne disgregarono la società, favorendo la crescita dell’opposizione armata dei khmer rossi. Tuttavia, pur causando enormi distruzioni del territorio con centinaia di migliaia di vittime e di profughi, le missioni di bombardamento americane non affievolirono mai le capacità di combattimento dei comunisti vietnamiti che, invece, consolidarono la propria presenza militare in Cambogia. Anche le numerose missioni terrestri di infiltrazione e sterminio, promosse dalla CIA, non riuscirono a localizzare le basi comuniste e a distruggerle. Il 18 marzo 1970 il generale Lon Nol, forte del sostegno della CIA, effettuò un colpo di stato, instaurando un regime militare. Il 23 marzo dello stesso anno, a Pechino, Sihanouk riunì l’opposizione cambogiana, fra cui i khmer rossi, nel FUNK (Fronte Unito Nazionale della Kampuchea) e chiese ai suoi compatrioti di ribellarsi al regime di Lon Nol. Il conflitto cambogiano si aggravò nell’aprile 1970, quando Stati Uniti e Vietnam del Sud invasero la Cambogia per distruggere le basi comuniste. I sud-vietnamiti, forti del sostegno americano, perpetrarono saccheggi e massacri ai danni dei civili cambogiani, spingendone un gran numero ad entrare nella resistenza ed aggravando la guerra civile in corso che si concluse il 17 aprile 1975, con la caduta della capitale Phnom Penh nelle mani dei khmer rossi di Pol Pot.

Marco Musumeci, 34 anni, laureato in Scienze internazionali e diplomatiche nell’ottobre 2006. Fra il 2009 e il 2010 autore di alcuni saggi brevi incentrati sulla politica estera di Cuba, pubblicati sul “Moncada”, periodico dell’Associazione di Amicizia Italia-Cuba.

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LA CENTRALITÀ DELLA BULGARIA NELLE STRATEGIE EURASIATICHE DELLA RUSSIA

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La nuova fase politica in Bulgaria caratterizzata dall’elezione di Borisov alla guida di un governo di minoranza, potrebbe rappresentare una delle pagine più importanti per il Paese soprattutto in politica estera.
Nella “partita del gas” tra Russia ed Unione Europa, la Bulgaria rivelerebbe tutta la sua centralità geopolitica convincendo Putin ad iniziare nuove strategiche relazioni.
La cooperazione potrebbe seguire quella che nei Balcani hanno promosso Bulgaria, Ungheria e Austria in merito al ripristino dei lavori del South-Stream.
La conclusione del gasdotto aumenterebbe la leadership russa all’interno del settore energetico che, oltre al North-Stream nel Mar Baltico, permetterebbe alla Russia di aggirare il campo minato ucraino, uno dei governi più ostili come quello romeno, il Bosforo ed il Dardanelli.
Inoltre, il South-Stream ridurrebbe l’importanza dell’altro gasdotto bulgaro voluto dall’Unione Europea, il Nabucco, ufficializzando per quest’ultima una doppia sconfitta dopo le sanzioni contro Mosca.

La scarsa informazione dei media occidentali sugli avvenimenti politici legati alla Bulgaria non tolgono al Paese l’importante ruolo all’interno della regione dei Balcani e, soprattutto, all’interno del blocco eurasiatico.
La centralità della Bulgaria sembra essere riemersa, sia da un punto geopolitico che strategico, in una delle pagine più negative della sua storia nazionale.
Le elezioni di inizio ottobre, infatti, sembrano aprire una nuova fase di instabilità politica rappresentata dall’elezione di Bojko Borisov, leader del partito GERB, che governerà in un esecutivo di minoranza dopo l’uscita dalla coalizione del Partito Patriottico poco prima dell’investitura dei nuovi ministri.

Oltre ai problemi strutturali del Paese, il nuovo Governo bulgaro dovrà affrontare seriamente gli accordi e gli obiettivi presi nei mesi scorsi in politica estera.
Nonostante il neo Capo del Governo sia deciso a mantenere una chiara posizione euro-atlantica, tale orientamento, in linea con quelle del vecchio governo socialista di Plamen Orešarski, sembra poter subire un svolta verso nuove strategie capaci di ripercuotersi in campo europeo e non solo.

Una delle sfide principali della Bulgaria si giocherà sul campo della cooperazione con Mosca nel settore energetico.
Le tensioni tra Russia e Ucraina, con le conseguenti sanzioni europee contro il Cremlino, hanno avuto gravi ripercussioni nel tessuto sociale bulgaro.
La Bulgaria dipende per oltre l’85% del suo fabbisogno nazionale dal gas russo, che arriva tramite un gasdotto che attraversa anche Ucraina e Romania.
Quest’ultimo, secondo le dichiarazioni del Ministro dell’Energia, che ha convocato in questi giorni il Consiglio per le Crisi, ha smesso di erogare la fornitura prevista.
Le inadempienze russe, non causate da decisione del Cremlino, vengono attualmente sostituite da Sofia con gli approvvigionamenti del giacimento bulgaro di Chiren che, però, prevede il passaggio dalle centrali di riscaldamento da gas a olio combustibile.
Anche all’interno del settore agricolo, il Ministero degli Affari Esteri bulgaro ha da poco ufficializzato i dati inerenti la perdita di oltre dieci milioni di lev a causa dei blocchi commerciali contro Mosca.

