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Channel: pantic – Pagina 20 – eurasia-rivista.org
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L’AVANZATA DELL’ISIS E I RISCHI PER LO SCENARIO MEDIORIENTALE

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Di fronte all’avanzata dell’ISIS in Iraq e in Siria e al rinfocolarsi del problema del fondamentalismo armato, che potrebbe riproporre un’emergenza terroristica su scala globale, si impone in maniera lampante una riflessione sull’utilità delle due guerre condotte dagli Usa nello stesso Iraq e in Afghanistan per debellare la minaccia terroristica. A prima vista esse non hanno prodotto i risultati sperati, anzi sembrano aver peggiorato il quadro della regione, che appare precipitato in uno stato di instabilità perdurante. Il nascente Stato Islamico dell’Iraq e del Levante con la sua crescente influenza nell’universo jihadista potrebbe riproporre una minaccia ancora più seria, come vedremo, rispetto a quella posta in passato dalla stessa al-Qaida, che l’ISIS sembra aver scalzato nei propri territori.
La storia dell’Iraq democratico sorto a seguito all’intervento militare americano – il cui governo si è poi appoggiato sempre più sul sostegno dell’elemento sciita – sembra essere giunta al capolinea. Baghdad è sul punto di cadere nelle mani dei miliziani dell’ISIS, dopo che questi, già forti del controllo del governatorato dell’al-Anbar, il 10 giugno scorso sono entrati in possesso della città strategica di Mosul (Falluja era già stata catturata in gennaio), mentre l’esercito iracheno non appare in grado di opporre alcuna resistenza efficace. Migliaia di profughi iracheni si riversano sulle frontiere del Kurdistan e della vicina Turchia, che ha minacciato più volte l’intervento a difesa dei propri cittadini iracheni (anche se essa finanzia in effetti i ribelli siriani contro Assad e ha interesse a debellare il PKK). Il confine (artificiale, disegnato a Versailles) che separava Iraq, Siria e Giordania è de facto divenuto inesistente, risultando completamente in mano alle forze ribelli. Senza contare il pericolo che i grandi stabilimenti petroliferi del paese vengano conquistati, contribuendo ad accrescere delle tensioni inflazionistiche sul costo del petrolio.
L’ intervento americano, sia tramite droni sia tramite invio di forze militari (di fatto impraticabile), è al momento da escludere. Obama nel suo ultimo discorso si è limitato a porre la questione di un coinvolgimento della componente sunnita, che ne è attualmente esclusa, all’interno della compagine governativa, auspicando una soluzione eminentemente politica della crisi. Al Maliki tuttavia sembra aver opposto un diniego alla creazione di un governo di unità nazionale accanto ai sunniti (1).
Dall’altro lato tale stato di cose, se si tenta una visione di lungo periodo del problema, appare, se non favorevole agli USA, ben lungi dal richiedere un intervento diretto degli Stati Uniti. Un persistente scenario di instabilità nell’area siriano-irachena, non sappiamo quanto provocato deliberatamente da Washington (sopratutto se si pensa ai finanziamenti dei Sauditi, del Kuwait e del Quatar soprattutto all’ISIS), potrebbe in futuro essere un’arma di ricatto a disposizione contro un Iran divenuto temibile con la dotazione di un eventuale arsenale atomico. Essa appare ad ogni modo una strategia rischiosa e a prima vista inspiegabile se si pensa ai 24 miliardi di dollari spesi dagli USA per armare l’esercito iracheno, e inoltre che potrebbe mettere seriamente in pericolo la stabilità in Medio-Oriente. Sebbene possa servire a rendere più malleabile l’Iran, potrebbe in realtà trasformarsi in un’arma a doppio taglio, se si pensa a quali potrebbero essere le conseguenze ad esempio per l’integrità di Israele e i pericoli di una accresciuta tensione tra Arabia Saudita e Repubblica islamica iraniana.
L’avanzata dell’ISIS risulta essere almeno in parte figlia della guerra civile in corso in Siria, le cui frontiere costituiscono un retrovia strategico per i guerriglieri operanti nel vicino Iraq e comandati da Abu Bakr al Baghdadi. Questi ultimi, ultrawahhabiti ed alleati con una componente non irrilevante di ex lealisti del regime di Saddam Hussein, erano un tempo contigui ad al-Qaida, che però ne ha ripudiato l’affiliazione, giudicando troppo radicali i propositi dello Stato Islamico (2). Lo sviluppo del fenomeno jihadista armato è però soprattutto una conseguenza del diffuso malcontento contro il regime di Al-Maliki, giudicato dispotico, che si trascina quanto meno dal 2011 con le proteste esplose nelle regioni del nord-ovest del paese duramente represse dal governo centrale, subito circondatesi di una legittimazione confessionale (l’appello anacronistico alla lotta contro i regimi “safavidi” non lascia dubbi).
L’intento della costituzione di una sorta di “califfato” sunnita tra le regioni a maggioranza sunnita di Iraq e Siria, con la prospettiva peraltro di un allargamento al “Levante” dello Stato Islamico (il che equivarrebbe a coinvolgere i territori di Libano, Giordania, Palestina e Turchia meridionale), non può che presupporre una genesi comune di tale fenomeno nei due paesi, tanto più che una parte del fronte al-Nusra siriano è confluito nell’ISIS, anche se le due organizzazioni tengono a mantenersi nettamente distinte, e se si tiene conto che lo stesso ISIS opera in Siria contro il regime di Damasco e contro altre cellule terroristiche antagoniste.(3) La polemica sorta tra al-Baghdadi e Ayman al-Zawahiri ha aperto serie divisioni in seno al fronte jihadista siriano, contribuendo a depotenziare il conflitto contro la permanenza di Assad al potere in Siria, la cui posizione appare più solida con la vittoria delle recenti elezioni.
C’è infine la questione del Kurdistan e delle sue pulsioni autonomiste, aggravate dal sorgere della minaccia ISIS. L’apparente avvicinamento tra governo centrale di Baghdad e Erbil, la decisione di Barzani, presidente della regione autonoma curda, di mettere a disposizione i peshmerga contro i miliziani sunniti, eventi determinati dalla volontà di contrastare la crescente emergenza jihadista, non possono in realtà nascondere le rivalità crescenti e il distacco tra le due realtà territoriali, tanto più che il Kurdistan si è mostrato fino ad ora padrone della situazione (anche se una rinnovata offensiva su Kirkuk potrebbe mettere in discussione tale predominio curdo) e in grado di svolgere un ruolo economico e politico crescente nell’area, come sembrano dimostrare i recenti colloqui avviati con Erdogan da parte di Barzani.(4) Il rischio è che al conflitto di natura confessionale, si sovrapponga anche quello etnico (arabo- curdo, per ora latente), il che determinerebbe la fine definitiva – ammesso che non vi sia già stata – dell’integrità territoriale irachena.

NOTE
1 http://www.lastampa.it/2014/06/25/esteri/iraq-maliki-gela-gli-usa-ed-esclude-un-governo-di-unit-nazionale-4615GUqHmiKe2a4rlUYtrI/pagina.html
2 http://www.presstv.com/detail/2014/02/07/349703/isis-too-extreme-for-alqaeda/
3 http://www.reuters.com/article/2013/05/17/us-syria-crisis-nusra-idUSBRE94G0FY20130517 e http://temi.repubblica.it/limes/al-qaida-ha-perso-lisis-liraq-ha-ritrovato-la-guerra-civile/58289
4 http://temi.repubblica.it/limes/guerra-a-isis-tregua-con-baghdad-la-strategia-dei-curdi-diraq/63539

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STEFANO VERNOLE E ALIREZA JALALI ALL’IRIB: USA E GB USANO TERRORISTI ISIS PER COSTRINGERE AL -MALIKI ALLE DIMISSIONI

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TEHERAN (IRIB)- Stefano Vernole, saggista e vice direttore della rivista Eurasia e Alireza Jalali, scrittore e analista delle questione del Medio Oriente e del mondo Islamico sono stati ospiti nel programma ‘Tavola Rotonda’ di questa settimana.
Le tematiche trattate durante il dibattito: il terrorismo takfiri in Iraq e nel Medio Oriente e l’aggressione israeliana contro la popolazione indifesa di Gaza.

Qui potrete ascoltare la registrazione dell’intervista.

 

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DE LA GINGHIS HAN LA IDEOCRAȚIE. VIZIUNEA EURASIANISTĂ A LUI NIKOLAI TRUBEȚKOI

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Prinţul Nikolai Trubeţkoi (1890, Moscova), binecunoscut ca fondator al fonologiei şi considerat, împreună cu Roman Jacobson, unul dintre întemeietorii revoluţiei lingvistice şi al “structuralismului”, a murit în 1938 la Viena, unde condusese catedra universitară de limbi slave. (Puţin înainte de decesul său fusese încarcerat de noii guvernanţi naţional-socialişti ai “Ostmark”.) Academia austriacă de ştiinţe a devenit, de aceea, un fel de administrator al moştenirii sale intelectuale. Însă până acum nu s-a manifestat intenţia de a publica, în afară de operele sale lingvistice, opera Rusia – Europa – Eurasia. Scrieri alese despre ştiinţa culturii[1], care îl indică pe Trubeţkoi ca fondator ar mişcării eurasianiste.
Un asemenea pas ar fi cu siguranţă încurajat de actualitatea conceptului Eurasia. Scrierile sale indică, totuşi, că susţinătorii unei axe Paris-Berlin-Moscova (în sens strict, o formulă pentru occidentalismul rus) sau ai unui mare imperiu rus pot face apel la Trubeţkoi într-o măsură foarte limitată. Din acest volum, pot profita, între altele, cititorii interesaţi de istoria ideilor, chiar cei care nu sunt neapărat eurasianişti, deoarece contribuţiile lui Trubeţkoi sunt relevante pentru înţelegerea raportului general care există între naţionalism şi universalism şi care retrezeşte un interes real pentru cunoaşterea ideilor sale originale mai cu seamă asupra istoriei ruseşti, idei fundamentate ştiinţific – în primul rând, desigur, pe filologia comparată – dar expuse într-un stil captivant.
Volumul conţine note, un indice şi o bibliografie şi, de asemenea, un text intitulat de către editor “Viziunea eurasianistă a lui Nikolai Trubeţkoi: hinterland şi efect”; dar cele mai importante sunt cele patru texte ale lui Trubeţkoi: “Europa şi umanitatea” (1920), “Moştenirea lui Ginghis Han” (1925), “Despre problema autocunoaşterii ruse” (1921-1927) şi “Ideocraţia ca ordine a societăţii viitoare după doctrina eurasianiştilor” (1927/1934).