Tale scenario sembra condurre il neo premier Bojko Borisov ad un cambio di strategie iniziato a delinearsi durante gli ultimi lavori diplomatici svolti con Ungheria prima ed Austria poi.
Durante questi appuntamenti, dove si è palesata la volontà politica del nuovo Governo di Sofia, il Presidente bulgaro Rosen Plevneliev ha definito di prioritaria importanza il ripristino e la celere conclusione dei lavori del gasdotto South-Stream.
Evitare drammi come quelli dell’inverno 2009, quando gran parte del Paese rimase senza rifornimenti energetici per quasi un mese, andrebbe di pari passo ad una sempre più stretta relazione tra i Paesi balcanici e la Russia.

Le parole di Rosen Plevneliev hanno dato ragione all’Ambasciatore russo presso l’Unione Europea, Vladimir Chizhov, che aveva definito il blocco dei lavori del South-Stream lo scorso giugno una «decisione politica», da interpretare nel più ampio quadro delle sanzioni europee contro la politica di Vladimir Putin.

Proprio la costruzione del gasdotto, proveniente dalla Russia e che oltrepassa il Mar Nero, era stata bloccata dagli Stati Uniti d’America e dalla stessa Bruxelles, nonostante garantisca, insieme al suo gemello North-Stream sul Mar Baltico, certezze sugli approvvigionamenti energetici ai Paesi dell’Unione Europea.
Mentre il Congresso degli Stati Uniti aveva riferito all’ex premier Plamen Orešarski di disporre la sospensione dei lavori del South-Stream in chiara ottica anti-Russia, la Commissione Europea impugnava l’intera normativa comunitaria sulla libera concorrenza contro i lavori del gasdotto in Bulgaria, interrompendo il progetto per l’assenza di un terzo partner in grado di concorrere commercialmente con la russa Gazprom.

Rispetto allo scorso giugno, qualora la Bulgaria riuscisse a completare i lavori del South-Stream e a rispettare la legislazione europea, la Russia riuscirebbe ad aggirare – sebbene in parte – il campo minato creato dal Governo filoeuropeo di Kiev.
La Romania e la stessa Ucraina, Paesi di transito del gasdotto che ad oggi conduce l’energia verso la Bulgaria, rappresentano i due Paesi dei Balcani euroasiatici più ostili alla già forte leadership di Putin.
L’unità d’intenti fuoriuscita dagli incontri tra i Presidenti di Bulgaria, Ungheria e Austria, quest’ultima decisa addirittura a sostenere i costi della conclusione del South-Stream, condurrebbe ad un ulteriore diminuzione delle forniture proprio in Ucraina e in Romania e, conseguentemente, ad un isolamento dei due stessi Paesi.
In tal caso, appare assai difficile che Kiev e Bucarest possano ricevere aiuti energetici da un’Unione Europea che, a sua volta, dipende per circa 1/3 dalle forniture provenienti dalla Russia.

Inoltre, la Bulgaria potrebbe divenire uno dei centri logistici strategicamente più importanti per Mosca, non solo per i due gasdotti gemelli presenti nel Mar Baltico e nel Mar Nero.
Le nuove relazioni tra i due Paesi potrebbero condurre Bojko Borisov ad implementare il ruolo del Paese all’interno dei Balcani grazie al rispristino di due vecchi progetti di fondamentale importanza nella “partita del gas”: il Belen Nuclear Power Point, presente nella città di Pleven, e il gasdotto Burgas-Alexandropoli.
Se il primo progetto sembra essere ormai bloccato a causa dei numerosi rischi ambientali, il progetto del Dzhugba-Burgas-Alexandropoli condurrebbe Mosca a bypassare punti geopolitici importanti come quello del Bosforo e dei Dardanelli.
Dopo il blocco dei lavori avvenuto tra il 2009-2013 a causa dell’opposizione delle comunità locali, il gasdotto riuscirebbe grazie alla sua bipartizione a rifornire l’Italia meridionale dopo essere passato per la Grecia, attraverserebbe inoltre l’Italia del nord arrivando in Serbia, Ungheria, Slovenia ed infine in Austria.
Tale progetto era stato in realtà riconsiderato dall’ex premier Plamen Orešarski e attualmente potrebbe rientrare nell’agenda del Governo di Bojko Borisov; questo accoglimento consentirebbe al Paese di rispettare gli accordi contrattuali siglati dalla Gazprom e dalla Bulgarian Energy Holding.