Infestarea occidentală a Rusiei
“Europa şi umanitatea”, publicată deja în traducere germană în 1922, constă într-o amplă reflecţie asupra raportului corect dintre un naţionalism pozitiv şi cele două poziţii extremiste ale şovinismului şi cosmopolitismului. Dar Trubeţkoi demonstrează apoi că aşa-zisul cosmopolitism nu este decât o altă formă de şovinism, şovinismul civilizaţiei occidentale, pe care – într-o manieră cumva nefericită – Trubeţkoi o numeşte civilizaţia „romano-germanilor”. Aşa cum şovinii nu pot accepta să vadă propria naţiune la acelaşi nivel cu celelalte, ci trebuie să o ridice la rangul de unică naţiune acceptabilă, fapt pentru care cultura lor naţională trebuie impusă tuturor celorlalte, tot astfel se comportă şi cosmopoliţii cu civilizaţia lor occidentală, rezultată din iluminism şi secularizare. Misiunea civilizatoare a Occidentului, care astăzi îşi manifestă imperialismul cultural în confruntarea cu lumea arabă şi islamică şi pretinde acceptarea valorilor „universale” occidentale, este bine subliniată de Trubeţkoi şi demascată în inconsistenţa sa logică. Astăzi, când cosmopolitismul şi şovinismul american se revendică ca unică realitate şi adoptă formele occidentale ale creştinismului – protestantismul şi catolicismul reformat/deformat – prin planurile lor de agresiune, analizele lui Trubeţkoi sunt confirmate într-o manieră evidentă, chiar dacă, de fapt, el nu vorbeşte despre americanizare, ci despre europenizare. Ca efect, America este numai consecinţa extremă a acelor aspecte antitradiţionale ale Europei care au început să se manifeste prin Renaştere, Reformă şi Revoluţie.
Occidentalizarea, numită de Trubeţkoi europenizare, este „un rău absolut pentru orice popor non romano-germanic”, un rău contra căruia „se poate şi este chiar necesar să se lupte din toate puterile. Faptul acesta trebuie înţeles nu exterior, ci interior; nu numai înţeles, ci simţit, văzut, suferit. Este nevoie ca adevărul să apară în toată goliciunea sa, fără înflorituri, fără urme ale marii înşelăciuni, de care trebuie să fie curăţat. Este nevoie să acceptăm în mod clar şi evident imposibilitatea oricărui compromis: dacă lupta este inevitabilă, ea trebuie dusă până la capăt” (p. 88). O caracteristică esenţială a scrierilor lui Trubeţkoi este că ele se referă de obicei, ca fundament mai profund, nu la cultură, economie sau politică, ci la psihologie – sau la personalitate. Mai mult, pentru el trebuie să apară „o răsturnare totală, o revoluţie a psihologie popoarelor non ronamo-germanice. Esenţa acestei răsturnări este conştientizarea relativităţii a ceea ce pare, la o primă vedere, absolut, adică a „avantajelor civilizaţiei europene”. Aceasta trebuie eliminată cu radicalism nemilos. Poate că este dificil, foarte dificil, dar este absolut necesar.” (p. 88)
„Este nevoie de eliberarea popoarelor lumii din hipnoza „avantajelor civlizaţiei” şi de smulgerea lor din sclavia spirituală. Această misiune poate să fie îndeplinită numai printr-o cooperare unanimă. Nu trebuie pierdută din vedere nici măcar un moment esenţa problemei. Nu trebuie să ne abandonăm unui naţionalism particular sau unor soluţii partiale, precum panslavismul, panturanismul şi toate celelalte pan-isme. Aceste particularisme nu fac decât să ascundă substanţa problemei. Este nevoie să ne amintim mereu, cu hotărâre, că opoziţia dintre slavi şi germani sau cea dintre turanici şi arieni nu rezolvă cu adevărat problema. Opoziţia reală este una singură: romano-germanicii şi toate celelalte popoare ale lumii, Europa şi umanitatea.” (p. 89)
Cu aceste cuvinte se încheie „Europa şi umanitatea”. În acest moment, nu este suficient de clar ceea ce scrierile lui Trubeţkoi demonstrează în mod evident, anume că ceea este evocat este lupta împotriva Europei Iluminismului şi imperialismului, adică nimic altceva decât revolta împotriva lumii moderne. O „redresare” în sens tradiţional a Europei, care nu ar mai reprezenta anomalia majoră a umanităţii, ar putea încheia opoziţia evocată mai sus; când Europa ar recunoaşte ceea ce este în realitate, adică o peninsul a marelui continent eurasiatic, nu ar mai reprezenta marea anomalie a umanităţii. Lupta pentru recuperarea tradiţiei în Europa nu poate fi dusă în termenii unui „naţionalism particular” sau a unei anumite forme de „pan”-ism, ci numai împreună cu restul Eurasiei, împotriva Occidentului.
După Trubeţkoi, Rusia a recunoscut în întregime pericolul pe care Occidentul îl reprezenta pentru ea, dar nu a tras concluzia care se impunea, anume că, pentru a respinge acest pericol, trebuia, mai întâi, să obţină anumite succese. „Situaţia era complexă şi dificilă: pe de o parte, avea totuşi nevoie să înveţe pentru a se apăra; de pe altă parte, era teama de a nu cădea în dependenţă culturală şi psihologică în lupta cu Europa. Aşa cum popoarele Europei, deşi declarate creştine, nu au aderat la Ortodoxie, (…) spiritul european a fost perceput de către ruşi ca ceva eretic, păcătos, anticristic şi satanic. Riscul de a fi contaminaţi de o asemenea mentalitatea era foarte mare. Ţarii moscoviţi erau conştienţi de complexitatea situaţiei şi nu au ezitat să purceadă la deprinderea abilităţilor tehnice. (…) Mai devreme sau mai târziu trebuiau să se decidă să achiziţioneze la modul serios tehnologie europeană, luând, în acelaşi timp, măsuri severe de evitare a infestării occidentale. Petru I a fost cel care a luat decizia de adoptare a tehnologiei europene. Însă el s-a lăsat atât de mult condus de propria sa iniţiativă, încât ea a devenit un scop în sine, fără ca să fie luat contramăsuri eficiente împotriva infestării spirituale occidentale” (p. 124). Astfel, cu Petru I a început procesul de europenizare a Rusiei, care a produs consecinţe mai grave decât o ocupaţie militară: pierderea misiunii şi a moştenirii istorice, „moştenirea lui Ginghis Han”. Acesta este şi titlul operei pe care deja o discutăm.
După ce a descris procesul de europenizare condus de Petru I, cunoscut în Occident ca „cel Mare”, de la abolirea patriarhatului Moscovei până la introducerea în costumaţia feminină a decolleté-lui, el reafirmă: „E totuşi adevărat că marele plan al lui Petru I a fost motivat de patriotismul său, dar aceasta nu exclude faptul că este vorba de un patriotism cu totul aparte, lipsit de precedente înrădăcinate în sufletul naţiunii. El nu s-a îngrijit deloc de ceea ce era autentica Rusie istorică, prins cum era de visul său de a edifica un stat similar, sub toate aspectele, cu toate celelalte state europene, dar care să le depăşească fie ca întindere teritorială, fie ca putere militară şi navală. Abordarea sa, în confruntarea cu ceea ce pentru el era numai o substanţă din care trebuia plăsmuită enorma sa creaţie, era marcată nu de dragoste, ci mai degrabă de ostilitate, căci împotriva unei asemenea substanţe trebuia dusă o luptă dură şi nesfârşită, datorită rezistenţei întâmpinate de eforturile sale de a impune imaginea unui ideal cu totul străin de ea” (p. 127).
Adoptarea modelelor naţionaliste occidentale de către succesivele regimuri ţariste panslaviste a dus Rusia la amestecul permanent în chestiunile europene, din cauza ajutorului pe care ea intenţiona să îl dea presupuşilor „fraţi slavi”. „Puterea sovietică” înstăpânită în 1917 nu s-a prezentat „ca antagonistă, ci în calitatea de continuatoare a întregii politici anti-naţionale de europenizare, caracteristică monarhiei de după Petru I” (p. 142). „Cu distrugerea fundamentelor spirituale ale vieţii ruseşti şi ale specificului naţional, cu introducerea acelei concepţii materialiste despre lume care deja se impusese în Europa şi America, , cu supunerea Rusiei faţă de concepţii născute de teoreticienii europeni şi înrădăcinate în solul civilizaţiei occidentale, puterea comunistă a făcut din Rusia o provincie a Occidentului, confirmând cucerirea căreia Petru I îi pusese bazele” (p. 143).

 

Nobleţea nomazilor
Dar care este fundamentul adevăratei Rusia-Eurasia? Rusia-Eurasia este în primul rând, pentru Trubețkoi, „ereditatea lui Ginghis Han”. Triburile slave ”au locuit numai într-o parte puțin importantă a marelui teritoriu care include vechea Rusie” (p. 195). Cea mai mare parte parte a fost de fapt colonizată de triburile turanice (sau „uralo-altaice”). Aceste triburi nomade aveau o structură politică limitată. Doar Ginghis Han a fost capabil să edifice, primul, pornind de la „sistemul eurasiatic al stepei, un stat nomad unificat, cu o organizare militară stabilă”. El a reușit să rezolve problema istorică pusă de însăși natura eurasiatică – problema unei unificări politice a acestui întreg continent. El a înfruntat problema în unicul mod posibil: unificând stepa sub sceptrul său și astfel unificând restul Eurasiei prin intermediul stepei” (p. 96). Pentru statele asiatice deja existente, cum ar fi Persia și China, lucrul acesta a fost un adevărat dezastru: „consecința tuturor acestora a fost că Eurasia a profitat foarte mult dintr-un astfel de proces, în timp ce pentru celelalte țări el a fost foarte dăunător, deoarece cucerirea mongolă a invadat existența lor istorică privându-le de independență și întrerupându-le pentru multă vreme dezvoltarea culturală (…). Chiar dacă în aparență Ginghis Han a atribuit o importanță majoră cuceririi Chinei și restului Asiei propriu-zise, asta nu contrazice faptul că el a îndeplinit o prețioasă misiune istorică mai ales în Eurasia, devenind astfel constructorul unui edificiu istoric valid”. (p. 97).

În cartea sa „Ereditatea lui Ginghis Han”, care recent a fost publicată și într-o ediție italiană[2], Trubețkoi încearcă să reconstruiască istoria acestei „edificări”. Este o perspectivă istorică incitantă, subliniată cu caractere roșii, la care se adaugă, în calitate de complement lingvistic și etno-psihologic, studiul său „Despre problema autocunoașterii rusești”. Popoarele mongole și turcice sunt caracterizate aici pentru dragostea lor pentru simetrie, claritate, stabilitate și echilibru. Totuși, ele înțeleg aceste calități ca date, nu ca scopuri spre care să se tindă: „Încercați și găsiți acele scheme originale și fundamentale, pe care trebuie să se bazeze viața și viziunea asupra lumii, viziune care este asociată mereu în cazul popoarelor turcice cu un puternic sentiment de absență a clarității și stabilității. Datorită unui astfel de motiv popoarele turcice au adoptat mereu cu lejeritate scheme și credințe străine. Dar nu toate concepțiile lumii străine sunt acceptabile pentru aceste popoare. Pentru a fi acceptabilă, o concepție despre lume trebuie să posede elementele clarității și ale simplității (…). O credință religioasă, care este penetrată de mediul turcic, se întărește și se cristalizează inevitabil, fiindcă acolo ea are vocația de a juca rolul unui centru de greutate nemișcat, condiție principală a unui echilibru stabil” (p. 206). Pentru cea mai mare parte a popoarelor turcice, Islamul a devenit o credință care, alături de a lor, a asigurat o clară „cristalizare”; a-l combate e inutil, cu toate că șefii de la Kremlin – cu stilul lor rigid – au încercat să facă asta de aproape o sută de ani. Într-o manieră analoagă mongolii au adoptat budhismul.
În general, Trubeţkoi valorizează pozitiv contribuţia „tipului psihologic turanic”: „Psihicul turanic garantează stabilitatea culturală şi forţa unei naţiuni, întăreşte continuitatea istorică-culturală şi, în general, creează condiţiile favorabile pentru o folosire parcimonioasă a resurselor naţionale” (pp. 212-213). Pentru Trubeţkoi, psihologia este cheia potrivită pentru a înţelege sistemul statal al lui Ginghis Han. El distinge două tipuri de oameni. Pe de o parte, tipul slav, atent mai ales la propriile avantaje materiale, pentru care este capabil chiar de trădare. Este vorba de un tip uman de care Ginghis Han s-a folosit de multe ori, dar pe care l-a dispreţuit mereu, fundamental, şi căruia nu i-a făcut loc în imperiul său. Oamenii celei de a doua categorii sunt cei care „pun onoarea şi demnitatea personală deasupra comodităţii şi siguranţei proprii” (p. 99).
În cursul înfăptuirii ideii sale de imperiu, el a avut proba că primul tip se găsea alături de populaţiile sedentare, în timp ce „nomadul, fără înclinaţii spre munca fizică, atribuie o valoare destul de limitată comodităţilor materiale şi este obişnuit să-şi limiteze nevoile, fără a considera deosebit de neplăcute aceste privaţiuni” (p. 101). Alături de alte virtuţi militare şi de darul fidelităţii faţă de înţelegerile făcute, nomazilor le aparţin şi alte calităţi pe care Trubeţkoi le prezintă în paginile sale; printre acestea, „tradiţiile clanului, sensul viu al onoarei personale şi familiale, conştiinţa responsabilităţii nu numai faţă de antecesori, dar şi faţă de descendenţi” (ibidem). Trubeţkoi descrie un tablou idealizat al nomazilor, care îl evocă pe acela descris de autorul tradiţionalist Titus Burckhardt: „Este demonstrat că nicio altă colectivitate umană nu este mai conservatoare decât cea a nomazilor. În călătoria sa neîntreruptă, nomadul e atent să-şi păstreze moştenirea limbii şi cutumelor; el se opune conştient la eroziunea timpului, căci a fi conservator nu înseamnă a fi pasiv. Aceasta este o caracteristică fundamental aristocratică, de aceea nomadul aminteşte de nobil; mai exact, nobilitatea castei războinice are multe în comun cu nomadul”[3].