I nuovi possibili progetti di cooperazione tra Mosca e Sofia nel settore energetico potrebbero ampliarsi anche su altri piani, come quello della sicurezza militare.
La Nato ha imposto nei mesi scorsi alla Bulgaria una modernizzazione del proprio esercito, distaccandosi dalla dipendenza russa ed acquistando nuovi radar 3D come previsto dal Piano 2020 avente l’obiettivo di garantire sicurezza militare ad ogni singolo Stato.
Tuttavia, Boyko Borisov aveva dichiarato prima della sua elezione di non voler rispettare lo stesso programma militare della Nato, in quanto la Bulgaria non dispone di fondi sufficienti.

Le decisioni di Sofia potrebbero focalizzare nel Paese le “attenzioni” della Commissione Europea e della stessa Nato, che ha già dichiarato di voler avallare una procedura d’infrazione contro il Paese.

Il riavvicinamento tra Bulgaria e Russia, soprattutto se incentrato sui piani di sviluppo del settore energetico, rappresentano per le politiche dell’Unione Europea una doppia sconfitta.
La possibile conclusione dei lavori del South-Stream eliminerebbe di fatto qualsiasi funzione strategica del Nabucco, altro gasdotto che attraversa la Bulgaria e che collega la Turchia all’Austria.
Il progetto, fortemente voluto dall’Unione Europea proprio per sostituirsi alle dipendenze del gas russo, oggi sembra essere superato da Mosca nonostante le attuali sanzioni.

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LA MEMORIA NASCOSTA DI NELSON MANDELA

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La disinformazione e l’ipocrisia con cui continua a essere celebrata la figura di Nelson Rolihlahla Mandela hanno dell’incredibile. Un uomo che ha trascorso più di ventisette anni in carcere per aver lottato contro il regime dell’apartheid, un uomo incluso fino a pochi anni fa nella lista USA dei terroristi, un uomo arrestato grazie ad informazioni fornite dalla CIA è stato trasformato dalla propaganda occidentale in una vuota e stucchevole icona del pacifismo libertario. Tutto ciò è avvenuto attraverso una sapiente opera di censura della storia, per mezzo della quale sono state volutamente rimosse la dimensione rivoluzionaria di Mandela e la sua profonda amicizia con alcuni dei leader più odiati dall’Occidente.

Il mito di Nelson Mandela

Un anno fa, il 5 dicembre 2013, a 95 anni, si spegneva Nelson Mandela. Quel giorno, dodici colombe vennero liberate nel cielo di Johannesburg e una folla immensa invase le strade del Sudafrica, intonando canti della tradizione tribale e cristiana. «Governerà l’universo insieme a Dio», diceva uno dei tanti cartelli innalzati dalla gente. Tutto il mondo si fermò per ricordare l’esempio dell’uomo eroico che lottò contro l’apartheid, il simbolo del Sudafrica odierno. Il Consiglio di sicurezza dell’Onu osservò un minuto di raccoglimento. Il Presidente statunitense Barack Obama lo ricordò come esempio della sua vita e «uno degli uomini più coraggiosi dell’umanità». «Si è spenta una grande luce», commentò il premier britannico Cameron. «Un magnifico combattente», disse il presidente francese Hollande.
Il mito di Mandela era già iniziato quando il leader africano era ancora in vita. Nel 1993, assieme al Presidente De Klerk, viene insignito del premio Nobel per la Pace. Nel novembre del 2009, l’Assemblea Generale delle Nazioni Unite decide che ogni anno, il 18 luglio, giorno di nascita di Mandela, verrà celebrato il Nelson Mandela International Day o Mandela Day. Nel 2004, alcuni entomologi gli hanno anche dedicato una rara specie di ragno sudafricano, lo Stasimopus mandelai. Un celebre pubblicitario, citato dall’agenzia France Presse, è arrivato perfino a suggerire di ribattezzare il Sudafrica col nome di “Mandelia”. Mandela è forse il politico che ha ricevuto più premi al mondo: circa 250 riconoscimenti, tra cui cinquanta lauree honoris causa.

 