Ţar şi slavi
Nobilimea războinică a lui Ginghis Han a practicat şi toleranţa religioasă, dar nu indiferenţa pentru Absolut: „Asumarea din partea supuşilor săi a unei anumite religii era pentru el de o maximă importanţă. De aceea, el nu numai că tolera religiile în statul său, dar le susţinea pe toate cu vigoare” (p. 103). „Jugul tătar” a produs un efect religios pozitiv chiar şi pentru ruşi: „Cel mai important şi fundamental simptom al acestei perioade a fost o excepţională înflorire a vieţii religioase. (…) În această perioadă se poate înregistra o vie activitate creativă în toate domeniile artei religioase: pictura icoanelor, muzica sacră şi literatura religioasă au atins un nivel remarcabil” (p. 105). Statul rus, finalmente liber, care s-a născut din „jugul tătar” este văzut de către Trubeţkoi nu ca un contra-proiect, ci ca „moştenitorul şi succesorul statului lui Ginghis Han” (p. 118); în expansiunea ortodoxiei el vede un râuleţ al acelui torent religios care era deja iniţiat sub „jugul tătar”.
„Fundamentul întregului este construit de către religie, de către „credinţa ortodoxă”, dar „credinţa” era pentru conştiinţa rusească nu un conglomerat de dogme abstracte, ci un sistem coerent al vieţii concrete. Credinţa rusă  şi viaţa rusească nu erau separate” (p. 118), pentru că „întreaga viaţă a naţiunii şi toate activităţile erau determinate şi reglementate de Ţar, care era încarnarea voinţei naţionale şi acţiona ca transmiţător al instrucţiunilor lui Dumnezeu. Ţarul ideal este, de aceea, pe de o parte, responsabil pentru popor şi acţionează pentru el în faţa lui Dumnezeu, iar pe de altă parte el reprezintă instrumentul de mediere a deciziilor divine în viaţa naţională, astfel încât Ţarul este Unsul lui Dumnezeu în faţa poporului” (p. 119). În această parte a textului său, Trubeţkoi se apropie de concepţiile istorice ale slavofililor, cu excepţia notabilă că pentru el nu există o opoziţie esenţială între imperiul mongol şi cel ţarist: „Cu toate că fundamentele statului moscovit diferă de cele ale statului mongol, putem cu toate acestea să întrezărim caracteristicile unei  intime afinităţi (…). Atât în cadrul unuia, cât şi a celuilalt, exista o anume formă de viaţă cotidiană, legată de a anumită psihologie, care constituia fundamentul statului şi caracterul inspiraţiei sale. În imperiul lui Ginghis Han era stilul de viaţă al nomazilor, în statul moscovit era credinţa cotidiană în Ortodoxie. În ambele cazuri, disciplina statului se baza pe supunerea tuturor membrilor fără excepţie şi a regelui însuşi la un principiu non-lumesc, ci divin; subordonarea oamenilor unul altuia şi cea a tuturor faţă de rege era recunoscută ca o consecinţă a subordonării la principiul divin, al cărui instrument divin era regele” (p. 123).
De opoziţia dintre acest model rusesc şi cel al Europei occidentale ne-am ocupat deja; rămâne acum de analizat contrubuţia slavă la cultura rusă. Aici cea mai importantă afirmaţie a lui Trubeţkoi rămâne radicala sa negare a unităţii panslave, cu excepţia limbii literare. „Un caracter slav” sau „o psyché slavă” sunt mituri. Fiecare popor slav are tipul său psihologic specific, iar în caracterul său naţional un polonez e aproape la fel de puţin asemănător unui bulgar ca şi unui suedez sau grec. Nu există niciun tip antropologic, fizic care ar putea fi numit slav. „Cultura slavă” este şi ea tot un mit, fiindcă fiecare popor slav îşi elaborează propria cultură în mod separat, iar influenţele culturale reciproce pe care slavii le-au exercitat unii asupra altora nu sunt mai puternice decât cele pe care le-au suportat slavii din partea popoarelor german, italian, turc şi grec. (…) Ceea ce îi uneşte pe slavi este limba, mai ales limba” (p. 271). Dar chiar şi în ceea ce priveşte limba, rămâne faptul că cea care a dat pecetea proprie limbii literare a fost „biserica slavă”; tradiţia ecleziastică slavă nu a întărit-o „ca limbă slavă, ci ca limbă ecleziastică” (ibidem).
La sfârşitul studiului său despre autocunoaşterea rusă,  Trubeţkoi atribuie Ordotoxiei o poziţie centrală, în sensul că aceasta a ştiut să adune în sine tripla moştenire bizantină, mongolă şi slavă. „Pentru ruşi cultura bizantină nu era, de la început, separabilă de Ortodoxie; statul mongol a devenit stat moscovit numai prin contactul cu Ortodoxia, iar tradiţia ecleziastică slavă a putut duce cu sine fructul limbii literare chiar datorită faptului că era de natură ecleziastică şi ortodoxă.” (p. 272).

Ideocraţia
În scurtul său studiu despre ideocraţie ca ordine socială după doctrina eurasianiştilor, Trubeţkoi integrează unele idei pe care le-a subliniat deja în ordinea socială a lui Ginghis Han şi pe care le-am schiţat mai devreme. Noţiunea sa de „craţie” se referă la selecţia cadrelor statului. Să ne amintim că însuşi Ginghis Han a fost cel care a făcut această selecţie, pe baza unor precise caracteristici psihologice care erau prezente în ierarhia nomazilor şi nu în cea a populaţiilor sedentare. Sistemele sociale aristocratic şi democratic/plutocratic sunt considerate de Trubeţkoi moarte sau „aproape moarte”. Curţile monarhice încă existente nu mai sunt capabile „să influenţeze dezvoltarea culturală şi sunt constrânse să suporte pasiv civilizaţia. (…) La început toţi erau dornici (…) să imite (…) curtea.  Acum, dimpotrivă, membrii caselor regale se preocupă să nu „rămână în urmă” în ceea ce priveşte moda şi să „urmeze majoritatea”” (p. 278). Dar chiar „caracterul selecţiei democratice, care a înlocuit-o pe cea aristocratică, prezintă (…) trăsăturile decadenţei şi ale morţii. (…) Un adevărat „om modern” va vedea întreaga frazeologie democratică ca pe o reminiscenţă a trecutului, mai mult sau mai puţin ca pe o teorie a guvernului birocratic-aristocratic” (p. 279). Cu adevărat „moderne” erau, când Trubeţkoi scria aceste rânduri, bolşevismul şi fascismul, în care el întrevede prefigurări imperfecte ale tipului „ideocratic” de selecţie, adică al concepţiei comune clasei conducătoare. Această idee va părea familiară cititorilor lui Julius Evola, care gândea că oameni de origini sociale diferite, la început animaţi de un simplu spirit patriotic, au putut edifica, pe baza unei concepţii elitiste a statului, un tip de Ordine, pentru a deveni, apoi, gardienii unei noi orânduiri organice a societăţii[4]. Dar bolşevicii şi fasciştii nu pot fi văzuţi, după criteriile lui Trubeţkoi, ca ideocraţi puri. Bolşevicii se găseau într-o situaţie paradoxală, deoarece, din cauza ideologiilor materialiste, ei se găseau în tabăra opusă faţă de cei care guvernează pe baza unei „idei”: „Partidul, care exercită funcţia unei clase conducătoare ideocratice de facto, neagă teoretic orice existenţă autonomă a ideilor şi astfel însăşi posibilitatea ideocraţiei” (p. 281). Partidul Comunist al Uniunii Sovietice era constrâns să pară că la putere nu era el însuşi, ci proletariatul; făcând asta, a rămas prizonier în „patosul luptei”, o atitudine mentală tipic democratică, care a dus la „crearea artificială a unor obiective împotriva cărora trebuie luptat” (ibidem). Şi fascismul se găsea într-o condiţie paradoxală analoagă, prin aceea că „idea” sa era chiar refuzul „teoriei” şi a anumită idolatrie a „practicii”. „Rezultatul acestora constă în faptul că ideea fundamentală a fascismului îşi pierde conţinutul şi (…) se limitează exclusiv la idolatria naţiunii italiene, adică la o autoafirmare naţională. Weltanschauung-ul comun este înlocuit aici de o emoţie comună” (p. 281). Şi aceasta este o critică care ar fi putut veni de la Evola. Spre deosebire de aceste forme imperfecte, adevărata ideocraţie ar prezenta „o structură cu totul aparte, diferită atât de democraţie, cât şi de aristocraţie. (…) Vechile forme, incomplete, de ideocraţie nu s-au eliberat încă total de reziduurile şi fragmentele altor tipologii socio-politice precedente (în special cea democratică). Autentica ideocraţie a viitorului, odată purificată de toate elementele străine de sine, va naşte forme politice, economice şi sociale complet noi – de viaţă, de civilizaţie şi de cultură” (p. 283). Nu se poate nega că structura ideii care va trebui să fie baza ideocraţiei rămâne vag; totuşi, citind aceste părţi din Scrieri asupra ştiinţei culturii, se poate înţelege în ce direcţie se îndreaptă concepţia „ideocratică”. Ideocraţia trebuie să fie una dintre puţinele alternative rămase la forma de guvernare a tehnocraţiei „manageriale”[5], cu atât mai mult cu cât o asemenea concepţie se poate dezvolta în armonie cu tradiţia şi poate pregăti calea spre un Stat fondat pe ereditate, cum este moştenirea lui Ginghis Han sau cea a altor mari fondatori de adevărate imperii, foarte diferite de contrafacerile moderne imperialiste.

 

NOTE

[1] Nikolaj S. Trubeckoj, L’eredità di Gengis Khan, Editrice  Barbarossa, Milano 2005.
[2] Nikolaj S. Trubetzkoy, Russland – Europa – Eurasien. Ausgewählte  Schriften zur Kulturwissenschaft. Herausgegeben von Fedor B. Poljakov. Österreichische Akademie der Wissenschaften Philosophisch-historische Klasse, Schriften der Balkan-Kommission 45. Wien: Verlag der  Österreichischen Akademie der Wissenschaften, 2005.
[3] Titus Burckhardt, “Sacred Web”, No. 3, June  1999, p. 21.
[4] În altă parte am încercat să demonstrez că “islamul politic” al revoluţiei islamice iraniene ar putea fi interpretat ca un tip de ideocraţie platonică: Martin Schwarz, Khomeinis platonischer Idealstaat und die traditionalistische Schule (www.eisernekrone.tk).
[5] „Revoluţia managerilor”, descrisă de James Burnham, poate fi văzută ca o interpretare rivală sau suplimentară a fascismului şi bolşevismului, dar şi a capitalismului occidental, de vreme ce evidenţiază alte caracteristici inegalabile ale acestor sisteme.

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GAZA SITUATION REPORT (GEORGE FRIEDMAN ON STRATFOR JULY 14TH 2014)

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Traduzione, sintesi e commento di Corrado Fontaneto

Siamo di fronte al massacro perpetrato – ed in continuo aumento – dalle truppe israeliane nel territorio di Gaza. Gli antefatti sono noti: tre ragazzi israeliani sono stati uccisi da individui non identificati. La reazione è stata ferocissima. Prima un ragazzo palestinese letteralmente linciato vivo, poi un crescendo di attacchi aerei condotti sulla popolazione civile inerme equiparata (includendovi donne, anziani, disabili e bambini) a militanti terroristi a tempo pieno. Nel momento in cui scriviamo queste righe, Israele sta valutando la possibilità di un’invasione per via di terra che implicherebbe la presenza, nel territorio di Gaza, di carri armati e ruspe per uccidere persone e distruggere quelle poche cose che ancora segnalino la presenza di un insediamento umano.
Ancora una volta il direttore di “Stratfor”, George Friedman, nel suo editoriale rappresenta la realtà in un modo pittoresco, ammesso sia possibile impiegare un simile aggettivo in una tragedia come questa.
Il lettore, di primo istinto, seguendo il racconto ha l’impressione che Israele sia di fronte ad una potenza militare uguale alla sua, in possesso di armi che possono colpire indistintamente il territorio israeliano nel triangolo Tel Aviv, Gerusalemme e Haifa: per fortuna quindi che di fronte a questa pioggia di fuoco con cui – notare – Hamas attacca Israele (sic!) esiste la struttura di Iron Dome che blocca – fin che riesce, sottolinea il nostro (!) – questi attacchi violenti.
Subito dopo il nostro editorialista ammette – forse perché troppo anche per lui – che in realtà esiste una disparità di armamenti, nel senso che Hamas dispone di razzi mentre Israele di missili: in sostanza, è come se qualcuno combattesse le zanzare usando il bazooka. Dato l’evidente effetto comico prodotto, allora il nostro editorialista ripiega su (o aggiunge?) un’ulteriore ragione – forse ancora più surreale- per cui Israele debba ricorrere a questi sistemi: il suo servizio segreto – parliamo del Mossad, ovvero l’intelligence che fino a poco tempo fa si vantava di poter controllare in tempo reale tutti gli spostamenti dei capi e dei militanti di Hamas in tempo reale – non sarebbe stato in grado di fornire ai comandi militari informazioni complete circa il reticolo di tunnel in cui Hamas nasconde le armi con cui terrorizzare la popolazione israeliana e quindi un intervento di terra potrebbe risultare necessario per ovviare a queste carenze informative…!!! Infine, in un lampo di lucidità l’articolo si chiude ricordando che tutta l’attenzione del mondo è puntata su Israele e sulle sue successive mosse e che un attacco via terra avrebbe conseguenze imprevedibili.
Sulla falsariga di tali scempiaggini, vengono poi modellati servizi televisivi in cu stralunati giornalisti parlano dei razzi di Hamas all’interno di piccoli market israeliani dove le persone- in evidente stato di panico- raccolgono con calma le merce comprata o entrano con andatura rilassata nel locale per trascorrere questa – per loro – ennesima perdita di tempo che le distoglie dalle loro attività. Siamo alla manipolazione più sfacciata, conclamata ed evidente eppure nessuno che chieda lumi, ragguagli (men che meno al nostro governo): è un dato di fatto indiscutibile, non c’è nulla da obiettare ..così è se vi pare e se non vi pare è così lo stesso.

(articolo: http://www.stratfor.com/weekly/gaza-situation-report?utm_source=freelist-f&utm_medium=email&utm_campaign=20140714&utm_term=Gweekly&utm_content=readmore#axzz37RaBkCJw)

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IMPERIALISM SI IMPERIU

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Imperialismul e un capitol al vocabularului modern; neologisme de specie relativ recentă sunt în majoritate formele lingvistice ce apar cu ajutorul sufismului –ism, care vine și se adaugă elementului radical al adjectivului imperial, dând astfel subiectului o valoare semantică specială, pentru a indica tendința unui Stat de a se extinde pe o arie geografică mai vastă și de a-și exercita aici dominația politică, militară și economică.
Nu a trecut un secol din 1920, când Lenin nota că despre ultimele două decenii ale epocii lui, epoca relațiilor internaționale inaugurate de războiul hispano-american (1898) și de războiul anglo-bur (1899-1902), pentru a o califica, ”în publicistica, atât cea economică cât și cea politică a vechii lumi și a noii lumi va reveni mereu mai des termenul de imperialism” (1) și cita ca exemplară o operă intitulată exact Imperialism, pe care economistul englez J. A. Hobson o publicase în 1902 la Londra și la New York. Vrând astfel să indice conexiunea fenomenului imperialist cu caracteristicile sale economice fundamentale, Lenin formula celebra definiție a imperialismului ca ”eră a capitalului financiar și apoi a monopolurilor” (2). ”Un stadiu specific al dezvoltării economiei mondiale capitaliste” (3), reafirma Paul M. Sweezy.

Nu pare foarte diferită față de diagnoza fenomenului imperialist făcută de conducătorul bolșevic cea a unui exponent al gândirii contrarevoluționare, contele Emmanuel Malynski, care, în aceeași epocă, definea imperialismele ca ”megalomanii naționaliste valorizate ingenios de către rapacitatea capitalistă” (4). Apărător convins al ideii imperiale și apologet înfocat al edificiilor geopolitice distruse în urma războiului mondial și a revoluției bolșevice, aristocratul polonez scria într-adevăr: ”În epoca actuală, ca și în cele două decenii care o preced, noi vedem naționalismul marilor puteri orientându-se decisiv în sensul capitalismului și degenerând rapid în imperialism economic. Ele se vor găsi astfel pe un plan înclinat și vor fi atrase datorită unei conjuncturi de cauze și efecte către imperialismul politic. Astfel, la sfârșit, capitalismul internațional va conduce națiunile spre cel mai gigantic război care a existat vreodată” (5). Pe aceeași linie cu Malynski se afla și Julius Evola atunci când denunța ”contrafacerea imperialistă a ideii imperiale”, ca produs al ideologiei ”de tip naționalist, materialist și militarist” (7) sau al intereselor economice.

Considerat dintr-o perspectivă pur istorică, imperialismul ar putea fi definit astăzi ca „politica marilor puteri europene care tinde la crearea unor imperii coloniale care să domine teritorii extraeuropene din care să extragă materii prime, forţă de muncă şi în care să vândă producţia industrială naţională” (8), încât epoca sa „ar putea fi grosso modo delimitată în timp între 1870 şi izbucnirea primului război mondial, când împărţirea colonialistă era în mare parte terminată” (9).
Însă categoria de „imperialism” a fost folosită şi în legătură cu politica exercitată de către Statele Unite ale Americii în perioadele istorice de după primul şi al doilea război mondial; lucru care nu face decât să confirme că imperialismul este un fenomen tipic al epocii contemporane, corespunzând „unui stadiu specific al economiei mondiale capitaliste” (10) şi asimilabil internaţionalizării capitalismului, ce culminează în globalizare.

Fenomenologia Imperiului
În ceea ce priveşte categoria Imperiului, nu e uşor ca ea să fie definită, dată fiind marea varietate de realităţi istorice care i se pot atribui. Limitându-ne aici la cele care au apărut în aria mediteraneană şi a Orientului Apropiat, se poate constata că cea care a creat modelul originar al ordinii imperiale a fost civilizaţia antică a Iranului, cea care probabil a împrumutat din lumea asiro-babiloniană concepţia monarhiei universale. Dacă între graniţele Persiei fundamentul unei atari concepţii este doctrina omnipotenţei lui Ahura-Mazda, zeul creator al cerului şi al pământului care a atribuit „Regelui regilor” conducerea asupra diverselor popoare, în Babilonia şi în Egipt suveranii ahemenizi fac referire la forme religioase locale şi astfel „asumă caracterul de regi naţionali ai diverselor ţări, menţinând în fiecare dintre acestea figura tradiţională a monarhului de drept divin” (11).
Proiectul monarhiei supranaţionale inspirat lui Alexandru cel Mare de modelul persan se realizează, prin intermediul regatelor elenistice, în Imperiul Roman, care pentru alte patru secole garantează convieţuirea paşnică şi cooperarea unei mari comunităţi de popoare. Fundamentele sale concrete sunt ordinea legală comună (care convieţuieşte cu o diversitate de surse juridice) (12), răspândirea limbii latine (alături de greacă şi alte limbi locale), apărarea armată a graniţelor, apariţia coloniilor destinate a deveni centre de iradiere a influenţei romane în provinciile învecinate, o monedă imperială unică (alături de monedele provinciale şi municipale), o reţea bine pusă la punct de drumuri, transferurile de populaţii.
Ca urmare a căderii ultimului împărat al Occidentului şi a revenirii însemnelor imperiale Constantinopolului, Imperiul roman a continuat să existe pentru încă o mie de ani în aria orientală. „Structura statală romană, cultura greacă şi religia creştină sunt principalele izvoare ale dezvoltării Imperiului bizantin. (…) Imperiul, eterogn din punct de vedere etnic, a fost unit de conceptul roman de stat şi poziţia sa în lume a fost determinată de ideea romană a universalităţii. (…) S-a format o complexă ierarhie de state, al cărei vârf este împăratul Bizanţului, împărat roman şi şef al ecumenei creştine” (13).
Dar după două secole şi jumătate de la încercarea lui Justinian de a restabili puterea universală prin recucerirea Occidentului, un rege franc şi-a pus la Roma coroana imperială. Solidaritatea diverselor părţi ale Sfântului Imperiu Roman – locuite de popoare geloase în ce priveşte identitatea lor etnică şi culturală – se bazează pe legăturile de sânge care-l unesc pe împărat de suveranii care îi sunt subordonaţi, ca şi pe jurământul de fidelitate cu care aceşti suverani se leagă de împărat. Imperiul carolingian nu a supravieţuit mai mult de trei decenii fondatorului său; pentru a renaşte la viaţă, trebuia să se aştepte intervenţia altei dinastii, cea a Ottonienilor, şi transferarea capitalei de la Aquisgrana la Roma.
Cu Frederic al II-lea de Suabia, Imperiul părea a recupera dimensiunea mediteraneană. Dacă Regatul Germaniei e o imagine a Imperiului care oferă spectacolul unei comunităţi de neamuri diferite (saxoni, franci, suabi), versantul mediteranean al Imperiului lui Frederic prezintă o imagine a unor diferenţe şi mai profunde: trilingvismul latino-greco-arab al cancelariei imperiale reprezintă un mozaic de populaţii de origine latină, greacă, longobardă, arabă şi berberă, normandă, suabă, ebraică, care în plus aparţin unor confesiuni religioase diferite. De aceea Frederic, spune un biograf de-al său, „reunea în sine caracterele diverşilor suverani ai pământului; era cel mai mare principe german, împăratul latin, regele normand, bazileul, sultanul” (14). Tocmai acest ultim titlu face evident ceea ce este specific ideii sale imperiale: aspiraţia de a recompune unitatea spirituală şi puterea politică.
Ca urmare a cuceririi Constantinopolului de către Otomani, moştenirea Imperiului roman a fost revendicată de două noi şi distincte formaţiuni imperiale: în timp ce „Imperiul Romano grec şi creştin cade pentru a reveni sub forma unui Imperiu Romano turc şi musulman” (15), generând astfel „ultima ipostază a Romei” (16), Moscova se pregăteşte să devină „a treia Romă”, fiindcă, aşa cum scrie Benedict al XVI-lea, „fondează un patriarhat propriu pe baza unei idei a celei de-a doua translatio imperii şi se prezintă astfel ca o nouă metamorfoză a Sacrum Imperium” (17).
În Europa centrală şi occidentală, Sfântul Imperiu Roman de Naţiune Germană resimte efectul naşterii primelor State naţionale; dar cursul evenimentelor părea a se schimba cu Carol V, „campion al vechii idei europene care azi pare foarte modernă” (18), căci imperiul fondat de Carlo Magno se elibera de aspectul strict german pe care l-a avut între secolele XIV şi XV şi tindea să-şi recupereze caracterul iniţial supranaţional, pentru a-l menţine şi în secolele următoare, până la declinul Monarhiei habsburgice. Per tutto (În genere) Cinquecento-ul şi bună parte din Seicento Imperiul „a fost manifestarea istorică a unei forţe centripete care tindea să unifice diferitele regate în care creştinătatea se răspândise în evul de mijloc; capacitatea sa de agregare, de afirmare şi apoi de menţinere face să apară ipoteza existenţei unor posibilităţi ale istoriei europene altele decât cele care s-au concretizat” (19).
Cu pacea de la Pressburg, Francisc al II-lea a renunţat la demnitatea de Sfânt Împărat Roman, pe care cuceririle napoleoniene o goliseră de substanţa lor teritorială; în acelaşi timp, i s-a oferit lui Napoleon posibilitatea de a prelua moştenirea carolingiană într-un Imperiu de altă factură, un amalgam continental de teritorii ţinute împreună de puterea militară franceză şi conduse de cei care-i erau direct credincioşi Empereur-ului. Astfel, chiar şi exponenţii vechii aristocraţii europene sunt dispuşi să vadă în el „un împărat roman – un împărat romano francez, dacă se vrea, aşa cum primul era german, dar oricum un împărat, căruia Papa i-ar fi fost elemosinier, regii i-ar fi mari vasali, iar principii, vasalii acestor vasali. Un sistem feudal, prin urmare, cu un vârf al piramidei ierarhice care lipsea din vremea Evului Mediu adevărat” (20).