Chi era Nelson Mandela

Ma chi era veramente Nelson Mandela, quel leader che, dopo aver passato quasi ventotto anni in prigione, i media non hanno mai finito di celebrare, dipingendolo come un pacifista amico dell’Occidente?
Mandela nacque il 18 luglio 1918 a Mvezo, un piccolo villaggio di capanne bianche sulle rive del fiume Mbashe, situato in una fertile vallata dell’Africa Sudorientale. Era figlio di un capo della tribù Thembu, parte della nazione Xhosa. Venne chiamato “Rolihlahla”, letteralmente “colui che tira il ramo di un albero”, che in lingua xhosa equivale a dire “colui che combina guai”. Assunse il nome Mandela dal nonno, ma il suo popolo lo chiamava Madiba, un titolo onorifico adottato dagli anziani della sua famiglia. Il nome di Nelson gli venne, invece, da una maestra della scuola missionaria metodista, dove usavano dare agli studenti dei nomi più semplici da pronunciare rispetto a quelli difficili della tradizione tribale.
Mandela si dimostrò ribelle fin da giovane, quando, insieme al cugino Justice, suo amico d’infanzia, decise di scappare a Johannesburg per sfuggire a un matrimonio combinato dal suo capotribù: aveva solo 23 anni. Due anni dopo s’iscrisse alla facoltà di legge dell’Afrikaner Witwatersrand University ed entrò in contatto con gli ambienti che si opponevano al regime segregazionista sudafricano. Nel 1942 s’iscrisse all’African National Congress, e due soli anni dopo, insieme a Walter Sisulu e Oliver Tambo, fondò la Youth League, l’ala giovanile del movimento, e presto ne divenne il presidente.
Completati gli studi di legge, avviò insieme a Tambo il primo studio legale, che offrirà protezione gratuita o a basso prezzo a molti neri poveri, che non avrebbero avuto altrimenti alcuna assistenza legale. Erano gli anni più bui della segregazione e Mandela si dedicò con passione ad organizzare scioperi e manifestazioni, incoraggiando la gente a disobbedire alle leggi discriminatorie.
Nel 1956 arrivò la prima accusa di alto tradimento e venne arrestato. Fu assolto dopo un lungo e tormentato processo nel 1961. Intanto la repressione si era fatta sempre più brutale e le autorità avevano messo al bando l’ANC. A Nelson Mandela non rimase che un’unica via: quella della lotta armata. Fu così che fondò l’ala militare dell’ANC, chiamata Umkhonto we Sizwe (“Lancia della nazione”, abbreviata in MK) e ne divenne il comandante. Obiettivo dell’organizzazione era combattere il regime segregazionista del Sudafrica attraverso azioni di guerriglia e campagne di sabotaggio contro l’esercito governativo e diversi obiettivi sensibili. Per addestrare i combattenti, Mandela si dedicò a raccogliere fondi all’estero, sia dai Paesi socialisti che da vari governi africani, come la Guinea, il Ghana, il Mozambico e l’Angola. Umkhonto s’ispirava a Mao, a Stalin e a Che Guevara.

 

Come fu che Nelson Mandela venne imprigionato per 28 anni

Erano ormai 17 mesi che Mandela viveva in clandestinità. Una notte, il 5 agosto del 1962, stava attraversando in auto Howick, una cittadina del Natal, quando venne fermato da una pattuglia della polizia. Fu arrestato e condannato a cinque anni di lavori forzati per incitamento alla dissidenza e per aver compiuto viaggi illegali all’estero. Due anni più tardi sarà accusato anche di sabotaggio e tradimento e condannato all’ergastolo.
Come fece la polizia a catturare Nelson Mandela? La vicenda rimase oscura per oltre venti anni. Solo nel luglio del 1986, tre giornali sudafricani, ripresi dalla stampa inglese e dalla CBS, spiegarono l’accaduto. Negli articoli veniva chiarito, con dovizia di particolari, che un agente della CIA, Donald C. Rickard, aveva fornito ai servizi segreti sudafricani tutti i dettagli per catturare Mandela, cosa avrebbe indossato, a che ora si sarebbe mosso, dove si sarebbe trovato. Fu così che lo presero.
Mandela rimase in prigione fino al 1990, quando venne liberato grazie a una grande mobilitazione internazionale.

 

Quello che gli ipocriti vogliono far dimenticare

Mandela per il regime razzista sudafricano era un terrorista. Ma era un terrorista anche per alcuni dei più importanti governi del mondo. Per l’ex primo ministro britannico Margaret Thatcher e per il presidente statunitense Ronald Reagan era qualcosa di peggio: un terrorista comunista. I governi di Londra e di Washington hanno a lungo considerato il regime di Pretoria un importante baluardo contro i movimenti di liberazione anticoloniale del continente africano e gli hanno fornito sempre il loro sostegno. Alle Nazioni Unite, questi due Paesi hanno sempre manifestato la propria opposizione alle risoluzioni dell’Assemblea Generale che miravano a contrastare l’apartheid, proprio la stessa politica che stanno a tutt’oggi attuando sulle azioni illegali di Israele nei confronti dei palestinesi. Mandela era ormai una delle più grandi personalità del Pianeta ma, fino al 2008, cioè dopo che gli era stato concesso il premio Nobel per la Pace e aveva già ricoperto la carica di Presidente della Repubblica Sudafricana, il suo nome e quello dell’African National Congress erano ancora nella lista delle organizzazioni terroristiche redatta dal governo statunitense.
Nei lunghi anni della prigionia, pochi furono coloro che veramente lo sostennero, non solo verbalmente, ma materialmente, e fra essi ci furono alcuni leader che oggi la stampa addomesticata dell’Occidente, impegnata a riscrivere un’altra storia di Mandela, accuratamente occulta. Ma Mandela, che il sentimento di lealtà non perdette mai, non se ne dimenticò. «Ho tre amici nel mondo», soleva dire, «e sono Yasser Arafat, Muammar Gheddafi e Fidel Castro». Molto stretta e profonda fu, in particolare, l’amicizia con Muammar Gheddafi, che Mandela visitò in Libia soltanto tre mesi dopo la sua scarcerazione. Molti criticarono in quell’occasione la sua visita al leader libico, primo fra tutti Bill Clinton, il Presidente di quello stesso Paese i cui servizi segreti avevano contribuito a incarcerare Mandela ed a fornire il maggior sostegno politico, militare ed economico al regime razzista sudafricano. Ma Mandela, anche in quell’occasione, non mancò di rispondere: «Nessun Paese può arrogarsi il diritto di essere il poliziotto del mondo. Quelli che ieri erano amici dei nostri nemici hanno oggi la faccia tosta di venirmi a dire di non visitare il mio fratello Gheddafi. Essi ci stanno consigliando di essere ingrati e di dimenticare i nostri amici del passato».
Stessa stima e amicizia mostrò nei confronti di Fidel Castro e del popolo cubano. Lo testimoniano le parole che pronunciò il 26 luglio del 1991, quando Mandela visitò il leader cubano in occasione della celebrazione del trentottesimo anniversario della presa della Moncada: «Fin dai suoi primi giorni la rivoluzione cubana è stata fonte di ispirazione per tutte le persone che amano la libertà. Noi ammiriamo i sacrifici del popolo cubano che cerca di mantenere la sua indipendenza e sovranità davanti alla feroce campagna orchestrata dagli imperialisti, che vogliono distruggere gli impressionanti risultati ottenuti grazie alla rivoluzione cubana».
Le parole di elogio pronunciate dal presidente statunitense Barack Obama il giorno della morte del leader sudafricano stridono fortemente col pensiero che Mandela aveva espresso in più occasioni sulla politica USA: «Se c’è un paese che ha commesso atrocità inenarrabili nel mondo, questi sono gli Stati Uniti. A loro non interessa nulla degli esseri umani». Sono parole che Madiba pronunciò al Forum Internazionale delle Donne a Johannesburg, quando gli USA si preparavano a invadere l’Iraq.
Chiare sono anche le parole riguardanti il conflitto israelo-palestinese, riferite da Suzanne Belling dell’agenzia Jewish Telegraph: «Israele deve ritirarsi da tutti i territori che ha preso dagli arabi nel 1967 e, in particolare, Israele dovrebbe ritirarsi completamente dalle Alture del Golan, dal sud del Libano e dalla Cisgiordania».
Che fare di fronte alla realtà di parole così chiare? Ai media dell’Occidente libero e democratico non resta che un’unica via: quella della censura e della falsificazione della storia.

 

Funérailles nationales pour Nelson Mandela le 10 décembre, Agence France-Presse, 6-12-2013;
Jean-Simon Gagné, Nelson Mandela (1918-2013): la génèse d’une légende, lapresse.ca, 5-12-2013;
Filippo Bovo, La morte di Nelson Mandela, in “Stato e Potenza”, 6-12-2013;
William Blum, Come la CIA ha fatto imprigionare Nelson Mandela per 28 anni, in “Con la scusa della libertà”, di W. Blum, Marco Tropea Editore, 2002;
What the hypocrites want you to forget about Nelson Mandela: his support of Muammar Gaddafi, in Max Forte, Slouching towards Sirte, NATO’s war on Libya and Africa, pp. 142-43, pubbl. in barakabook.com, 6-12-2013;
Il Sudafrica piange Nelson Mandela. Ma di lui ormai si stravolge tutto, Sinistra.ch, 9-12-2013.

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I SUFI CERCANO UN RUOLO POLITICO IN EGITTO