Regândirea Imperiului
Din această foarte limitată şi sintetică trecere în revistă istorică, care ar putea fi foarte bine extinsă de la cazul european la alte arii ale lumii, rezultă că Imperiul nu este pur şi simplu o mare putere politico-militară care exercită un control propriu asupra unui teritoriu extins. Imperiul poate fi mai degrabă definit ca „un tip de unitate politică ce asociază etnii, popoare şi naţiuni diverse dar apropiate şi reunite de un principiu spiritual. Respectuos cu identităţile şi animat de o suveranitate fondată pe fidelitate mai mult decât pe controlul teritorial direct” (21). Orice manifestare istorică a modelului imperial s-a configurat în fapt, dincolo de dimensiunea sa geografică şi de varietatea etnică şi confesională a popoarelor corespunzătoare, pe o ordine unitară determinată de un principiu superior.
În ce priveşte Europa, Imperiul a constituit mereu inima ideală şi politică a sa, centrul de gravitate, până când, cu decadenţa şi apoi cu dispariţia definitivă a celor mai recente forme imperiale, Europa însăşi să se identifice mereu mai mult cu Occidentul, până la a deveni un apendice al superputerii transatlantice şi un cap de pod al acesteia pentru cucerirea Eurasiei.
Dar unipolarismul cu comandă americană nu este etern; tranziţia la un nou „nomos al pământului” articulat într-un pluriversum de „mari spaţii” va reveni de acum înainte într-o perspectivă reală, aşa încât Europa va trebui, mai devreme sau mai târziu, să regândească modelul Imperiului, unicul model politic de unitate supranaţională pe care l-a dezvoltat în cursul istoriei sale.

 

NOTE

1. Vladimir I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, Milano 2002, p. 33.
2. Vladimir I. Lenin, L’imperialismo, fase suprema del capitalismo, cit., p. 140.
3. Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, New York 1968, p. 307.
4. Emmanuel Malynski, Les Eléments de l’Histoire Contemporaine, cap. V, Paris 1928; trad. it. Fedeltà feudale e dignità umana, Padova 1976, p. 85. De acelaşi autor: L’Erreur du Prédestiné, 2 vol., Paris 1925; Le Réveil du Maudit, 2 voll., Paris 1926; Le Triomphe du Réprouvé, 2 vol., Paris 1926; L’Empreinte d’Israël, Paris 1926 (trad. it. Il proletarismo, fase suprema del capitalismo, Padova 1979); La Grande Conspiration Mondiale, Paris 1928; John Bull et l’Oncle Sam, Paris 1928; Le Colosse aux Pieds d’Argile, Paris 1928. La Guerre Occulte, apărută la Paris sub numele lui Emmanuel Malynski şi Léon de Poncins în 1936 (cu doi ani înainte de moartea lui Malynski), a fost editată de mai multe ori în italiană între 1939 (Ulrico Hoepli, Milano) şi 2009 (Edizioni di Ar, Padova).
5. Emmanuel Malynski, op. cit., ibidem.
6. Julius Evola, L’Inghilterra e la degradazione dell’idea di Impero, “Lo Stato”, a. IX, 7 luglio 1940.
7. Julius Evola, Universalità imperiale e particolarismo nazionalistico, “La Vita italiana”, a. XIX, n. 217, aprile 1931.
8. Enrico Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, Milano 1997, pp. 81-82.
9. Enrico Squarcina, Glossario di geografia politica e geopolitica, cit., p. 82.
10. Paul M. Sweezy, The Theory of Capitalist Development, New York 1968, p. 307.
11. Pietro de Francisci, Arcana imperii, vol. I, Roma 1970, p. 168.
12. “Drepturile indigene au supravieţuit şi au continuat să fie aplicate în diversele comunităţi care au constituit Imperiul: dreptul „grecesc” (în realitate drept indigen reprodus de dreptul grecesc) în Egipt, dreptul cetăţilor greceşti în Mediterana orientală, dreptul cutărui sau cutărui trib în Mauritania sau în Arabia, drept ebraic (Tora) pentru evrei” (Maurice Sartre, L’empire romain comme modèle, “Commentaire”, primăvara 1992, p. 29).
13. Georg Ostrogorsky, Storia dell’impero bizantino, Torino 1993, pp. 25-26.
14. Giulio Cattaneo, Lo specchio del mondo, Milano 1974, p. 137.
15. Arnold Toynbee, A Study of History, vol. XII, ed. a 2-a, London – New York – Toronto 1948, p. 158.
16. Nicolae Iorga, The Background of Romanian History, cit. în: Ioan Buga, Calea Regelui, Bucureşti 1998, p. 138. Cfr. C. Mutti, Roma ottomana, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. I, n. 1, ott.-dic. 2004, pp. 95-108.
17. Josef Ratzinger, Europa. I suoi fondamenti oggi e domani, Milano 2004, p. 15.
18. D. B. Wyndham Lewis, Carlo Quinto, Milano 1964, p. 18.
19. Franco Cardini – Sergio Valzania, Le radici perdute dell’Europa. Da Carlo V ai conflitti mondiali, Milano 2006, p. 16.
20. Emmanuel Malynski, La guerra occulta, Padova 1989, pp. 48.
21. Louis Sorel, Ordine o disordine mondiale?, în L. Sorel – R. Steuckers – G. Maschke, Idee per una geopolitica europea, Milano 1998, p. 39.

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L’OPINIONE GLOBALE NEI CONFRONTI DEGLI USA

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Quando si prendono in considerazione sondaggi di opinione bisogna tenere sempre presente di non trovarsi dinanzi la verità o a una fotografia reale dello stato delle cose. Come per le ricerche di mercato è importante ricordare che non servono per migliorare i prodotti o la soddisfazione del cliente: servono a chi ha commissionato la ricerca per capire l’opinione diffusa e tentare di sfruttarla al meglio. Nel nostro caso ci soffermiamo su una ricerca d’opinione elaborata da un centro di studi statistici statunitense per un pubblico prevalentemente statunitense, e quindi questa particolarità va tenuta a mente dal lettore, anche più dei metodi di ricerca (1), sia perché chi elabora la ricerca ne modifica il fenomeno, sia perché il risultato finale ha degli scopi precisi che hanno inciso quindi su tutto l’elaborato.

Indagare sull’opinione mondiale nei confronti degli Stati Uniti oggi è di grande interesse perché può aiutare nell’analisi delle attuali e future mosse globali di Washington. In una situazione di rinnovata guerra fredda (2) torna d’attualità, seppur con profonde novità, lo scontro fra potenze che sono oggi, fortunatamente, non più soltanto due.

Di certo risulta che gli Usa rimangono la potenza globale con maggiore seguito, e non potrebbe essere altrimenti, ma l’interesse deve concentrarsi sulle variazioni di questa fiducia e su chi la esprime.

Le popolazioni che indicano come principale alleato gli Stati Uniti sono quelle di: Bangladesh, India, Indonesia, Giappone, Filippine, Corea del Sud, Thailandia e Vietnam. Di questi le popolazioni di Giappone, Filippine e Vietnam considerano la Cina come la più grande minaccia; dal Bangladesh si guarda con maggior sospetto all’India che a sua volta teme il Pakistan.

Bisogna invece guardare a Malaysia e Pakistan per trovare popolazioni che considerano miglior alleato la Cina e vedono la peggior minaccia negli Stati Uniti. Interessante invece che i cinesi vedano la Russia come alleato migliore e sempre gli Usa come minaccia. Chiaramente invece per gli americani i migliori alleati rimangono gli inglesi e la peggior minaccia rimane il classico impero del male, il che ci riporta in piena guerra fredda, ossia la Russia.

Come è evidente i maggiori cambiamenti nell’opinione mondiale riguardano il campo asiatico: negli ultimi anni l’ascesa di Pechino ha modificato la percezione di molti, il 53% delle popolazioni asiatiche dicono che la crescita cinese è positiva per la propria vita e invece è calato di circa il 10% il numero di coloro che vedono gli Usa come prima economia mondiale: oggi sono il 40% contro un incremento del 12% della Cina che si attesta al 31%. E’ dal 2010 che anche le popolazioni europee vedono la Cina come prima economia mondiale, anche se questo trend, seppur in contraddizione con i fatti globali, va diminuendo: le motivazioni sono tutte da trovare nella rinnovata propaganda a stelle e strisce che segue il nuovo scontro geopolitico con gli Usa tornati alla ribalta attraverso un’azione Nato molto aggressiva.

Rimangono quindi gli Stati Uniti la nazione più attrezzata nel diffondere il proprio marchio nel mondo, vero e proprio bene geopolitico da curare e perfezionare. Nonostante le ultime guerre e scandali relativi allo spionaggio, che hanno fatto calare la fiducia nei confronti della gestione americana dei dati personali, la potenza atlantica è ancora ben vista da gran parte delle popolazioni globali. E’ una media del 65% globale che esprime fiducia verso Washington, nello specifico il 74% dalla regione africana, 66% da Europa (ma da questa media è esclusa l’opinione dei russi) e Asia, 65% America Latina e soltanto 35% dal vicino e medio oriente.

Interessante quindi indagare sull’opinione nazione per nazione: gli italiani esprimono opinione favorevole alla politica Usa passando dal 76% del 2000 al 78% odierno. L’attitudine favorevole è aumentata anche per quanto riguarda i francesi che nello stesso arco di tempo hanno dimenticato del tutto il gollismo passando dal 62% al 75% di favorevoli. Curioso vedere invece la controtendenza dalla Polonia che passa dal 86% al 73% e del Regno unito dall’83% al 66%, mentre la popolarità degli Stati Uniti in Grecia è a un bassissimo 34%.
Non sorprende invece il dato russo: la fiducia nei confronti degli Usa riguarda una piccola fetta di popolazione ed è addirittura scesa dal 37% del 2000 al 23% attuale. Anche la fiducia degli ucraini, per rimanere nell’area è scesa dal 70% al 57%.
Nel vicino e medio oriente invece solo in Israele c’è una ottima opinione degli Usa all’84% mentre Egitto, Giordania, Turchia si attestano rispettivamente al 10, 12 e 19 per cento. Nei territori Palestinesi la fiducia verso gli Stati Uniti è del 30%, invece arriva al 41% e 42% in Libano e Tunisia.
Nella zona asiatica, a parte i picchi di fiducia nei fedeli alleati Filippine (92%) e Corea del Sud (82%), la media supera di poco il sessanta percento passando dal 50% cinese, al 55% indiano fino al non altissimo 66% giapponese. In Pakistan, come accennato, la fiducia verso gli Usa è al 14%, come vedremo anche a causa dell’utilizzo dei droni nell’area.
Se in Africa l’opinione diffusa è sempre abbastanza alta (in Uganda il picco più basso al 62%), in America Latina non sorprende la bassa fiducia degli argentini al 36%, invece sorprende, ma per questo rimandiamo alle premesse iniziali dell’articolo, il 62% dei venezuelani fiduciosi.