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A seguito dell’esplosione di un’autobomba nella moschea di Ahmad al-Badawi (luogo in cui si trovavano le reliquie di Al-Sayyid Al-Badawi, fondatore dell’Ordine sufi Badawiyya), il 14 Ottobre 2014, Shaykh del medesimo Ordine hanno rilasciato una dichiarazione in cui accusano i Fratelli Musulmani ed i Salafiti di aver ordinato l’operazione.
Ambienti legati al Sufismo hanno promesso di ottenere ottimi risultati nelle prossime elezioni parlamentari, potendo così annunciare per la prima volta la loro candidatura, coordinandosi con le altre forze politiche presenti sul territorio.
Potrebbero quindi i Sufi essere più moderati al potere, soprattutto per quanto riguarda la religione, rispetto ai Salafiti e ai Fratelli Musulmani?
Sufi e Fratelli Musulmani condividono alcuni punti in comune, soprattutto per quanto riguarda il principio di assoluta obbedienza al capo. I Fratelli Musulmani obbediscono strettamente alla Guida generale del Gruppo (il Murshid), mentre i Sufi seguono gli ordini dello Shaykh.
Su questo argomento, Ahmed Ban, un ricercatore sul tema dei movimenti islamici, ha riferito ad “Al-Monitor”: “Vi è divergenza di vedute tra i sufi al riguardo dell’idea di ‘obbedienza’. Mentre alcuni credono che lo Shaykh debba essere obbedito in pieno, altri invece credono che la loro relazione con lui debba essere più che altro spirituale, e che debba tendere a migliorare e perfezionare la loro condotta”.
Dal canto suo, lo Shaykh sufi ‘Alaa Abu al-Azayem (dell’Ordine ‘Azamiyya), ha dichiarato in un’intervista ad Al-Monitor che “i Sufi non sono un ‘gruppo religioso’ come i Fratelli Musulmani o i Salafiti. Il Sufismo è un modo di vivere, dedicato a migliorare i comportamenti delle persone che ne fanno parte. I Sufi ritengono che lo Shaykh possa commettere errori, perciò non sono costretti ad obbedirlo ciecamente”.
Sufi, Fratelli Musulmani e Salafiti credono nel ritorno del Califfato o di uno Stato Islamico, in linea con il libro Al-Jafr, che è uno dei più famosi libri spirituali dello Shaykh sufi Muhammad Abu al-Azayem, dove si afferma che il Califfato Islamico sarà ripristinato ed adattato ai nostri giorni.
Analogamente, Rifaat al-Sayyed Ahmed, un analista politico, ha dichiarato ad  “Al-Monitor” che “il ritorno del Califfato Islamico è una nozione importante, esiste tra i gruppi religiosi, ma con un grado di flessibilità che si articola in modo diverso a seconda dei gruppi”.
Alcuni gruppi hanno un solo scopo: ripristinare lo Stato islamico, perché non credono nella legittimazione dello Stato laico. I Sufi rispettano lo Stato laico, considerando però lo Stato islamico come una profezia che potrebbe avverarsi”.
In una delle sue dichiarazioni, Abu al-Azayem ha detto di non credere al ritorno del Califfato Islamico. A detta di Abu Al-Azayem, i Sufi hanno fronteggiato il colonialismo in Egitto, nei Paesi Arabi ed in Africa. Ma essi non ripongono un credito assoluto nel Jihad e nella dichiarazione di “infedeltà” per chi non vi crede, come invece è l’abitudine dei Fratelli Musulmani e di alcuni gruppi salafiti.
In Iraq, i Sufi Naqshbandi hanno costituito delle milizie armate in seguito all’invasione statunitense del 2003. Il gruppo non ha limitato il suo ruolo a combattere contro l’invasione americana, ma secondo informazioni riportate da alcuni media esso sarebbe alleato dell’IS, il che avrebbe condotto per esempio alla caduta di Mosul.
Alcuni giornali inoltre hanno riportato che una coalizione degli Ordini sufi in Egitto è stata incoraggiata, già nel 2011, allo scopo di istituire una milizia atta a difendere i luoghi sacri dagli attacchi avvenuti dopo la rivoluzione del 25 Gennaio, anche se tali notizie sono state negate dai dirigenti di tale coalizione.
In una fatwa durante l’assemblea nella piazza di Rabia Al-Adawiya, nel 2013, i Sufi hanno dichiarato che chiunque uccide un membro dei Fratelli Musulmani o dei Salafiti è da considerarsi un infedele.
Tra le critiche mosse ai Fratelli Musulmani, vi è la relazione con l’ormai ex Partito Democratico Nazionale (NDP), quando alcuni attivisti hanno riproposto un’intervista condotta da un giornale egiziano all’ex presidente Mohammed Morsi (formalmente in carica per la commissione parlamentare elettorale dei Fratelli Musulmani). Nell’intervista egli ha dichiarato che i Fratelli Musulmani si sono coordinati con alcuni esponenti dell’NDP , perché essi sono dei simboli della nazione.
Ad ogni modo i Sufi possono essere criticati per le stesse ragioni, in quanto il gruppo prima aveva forti legami con l’NDP. Infatti lo Shaykh sufi ‘Abd el-Hadi al-Qasabi faceva parte del partito, dichiarando che i sufi erano disposti a cooperare in vista delle Elezioni Parlamentari.
Egli ha anche affermato che i Fratelli Musulmani hanno interessi in comune con l’Occidente, soprattutto con gli Stati Uniti. Ma anche i Sufi sono stati criticati a causa delle relazioni con altri paesi, tra cui l’Iran, il cui rapporto col regime egiziano non è stato ancora definito chiaramente. Tuttavia alcuni organi di stampa sostengono che l’Iran abbia fondato la Federazione Mondiale degli Ordini sufi.
Secondo Rifaat al-Sayyed Ahmed e Ahmed Ban potrebbe essere troppo prematuro ed ingiusto accusare i Sufi di essere fedeli ad alcuni regimi, in quanto l’esperienza politica sufi in Egitto deve ancora realizzarsi.
Ahmed dice che” l’ordine politico-religioso dei Senussi che ha governato in Libia prima della Rivoluzione era duramente criticato per i suoi rapporti con la Gran Bretagna, alla quale il regime ha permesso di stabilire basi militari sul territorio libico, in base al trattato del luglio 1953. Il regime ha permesso la stessa cosa anche agli USA in cambio di aiuti economici. Questa tra l’altro fu una delle ragioni che spiegano il progressivo affermarsi della Rivoluzione. I Sufi in Egitto non devono però essere giudicati alla luce dell’esperienza del regime dei Senussi in Libia”.
Ban e Ahmed sono entrambi d’accordo sul fatto che il Sufismo non ha caratteri estremisti e radicali e non cerca di proibire l’arte, come fanno altri gruppi religiosi.
Secondo Ahmed però i Sufi non credono nel modello liberale di assoluta libertà. Egli afferma che “il Sufismo sta nel mezzo, tra i gruppi religiosi radicali e l’eccessiva libertà che si può trovare in alcuni modelli politici. Il Sufismo è innanzitutto educazione religiosa. I Sufi credono nella rinascita della Sharia, e anche nel dovere delle arti, dei media e delle politiche statali di essere coerenti.
Tuttavia i Sufi sono i meno rigidi ed i più flessibili nell’applicare questa politica”.
Si può dire che Sufi, Fratelli Musulmani e movimenti salafiti condividono molti principi in comune, mentre le differenze stanno nella flessibilità della loro applicazione.
Ma questo potrà solo essere verificato nella pratica, verificando se i Sufi saranno più moderati dei Fratelli Musulmani. Finora gli indizi ci suggeriscono una certa somiglianza.

Fonte: Al-Monitor, 20 nov. 2014
Traduzione per Eurasia-rivista.org di Samuela Armenia

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DOSSIER IRAN E VICINO ORIENTE

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Ali Reza Jalali, Dossier Iran e Vicino Oriente, Irfan Edizioni, Rende (CS) 2014, pp. 86, € 10,00

Le dinamiche del Vicino Oriente, o Medio Oriente che dir si voglia, sono ormai all’ordine del giorno dei principali media nazionali e internazionali, per via dell’importanza strategica che questa regione del mondo, incastonata tra le principali potenze mondiali a livello militare ed econmomico (Unione Europea, Russia, India, Cina, Giappone, Stati Uniti), ricopre ormai da diverso tempo. Senza questo bacino energetico formidabile a basso costo – le principali riserve di gas e petrolio si trovano tra Golfo Persico, Mar Caspio e Mar Mediterraneo – le grandi potenze non sarebbero tali […] Questa pubblicazione, alla qualòe spero possano seguire nei prossimi anni altre, è un insieme di un anno di lavori di ricerca sui temi del diritto costituzionale, delle scienze politiche e delle relazioni internazionali; non uso la parola geopolitica, che ha una sua rilevanza specifica, anche se ormai sembra che questa materia sia molto approssimabile a quella delle relazioni internazionali. Il presente testo è concluso da un saggio del prof. Mohammad Reza Hafeznia, che ringrazio per la collaborazione, uno dei principali esperti di geopolitica e relazioni internazionali in Iran.

(Dalla Prefazione dell’Autore)

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LE ASSURDE SANZIONI ALLA RUSSIA NELL’ERA DELLA “CRISI”

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Pochi giorni or sono, prendendo spunto da una nota diramata dalla banca, la quale invitava i suoi correntisti a recarsi in filiale per bonifici verso paesi colpiti da “restrizioni ed embargo”, osservavo come sia del tutto controproducente e suicida un simile atteggiamento contro la Russia (e l’Iran e gli altri “cattivi”).
Il boicottaggio delle relazioni con Mosca ha davvero qualche cosa di folle perché lo si possa accettare sulla base di mai provate accuse circa le bellicose intenzioni del Cremlino e le ripetute grida sulle sue violazioni dei “diritti umani”.

Oltre a questo, vi è da rilevare la patente contraddizione tra l’ideologia professata dagli occidentali (il “libero mercato”) e la loro prassi, per cui non trovavo di meglio che definirla “la grande frottola della globalizzazione dei capitali. Pur tuttavia, gli strumenti tipici per creare problemi sono stati attivati, e tra questi l’ostacolo alle normali transazioni finanziarie.

Ma per comprendere come si è giunti a tanto, bisogna ripercorrere brevemente che cosa è accaduto con la fine dell’Unione Sovietica.
Fino al 1989 eravamo abituati a pensare ad un Europa divisa in due: una Occidentale, corrispondente a quella parte conquistata dagli americani nel 1945 ed inserita in gran parte nella Nato e nell’area d’influenza politica, economica e culturale dei nostri “liberatori”; un’altra Orientale, satellite dell’Urss, ovvero – fatte salve alcune realtà dotate di una certa autonomia – composta da quei Paesi che, a causa della “Cortina di ferro”, venivano fatti percepire al pubblico occidentale come lontani ed ignoti. Ma a tutti e due i contendenti stava bene così, con la regione euro-mediterranea – Italia compresa – teatro di una continua destabilizzazione, che in realtà serviva a stabilizzare, anche con l’ausilio dell’Entità politico-territoriale del movimento sionista detta “Stato d’Israele”.