I cambiamenti, come dicevamo, sono l’aspetto più interessante: nell’ultimo anno, quindi dal 2013 al 2014, la popolarità Usa è calata maggiormente in Russia (-28%), Uganda (-11%), Brasile (-8%) è invece aumentata nei territori palestinesi del +14% (ma in questo caso bisognerebbe aggiornare i dati al nuovo attacco israeliano in corso questi giorni), in Francia (+11%) e Cina (+10%).

La forza del marchio Usa e quindi della propaganda nel diffonderlo si misura concentrando l’attenzione sulle giovani generazioni. Queste sono tutte generalmente più favorevoli agli Usa di quelle adulte: praticamente in tutte le nazioni si passa da un massimo di 25% verso percentuali più basse, della parte di popolazione giovane (18-29 anni) che apprezza gli Usa più di quella adulta (maggiori di 50 anni); in altre parole la popolazione giovane apprezza più gli Usa di quella adulta con percentuali considerevoli, soprattutto in popolazioni asiatiche (in Cina la differenza è del 21%), ma anche in Brasile (il gap è del 16%) e Russia (differenza del 10%).

Anche la popolarità di Obama pare difendersi bene, anche se ha subito importanti colpi: nell’ultimo anno ha avuto un calo in doppia cifra in Germania (-17%), Russia (-14%), Argentina (-13%), Brasile (-17%) e Giappone (-10%). In Cina invece la popolarità di Obama è cresciuta del 20%.

Oltre la crisi economica i temi che più hanno colpito l’immagine Usa nel mondo è l’utilizzo dei droni e le rivelazioni di Edward Snowden relative allo spionaggio militare, industriale e politico che gli Usa effettuano anche sugli alleati europei. Inoltre la competizione con la Cina comporta profondi mutamenti nell’area asiatica.
Curioso notare per esempio come soltanto la popolazione israeliana sia favorevole all’utilizzo dei droni (65%) addirittura con più forza della stessa popolazione americana (52%). Per il resto l’opinione diffusa è totalmente negativa. Allo stesso modo se si chiede alle popolazioni se gli Usa rispettano le libertà dei propri cittadini, in molti risponderanno più di anni fa che non li rispettano. Quasi solo i più stretti alleati asiatici, gli africani, Israele e a sorpresa gli italiani, credono ancora nella garanzia americana dei diritti della popolazione americana.

Come si accennava nella competizione globale ha un posto importante la Cina che va presa in considerazione in quante forte competitor degli Stati Uniti; Pechino non piace al popolo Usa: il 55% la guarda con sfavore, ma ancora peggio la vedono tedeschi (64%) ed italiani (70%); in generale tutta Europa ha un’opinione cattiva dell’Impero celeste (solo in Grecia i favorevoli sono di più) e questo è probabilmente effetto della nuova guerra fredda globale, con l’Europa occidentale saldamente dietro la cortina di ferro della Nato. Ovviamente in Ucraina e Russia l’opinione sulla Cina è fortemente favorevole (64%). E lo stesso succede in Tunisia e in Palestina. Molto significativa è invece la totale opinione favorevole espressa nei confronti della Cina sia in Africa che in America Latina.

In una situazione come quella attuale, in cui la gli scontri geopolitici stanno aumentando di intensità per via dell’affermarsi di un multipolarismo che minaccia l’unipolarismo dell’ex unica grande potenza Usa, l’opinione globale viene tenuta costantemente sotto controllo dagli attori, in special modo da quello americano che è meglio attrezzato al riguardo, in quanto è una delle armi con cui affrontare l’arena globale. Non è un caso se proprio in questi giorni come ambasciatore statunitense a Mosca sia stato nominato John “Terminator” Tefft, ossia un grande nemico della Russia; e se quest’ultima ha accettato la nomina il motivo è che ormai lo scontro è insanabile e ci si trova davvero davanti un’escalation in cui l’Europa si ritrova schierata suo malgrado. L’analisi geopolitica deve progredire per posizionarsi con maggiore efficacia ed efficienza così da compiere scelte che vadano a vantaggio della popolazione europea nel complesso e non solo del maggiore azionista della Nato.

* Matteo Pistilli è vicepresidente del Centro Studi Eurasia Mediterraneo e redattore di “Eurasia, rivista di studi geopolitici”.

NOTE
1. La ricerca è condotta fra marzo, aprile e maggio 2014 da Princeton Survey Research Associates International e rielaborata dal Pew Research Center http://www.pewglobal.org su campioni di popolazione adulta sulle diverse nazionalità, selezionate per regione e zona urbana, alcune tramite interviste faccia a faccia, altre attraverso interviste telefoniche.
2. La seconda guerra fredda, Eurasia, rivista di geopolitica XXXIV (2 – 2014). Collegamento: http://www.eurasia-rivista.org/la-nuova-guerra-fredda/21690/

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Крымские татары: между Турцией и Татарстаном

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Крымские татары стали единственной значительной этнической группой, бойкотировавшей референдум 16 марта по принятию Крыма в состав России.
Это не было удивительным: от «костров» Москвы 1571 года до депортаций сталинской эпохи, конфликты между Россией и крымскими татарами были многочисленными. Сегодня, когда Крым снова русский, татарский вопрос вызывает немалый интерес, но в реальности большее волнение проявляют Турция и республика Татарстан в России. Обе они движимы надеждой восстановить исторические, культурные и религиозные связи с братскими территориями, но будущие перспективы для них различны. Турция — член НАТО, однако, имеющая сильные отношения с Россией, в то время как Татарстан является частью России.

Краткая история крымских татар:

История крымских татар неразрывно связана с теми многочисленными турецкими племенами, заселявшими его влоть до конца VIII века. Первые прибывшие были хазарами, популяция ещё и сегодня окутанная ореолом тайны, особенно примечательная редкими случаями перехода в иудаизм. Среди их потомков мы находим караимы и крымчаки, а, по некоторым теориям, ашкеназийские евреи изначально, по крайней мере частично, были хазарского происхождения. Впоследствие на эти территории пришли половцы и печенеги, а в 13 веке Крым присоединился к монгольской Золотой Орде Чингисхана. Это собственно и стало моментом встречи монголов и турок, породивших впоследствие татар, которые впитали черты от всех народов, с которыми они входили в контакт с того времени, в том числе, конечно, и самих монголов, включенных в состав турецких популяций. Обращение в ислам крымских татар произошло в первой половине четырнадцатого века. Несмотря на это, в сохранении собственной веры общины – а также всех других немусульман — препятствий не было в обмен на плату (джизья).
В течение почти двух веков северо-центральная часть полуострова оставалась под контролем Золотой Орды, наследницы Монгольской империи, которая контролировала также территории нынешних России, Украины и Казахстана, в то время как на юге Горного Крыма были тогда византийские территории и некоторые генуэзские колонии. Войны между войскими Золотой Орды и византийских владений, Генуи, были нередки, и именно в этой части полуострова, в 1347 году, произошла одна из первых бактериологических атак в истории, когда татарские армии, окружившие крепость генуэзской колонии Каффа (ныне Феодосия) бросили несколько мертвецов – жертв чумы под стенами города, поощряя распространение чумы в Европе. Вскоре, однако, три события внесли значительный вклад в снижение влияния Орды. Первым был развенчание, в далеком Китае, монгольской династии Юань на Мин, этнических китайцев, которые могли бы привести к закрытию Великого шелкового пути, бывшим тогда важным фактором стабильности в Евразии. Вторым, спустя двенадцать лет, стала Куликовская битва, в которой русский князь Дмитрий Донской нанёс сокрушительное поражение армиям Золотой Орды. Историческое значение битвы, которой русская историография всегда уделяла почетное место, часто завышена (Московия, в конце концов, была притоком Орды до 1480 года), но его символическое значение нельзя недооценивать: Куликова битва, по сути, положила конец мифу о монгольской непобедимости. Третим событием стало поражение в войне против Тамерлана, хана Золотой Орды Тохтамыша, который ознаменовал провал его попытки забрать наследие империи Чингисхана. Между тем, на южных берегах Черного моря, Османская империя положила конец существованию колониям Византийской империи и достигла своего апогея.
Именно тогда центральная и северная часть Крыма и территорий северного побережья Черного моря составили Крымское ханство, которое в 1473 году стало вассалом Османской империи, в то время как область к югу от Крымских гор была помещена под непосредственный контроль Османской империи. Попытки Крымского ханства получить наследие Золотой Орды оказались бесплодными: сумев заключить союз с ханствами Казани и Астрахани и с Ногайской Ордой, они мало что смогли сделать, чтобы препятствовать захвату первых двух армиями Ивана Грозного. Тем не менее, на протяжении многих веков, Крымское ханство было настоящим бельмом на глазу Московии, проведя несколько рейдов по захвату рабов и даже пойдя грабить Москву в 1571 году. Не менее лёгкими были отношения и с Речью Посполитой (достаточно вспомнить о татарской поддержке казачьего восстания Богдана Хмельницкого в середине семнадцатого века); и, естественно, Ханство имело сильный союз с татарами и турками, на чьей стороне они воевали в различных войнах против Польши, России, Австрии и Персии. Это собственно было началом конца Османской империи, объявившей падение Крымского ханства, которому впервые пришлось отказаться от работорговли, а затем, между 1774 и 1783 от самого своего существования.
Территория Крымского ханства была включена в состав Новороссии, в области, соответствующей нынешнему югу Украины и Бессарабии, и стала своего рода новой границей. Были здесь и многие поселенцы, переселенные царскими властями, и среди них нашлось место даже небольшому итальянскому сообществу, поселившемуся в основном в Керчи, на одноименном проливе, который отделяет её от остальной части России. Многие татары, наоборот, встали на путь эмиграции: между 1785 и 1800 более пятисот тысяч эмигрировали, за ними последовали и тысячи других в связи с Крымской войной в середине девятнадцатого века и Русско-турецкой войной в 1877 году. Это привело к существенному изменению демографического баланса полуострова. Если в начале девятнадцатого века турецкий элемент преобладал, то уже в конце века полуостров был преобразован в своего рода смешение. Отмечено было достаточное большинство славянского элемента (русских и украинцев). Тем не менее, для тех татар, кто остался, жизнь не была несчастной. Когда в 1774 году Крым был фактически превращен в протекторат России (формальная аннексия последует только через девять лет), ислам был официально признан, религиозные права были соблюдены, и татарское дворянство имело высокий статус. Следующий век принёс расцвет татарской культуры и стал известен как “татарский Ренессанс”, что способствовало распространению образования среди татар и который касалось в основном татаров Поволжья, но и не преминул оказать сильное влияние на своих крымских сородичей: именно Крым дал самого знаменитого исламского мыслителя русской истории Исмаила Гаспиринского. Испытанием для культурного развития татар стало создание, в ходе Гражданской войны в России, Народной Республики Крым, первого светского мусульманского государства.
Победа большевиков привела к созданию Автономной Республики Крым, созданной РСФСР и имеющей в качестве официальных языков русский и крымско-татарский. Положение татар в новой Республике, однако, было двойственным. С одной стороны они могли получить выгоды той политики позитивной дискриминации, которая была проведена в пользу нерусских коренных этнических групп; с другой стороны позднее они были подвергнуты прогрессивной советизации, которая в случае крымских татар привела к замене арабского алфавита – которой, в глазах советских авторитетов, симболизировал «реакционное влияние мусульманского духовенства» – сначала на латиницу, а затем на кириллицу. В дальнейшем крымские татары, разумеется, также пострадали от негативных последствий насильственной коллективизации и “чистки” Сталина против диссидентов реальных или воображаемых. Но самое страшное для них случилось во время Второй мировой войны, когда Крым потерял свою мультикультурную основу и стал регионом с подавляющим преобладанием славянского населения. Нацистская оккупация означала смерть в лагерях смерти для евреев и крымчаков (караимы были избавлены от этой участи, потому что они являлись “турками”, а не “евреями”, ибо они практиковали иудаизм караимского толпа, а не раввинистского), в то же время сотрудничество некоторых крымских татар с Третим Рейхом толкнуло впоследствие советские власти, сразу после восстановления контроля над полуостровом, на организацию систематической их депортации в Сибирь и Казахстан.
После Второй мировой войны, советские власти осуществляли политику «детатаризации» полуострова. Полуостров был понижен в статусе от автономной республики до области, дискриминация в пользу татар была официально упразднена, а географические названия были заменены русскими. Смерть Сталина в 1953 году и последующий рост Никиты Хрущёва сопровождалась надеждой о реабилитации, но они вскоре разбились когда татары, в отличие от многих других групп заключённых, были приговорены к временной ссылке. И только во время перестройки они начали возвращаться в Крым, который стал территорией Украины, где они часто сталкивались с враждебностью властей и местного населения. В 2002 только чуть больше половины из примерно пятисот тысяч крымских татар, проживающих в различных провинциях бывшего СССР, вернулись на родину.
По данным переписи 2001 года 58,5% жителей полуострова составляют этнические русские, 24,4% украинцы, в то время как крымские татары составляют оставшиеся 12,1%. И, хотя депортации в настоящее время прекращены и не повторятся, жизнь, крымских татар часто бывает трудной. Никогда не бывшие официально реабилитироваными, у них не было права на выставение требований за советские депортации, сегодня многие из них занимают маргинальное положение в крымском обществе. Отношения между славянами и татарами совсем не идеальные. В качестве противовеса социальной маргинализации татары противопоставлют свою политическую активность. Основные организации крымских татар, Меджлис крымских татар, имеет прозападную ориентацию, и её лидеры призвали к бойкоту референдума 16 марта. Отношения между Меджлисом и нынешними крымскими властями являются до сих пор довольно натянутыми, несмотря на некоторые признаки открытости из обеих сторон. Не все из татар, однако, настроены антирусски: главный конкурент прозападных татар – движение Милли Фирка (от имени партии, которая в 1917 году учредила Народную Республику Крым), которое выразилось в пользу присоединения к России и Евразии. Критики обвиняют их в том, что они готовы принести в жертву интересы татар во имя амбиций своих лидеров, украинские власти обвиняют их в желании содействовать политике ассимиляции. И, учитывая продолжающуюся напряженность в Украине, крымские татары в настоящее время обхаживаемы Кремлем настолько же, сколько и Западом. Для первого, успокоение татар означает их защиту от внешних воздействий, способных поставить под сомнение устойчивость и управляемость российского полуострова, для второго же крымские татары – потенциальное бельмо на глазу Путина. Тем не менее, большая часть России, как и Запад, на самом деле культурно далеки от крымских татар, и те, кто сегодня действительно может претендовать на роль их «старшего брата» лишь Турция и российская республика Татарстан. И, если первая находится в промежуточном положении между Россией и Западом, и связана обязательствами членства в НАТО и партнёрством с Россией, с которой имеет сильные экономические и торговые отношения, вторая может быть ключом к стабилизации полуострова и интеграции крымских татар в Российскую Федерацию.