Il simbolo di questa divisione a tutto nostro svantaggio era la Germania divisa in due (con altre sue parti smembrate un po’ qua e un po’ là), per cui sbaglia profondamente chi rimpiange l’epoca del Muro, dimostrandosi più innamorato dell’ideologia che della comprensione dei nostri reali interessi.
Poi, tutto d’un tratto, in maniera apparentemente inaspettata, il Muro s’è sbriciolato (o è stato fatto sbriciolare), e come in un effetto domino sono cadute (talvolta riciclandosi dopo aver trovato un capro espiatorio) le varie nomenclature di paesi che improvvisamente diventavano familiari e meno esotici, tanto che l’idea di “Europa” oggi s’è spinta fino all’Ucraina e al Caucaso, aree che prima dell’89 erano percepite come estranee dalla maggioranza degli occidentali.

Dal punto di vista geopolitico, il passaggio dall’Urss alla Csi ha rappresentato la corsa occidentale ad accaparrarsi il controllo delle regioni di quell’anello esterno che risulta fondamentale per la salvaguardia del “cuore” dell’Eurasia.
Ricorrendo anche alle “rivoluzioni colorate”, negli ultimi vent’anni è stato fatto di tutto per far entrare i paesi dell’ex “Europa Orientale” nella “Unione Europea” e nella sua orbita, che tutto è tranne che l’unione dei popoli d’Europa e che tra l’altro è un inganno anche dal punto di vista concettuale, come ho già avuto modo di argomentare.

Fondamentale, per capire la manovra a tenaglia ai danni della Russia, è poi importante sottolineare il fatto che prima che nell’Unione Europea (ed eventualmente nell’euro) questi paesi venivano inglobati nella Nato. A rimarcare che la Nato tutto è tranne che una “alleanza difensiva”.
Si tratta di cose risapute, ma è bene ribadirle: non è la Russia che minaccia l’Europa (e il mondo!), ma l’America e la sua ideologia. Nemmeno l’Urss, di fatto, oltre che garantirsi uno “spazio vitale”, ha mai mirato a sovietizzare quello che esulava dai suoi confini messi in sicurezza. Certamente possiamo discuterne la visione del mondo ufficiale, che possiamo condividere o meno, ma tutto si può dire dell’Unione Sovietica tranne che intendesse attaccarci. È semmai vero il contrario, e la verità è che, ieri come oggi, in mezzo, in uno scontro nucleare devastante, ci finiremmo proprio noi europei.

Questa fretta a fagocitare nell’Occidente quanti più paesi possibili dell’ex Patto di Varsavia era figlia di quella, ancora più forsennata e razionalmente inspiegabile, a concludere in quattro e quattr’otto, a tappe forzate, il “processo di unificazione europea”, a colpi di “trattati” e di moneta unica, che dal 1991, senza mai sottoporre alcunché al giudizio popolare (specialmente in Italia), ci ha portato dritti filati nella situazione di empasse politica e di grave crisi economica e finanziaria che tutti conosciamo.
Non si considererà mai abbastanza il fattore “fretta” per capire come mai, dall’oggi al domani, è stato inculcato ai cittadini dell’Europa Occidentale che si doveva assolutamente “fare presto”. L’Europa “unita” non poteva attendere.

È vero. L’America non poteva attendere che la Russia si riprendesse dopo essere riuscita a piazzare nei suoi apparati vitali un ubriacone e dei parassiti dediti alla dilapidazione delle ricchezze della Nazione.
Il risveglio russo, dopo i colpi inferti per tutti gli anni Novanta (si pensi all’attacco a Belgrado, che oggi sarebbe impensabile), stava nella legge naturale delle cose. E così è puntualmente avvenuto quando al Cremlino è andato Vladimir Putin.
Ma ci sono stati circa dieci anni devastanti, di cui ancora paghiamo le conseguenze. La fase di debolezza della Russia ha difatti coinciso con una stretta del nostro asservimento alla globalizzazione della Nato, la sionistizzazione di tutto il discorso politico ed un crollo verticale della nostra economia.

Oggi che la Russia è tornata un attore di primo piano, agli strateghi del “caos creativo” non resta che ricorrere all’embargo e al boicottaggio, sostenuti dal solito apparato di disinformazione mediatico.
Possiamo permetterci tutto questo? Lo si chieda alle imprese italiane che esportano. Non ai cretinetti dei “diritti umani”, che tanto per loro la “crisi” non c’è.

Bisogna assolutamente capire che il boicottaggio della Russia, così come quello di tutti i paesi presentati a tinte fosche (l’Asse del Male!), non è farina del “nostro” sacco, semplicemente perché non è nel nostro interesse. Al contrario, l’embargo alla Russia è nell’interesse di chi, costantemente animato da una fretta tremenda e sospetta, ci ha messo la camicia di forza di una “unione” che, stante il suo “commissariamento” perpetuo, previene le politiche autonome che ciascuno Stato europeo avrebbe potuto intessere con Mosca una volta caduto il Muro e venuto meno il diversivo ideologico della “Guerra fredda”.

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