Турция и крымский кризис

Салоны западных столиц всегда готовы принимать близко к сердцу угнетения некоторых народов, возможно, неизвестных большинству, более могущественным врагом: достаточно вспомнить тибетцев во время их периодических восстаний против Китая, «арабскую весну» или некоторых коренных жителей Африки или Южной Америки в борьбе с растущей мощью транснациональных корпораций. На этот раз на этом почётном месте оказались крымские татары, представленные – не без оснований, как мы видели – в качестве жертв западных СМИ, которые иногда даже не понимает разницы между нынешней Россией и Советским Союзом. Как это часто бывает, к крымским татарам со стороны либеральных Нью-Йорка, Парижа или Берлина проявляется эфемерная солидарность по причине идеализации статуса жертвы в борьбе с более сильным противником, что тиражируется в СМИ. Совсем иные причины вызвавшие внимание к вопросу крымских татар в Турции. В Стамбуле, Анкаре и в глубине Анатолии, на самом деле, татары не просто угнетённые люди, но братья, и за братьев даже можно побороться: более двух веков разделения не смогли разорвать исторические, культурные и религиозные связи между двумя популяциями. Кроме того, некоторые турки сегодня могут похвастаться родословной хотя бы частично татарской по причине эмиграции. Поэтому неизбежно, что вопрос татар сегодня занимает ведущую роль в отношениях между Анкарой и Москвой.
В течение нескольких веков эти отношения были очень напряжёнными. Список русско-турецких войн очень длинный, и одна из них – та, из которой Великороссия вышла бесспорным победителем – именно проходила в Крыму. Причины напряжённости между Российской и Османской империями были разными. После последней неудачной попытки завоевать Вену, Османская империя вступила в период медленного, но неуклонного падения, в то время как Россия, наоборот, облачалась в имперские одежды. Именно в этот период русские цари начали вмешиваться больше и больше в османские дела в целях защиты христианского меньшинства на Балканах (сербы, греки, болгары …) и Кавказе (грузины и армяне), а, значит, завоевывая новые территории и создавая государства, находящихся под их влиянием. Россия, таким образом, в значительной мере способствовала упадку Османской империи, и мешало ей только вмешательство других великих европейских держав, которые не всегда любезно принимают и в наше время российский экспансионизм, стремясь предотвратить победное шествие казачьих лошадей до Константинополя, в котором Екатерина II мечтала о возрождении славы Византийской империи.
В послевоенный период, когда Турция стала национальным государством в западной ориентации и в ней отменили Халифат, она установила хорошие отношения с Советским Союзом. Но отношения между двумя странами снова ухудшились с началом холодной войны, когда Страна Полумесяца, после некоторых колебаний, вступила в НАТО. Только падение Берлинской стены привело к новому началу в турецко-русских отношений. Сегодня Россия является крупнейшим торговым партнёром Турции после Германии, и обе страны нацелены на повышение их товарооборота до 100 миллиардов долларов в течение следующего года. Одним из наиболее важных направлений сотрудничества между двумя странами, без сомнения, газ, как для Европы, так и для бытового потребления турок. Уже в 2003 году начал функционировать нефтепровод «Голубой поток», который связывает Россию и Турцию по дну Чёрного моря. В ближайшие месяцы, если позволят санкции страны должны начать строительство трубопровода «Южный поток», который соединит Россию и Болгарию — и через нее Юго-Восточную Европу, в том числе Италию – через турецкие территориальные воды Черного моря. Он, как его близнец «Северный Поток», направлен прежде всего на минимизацию роли третьих стран. Активно настроены туристические потоки между двумя странами, в частности из России в Турцию. В 2012 году россияне совершили около 3,5 миллионов посещений Турции. Россия заняла второе место после Германии по туристической посещаемости Турции, а также она является домом для большого турецкого сообщества. По мнению турецкого эксперта в области экономики Ибрагима Озтюрка, для Турции сотрудничество с Евразийским Экономическим Союзом было бы «более плодотворным, чем с Соединенными Штатами».
Что примечательно в турецко-русских отношениях – это огромный разрыв между плодотворным экономическим сотрудничеством двух стран и существенным различием собственных стратегических интересов. Позиции во внешней политике двух стран по острым вопросам, таким как Северный Кипр, Сирия и Нагорный Карабах, по сути, почти диаметрально противоположны, и внешняя «нео-османская» политика, принятая Турцией, может привести к новой конфронтации между противоположными интересами и влияниями не только на Балканах и на Кавказе, но также в Центральной Азии. Кроме того, не стоит недооценивать влияние пантюркизма, идеологии, которая предлагает объединение тюркских народов – особенно тех, что в мусульманской вере – под одним знаменем, где в частности неизбежно назначение роли “старшего брата” стране Полумесяца. Несмотря на то, что эта тема в настоящее время ограничивается, тем не менее она является потенциально дестабилизирующим фактором как для евразийской интеграции, так и для самой России, имеющей внутри сильнык тюркские меньшинства.
Одна из областей «риска» — именно Крым. Здесь риск возникновения новых оснований для конфронтации между Москвой и Анкарой может быть причинён тем, что последняя находится как между молотом и наковальней. Страна Полумесяца, как уже было сказано, имеет сильные экономические отношения с Россией, и ставить под угрозу свои хорошие отношения с ней для Турции очень трудно. Даже несмотря на высокие темпы экономического роста в последние годы, Турция остаётся значительно слабее её северного соседа, и в любом случае обязана укреплять свои отношения с ней. Кроме того, как Москва, так и Анкара переживают фазу внутренних проблемов и увеличения контрастов с Западом, хотя и по разным причинам, и всё более настойчиво отвергают западное культурное влияние. Отношения между Россией и Турцией, конечно, нельзя назвать любвью, но и развод, в настоящее время, по меньшей мере неудобен для обеих сторон.
Будучи страной-членом НАТО и стремясь стать членом Евросоюза, Турция не может игнорировать позицию Запада по украинскому кризису, и затем она также считает незаконным присоединение Крыма к России. Тем не менее, она не может не отмечать, что теперь позиции России на Чёрном море значительно укрепились, если до этого судьба российской чёрноморской базы была не ясна, то сегодня этот вопрос уже не существует. Кроме того, возник вопрос крымских татар, который, как уже упоминалось ранее, вызвал большую обеспокоенность среди националистов и около четырёх миллионов членов диаспоры. Многие из них критикуют не только Россию, но и примирительное отношение властей в Анкаре, призывая к более напористой политике по этому вопросу. “Мы видели этот фильм раньше, и мы не хотели бы увидеть его снова,” сказал по поводу референдума президент Ассоциации крымских татар в Стамбуле, с явным намёком на последних советских и царских правителей, в то время как один из парламентариев татарского происходения даже попросил позволения для турецкой интервенции (без указания военной или нет) на полуостров. Критика также последовала от Мустафы Джемилева, исторического лидера Меджлиса и одного из главных противников крымского референдума, который предложил турецким лидерам закрыть российским кораблям проход через Босфор и Дарданеллы. Среди татар есть тем не менее и «голуби мира»: вице-президент Ассоциации солидарности и культуры турок в Крыму Намик Кемаль Баяр заявил, что, в силу своего расположения, Страна Полумесяца могла бы выступать в качестве посредника между Россией и крымскими татарами.
Власти же Анкары заняли промежуточную позицию. Исподтишка подмигнув крымским татарам, обозначив им турецкую поддержку отказавшись признать результаты референдума, в котором многие из них не участвовали. С другой стороны, устами министра иностранных дел Ахмета Давутоглу подчеркнули необходимость урегулирования украинского кризиса путем диалога и выступали против введения санкций в отношении России. В любом случае кризис в Крыму не повлиял на турецко-росскийские отношения: Путин стал первым главой государства, который поздравил Эрдогана с победой его партии на местных выборах прошедших 30 марта, и через несколько дней после этого министр энергетики и природных ресурсов Турции Танер Йылдыз заявил, что «стратегические отношения между Россией и Турцией не могут быть повреждены в результате кризиса в Украине или другого инцидента». Всё это поспособствовало не малому осознанию важности для российского правительства татарского вопроса для Турции. Во время телефонного разговора 4 марта 2014 года Путин пообещал Эрдогану сильные гарантии для татар. И его слова не разошлись с делом: через неделю после разговора, на самом деле, крымский парламент принял закон, который предусматривает предоставление статуса официального языка крымскотатарскому языку наряду с русским и украинским, развитие образования – и повторное введение географических названий – на крымскотатарском языке, финансовой поддержки татар, которые хотят вернуться на свою историческую родину и гаранта для этого меньшинства 20% мест в крымском парламенте.
Условия для поддержания хороших отношений таким образом есть все, по крайней мере на бумаге. Указывая на своё “особое положение” в контексте Евразии и Средиземноморья, Турция воздержалась от принятия линии “конфронтации”, принятой Западом против России в результате украинского кризиса. Эта линия проявляется также в позиции, занятой Анкарой по вопросу диверсификации источников поставок газа в перспективе новой «газовой войны» между Россией и Украиной в Крыму: если бы кризис поставил под вопрос будущее Южного потока Йылдыз уже попросил Россию рассмотреть возможность усиленного использования трубопровода Голубой поток в обход Киева. Через несколько дней, Йылдыз даже предложил отклонение маршрута трубопровода «Южный поток» через территорию страны Полумесяца, для того, чтобы воссоединиться в будущем с Кавказом и в то же время сделать Турцию менее восприимчивой к резолюциям ЕС (Турция не является членом ЕС). Россия, со своей стороны, пока воздерживается от открытой полемики с Турцией, и в своей критике “двойных стандартов” Запада воздержалась от упоминания кризиса на Северном Кипре, несмотря на то, что не только казуз белли турецкой интервенции в Кипре является похожим на тот российской интервенции в Крыме (незаконный путч в контексте разделённой страны), а также то, насколько лишенны общих чёрт мирное вхождение в Россию полуострова, который древние греки называли Тавридом, и кровавое отделение (таксим) на двух частей (греческая на юге и турецкая на севере) острова, где Венера родилась. В конце концов, как указал востоковед Виталий Наумкин, русский медведь собственно и смотрит Серым Волком, только лишь чтобы способствовать развитию региона Крым.
Какой будет в будущем роль Турции в Крыму? Официальное признание аннексии исключено, но если ситуация в остальной части Украины будет требовать стабилизации, вполне вероятно, что Турция будет адаптироваться к новому статус-кво. Отсечь все связи с полуостровом не в интересах Турции, при этом помочь татарам не удастся: Крым в настоящее время русский, и вероятность того, что Кремль сделает шаг назад, уже не высока, и она стремится к нулю, если учесть, что, по сути, международная изоляция России принадлежит больше риторике Обамы, но не является реальностью. Маловероятно, что Крым быстро превратится в Мекку для турецких бизнесменов, несмотря на серьёзные налоговые льготы и бюрократические послабления, недавно введённые российским правительством, но признаков интереса пока не хватает. Национальный перевозчик Turkish Airlines и бюджетная авиакомпания Pegasus Airlines, например, планируют установить прямые рейсы в Симферополь. Турция, безусловно, продолжит следить за Россией по вопросу о татарах, но вряд ли будет вынуждена прийти к конфронтации: так как российская реальность с уважением относится к культурным и религиозным правам меньшинств, и случай Татарстана, как мы увидим ниже, является этому ярким свидетельством.
Однако, необходимо подчеркнуть, что риск обострения отношений между Россией и Турцией на культурной основе всё же существует. Страна Полумесяца в силу объективных причин, не может играть главную роль в кризисе в Крыму, и вручение орденов турецкой республики Мустафе Джемилеву, нынешнему Председателю Меджлиса Рефату Чубарову и другим татарским лидерам похоже в большей степени на попытку извиниться за эту невозможность. Тем не менее, всего в нескольких сотнях километров, витают новые возможные кризисы, которые могут повлиять гораздо более сильно и длительно на отношения между Москвой и Анкарой: признание Нагорного Карабаха как независимого государства или хуже, в качестве составной части Армении. Предстоящее вступление Еревана в Евразийский экономический союз, на самом деле, подняло проблему внешних границ последнего: тех, что затрагивают спорные территории между Арменией и азербайджанским сепаратистским регионом и они чуть более чем символичны (в отличие от тех армянского-азербайджанских проблем, на сегодня уже закрытых), и один из депутатов Армении даже заявил, что членство в Союзе Армении может привести к признанию Нагорного Карабаха в качестве обязательной части государства. Перспектива, которая очевидно мало нравится азербайджанскому правительству, которое устами одного из его высокопоставленных чиновников даже заявил, что “вступление Армении в Таможенный союз, или любую международную организацию этого типа, может быть возможным только после освобождения оккупированных азербайджанских территорий». Турция, как мы помним, является крупнейшим сторонником Азербайджана в карабахском вопросе, в том числе и в силу этнолингвистических и религиозных связей между двумя странами (близость Турции и Азербайджана такова, что, в течение длительного времени, язык Баку называют “турецкий в Азербайджане”). Девиз “Две страны – один народ” широко распространён не столько в Турции, сколько в Азербайджане. Один из сильнейших методов воздействия, которое Турция использует против Армении, является перманентное блокирование сухопутных границ между двумя странами: «Серый Волк» однако мог бы договориться с Таможенным союзом, который может похвастаться среди своих членов одним из её исторических врагов (которой тем не менее имеет второстепенное значение), но любое изменение ситуации в пользу карабахских армян пробудит умы националистов намного больше, чем это было в момент кризиса в Крыму.

Татарстан: старший брат «внутри»

Аннексия Крыма к Россию привела в действие механизм поддержки исламских меньшинств со стороны Федерации. В мечетях России идёт сбор средств в поддержку мусульман Крыма. Президент Чечни Рамзан Кадыров, лояльный Путину, объявил о строительстве новой мечети в Севастополе и восстановлении старого Фонда, имени его отца Ахмата Хаджи, религиозного деятеля, убитого чеченскими партизанами сепаратистами в 2004 году. Для Кадырова такая инициатива далеко не нова: после строительства в Грозном самой большой мечети в Европе, своего рода Чеченской версии мечети Сулеймание в Стамбуле в марте 2014 года, президент Чечни принял участие в открытии другой огромной мечети в арабо-израильском городе Абу-Гош, недалеко от Иерусалима. Из Башкортостана, Урал, прибыла партия лошадей для производства кумыса, кобыльего молока — типичного для центральной Азии. Тем не менее, среди различных республик в составе Российской Федерации, наиболее активной, несомненно, является Татарстан. Это связано с существенным сходством между татарами Волги и Крыма, а также с экономическим успехом республики и его традиционной ролью посредника между Россией и исламским миром.
Хотя даже здесь решающую роль играет геополитика, понять взлеты и падения сотрудничества Татарстана с организациями крымских татар очень трудно, не зная их исторического пути. Крымские татары, в том числе поволжские, родились от встречи монгольских орд Чингисхана с местными тюркскими народами и, в частности волжскими булгарами. Кроме того, как в Крыму, так и здесь, турецкий элемент не замедлил взять верх над монгольским, и установление ислама, который в начале четырнадцатого века стал официальной религией Золотой Орды, было благоприятно так как волжские булгары были мусульманами уже после десятого века. Монгольский период был, для татар периодом большой экономики и торговли, и Болгар, древняя столица Волжской Булгарии, стал одним из самых важных торговых центров Великого Шёлкового пути.
Всё это, однако, подошло к концу с упадком и распадом Золотой Орды, и в результате распалось на ряд независимых ханств. Два из них, Казанское и Астраханское ханства, пытались заключить союз с Крымским ханством и Османской империей, но были сметены армий Ивана Грозного в 1552 и в 1556. Другой преемник, Касимовское ханство, стало вассалом России и способствовало военному поражению первых двух. В течение следующих двух столетий, российские власти разрешили татарам сохранить язык – который также начал обогащаться русской лексикой – и обычаи, но не их религию. И хотя имперские власти, не колеблясь, использовали мусульманских татар в погоне за конкретными целями, переход в православие для последних был ключевой необходимостью для сохранения своих дворянских титулов или роста до самых высоких уровней дворянства и государственного управления. Так сформировалась группа христианских татар («крещенные» татары, по-татарски керәшеннәр) и немалое количество дворянских семей, в первую очередь Юсуповы, фактически были татарского происхождения.
Эта политика радикально изменилась в эпоху Екатерины II, которая в 1773 году предоставила татарам и другим нехристианским меньшинствам Империи религиозную свободу в обмен на верность. Была создана организация российских мусульман, первоначально расположившаяся в Оренбурге, а затем переехавшая в Уфу в Башкортостане, руководство которой было отдано волжским татарам. Основой для такого решения, однако, были причины не столько идалистические, сколько прагматичные. В контексте продолжающегося конфликта с Османской империей за контроль над Кавказом и Чёрным морем, риск того, что Османская империя могла использовать в своих интересах любое недовольство мусульман империи была высокой.
Девятнадцатый век и начало двадцатого были периодом большого интеллектуального брожения. Волжские татары и крымские играли ведущую роль в продвижении исламской реформы, которая сочетала в себе обращение внимания на вопрос образования и свободной интерпретации Корана (иджтихад) с пан-исламским духом и антиколониализмом. Это движение пользовалось большим успехом среди татар, а также среди казахов, в то время как консервативная часть Средней Азии была вовлечена в движение лишь частично, а именно небольшая горсть городской интеллигенции. В течение долгого времени это движение было поддержано, или по крайней мере не встречало противостояния со стороны центрального правительства: исламские реформисты не стремились к независимости, но требовали большей автономии в составе Российской империи, в которой, однако, высоко ценили роль и функции цивилизации. Цари же не скрывали свою надежду на то, что татары могли бы подвергнуть вестернизации (хотя, возможно, лучше сказать “русифицикации”) мусульман империи. Начиная с конца девятнадцатого века, однако, симпатии к Османской империи и к либеральным ценностям реформаторов стали рассматриваться Короной с подозрением, которая, не колеблясь вступила в союз с более консервативным духовенством. В советские времена, путь поволжских татар прошёл также как и аналогичные пути других народов Союза (в том числе, конечно, и самого русского народа), но, в отличие от своих собратьев в Крыму, они никогда не были жертвами систематического преследования или депортации.
Сегодня Татарстан является одним из самых процветающих регионов России. Республика, богатая нефтью, имеет прочную промышленность, особенно в области машиностроения, воздухоплавания и новых технологий; и, в отличие от республик Кавказа, Татарстан в Москву отправляет больше средств, чем получает. Последние десятилетия также видели активное восстановление всего татарского, как показывают возрождение языка, который был исключён из списка исчезающих языков, ежегодно составляемого ЮНЕСКО, и религии, как свидетельствует недавнее строительство мечети Кул-Шариф в Казанском Кремле, на месте одноименной мечети разрушенной в 1552 году войсками Ивана Грозного. В последние годы тем не менее был отмечен и рост националистической напряженности и, в частности, экстремистских групп, который в июле 2012 года привёл к бомбардировке двух важных исламских богословов из-за их сопротивления ваххабизму. Но в повседневной жизни, сосуществование различных этнических групп достаточно мирное и экстремистские тенденции, до сих пор, нашли мало места. Не удивительно, что не мало крымских татар, смотрит на Татарстан как на пример.
Татары Поволжья и Крыма всегда считалась братьями. Для историка и политического татарского деятеля Рафаэля Чакимова разделение татар Волги, Крыма, Астрахани, Сибири, башкиров, ногайцев и «крященов» по существу неверно. Тем не менее до событий несколько месяцев назад, официальных контактов между крымскими татарами и властями Татарстана практически не было. Крым был украинским регионом, и аннексия его Россией на самом деле последней не рассматривалась. Интерес со стороны властей Татарстана к крымским собратьям усилился сразу после начала событий в Крыму, и 5 марта 2014 года Президент Татарстана Рустам Минниханов прилетел в Симферополь, столицу полуострова, чтобы не только подписать меморандум о взаимоподдержке с новыми крымскими властями, но и встретиться с Председателем Меджлиса Рефата Чубарова. После референдума в Крыму, который, как известно, имел почти стопроцентное единодушие, сотрудничество Татарстана с новыми крымскими властями (среди которых есть поволжский татарин Рустам Темиргалиев, первый заместитель главы республики), а также с Меджлисом и другими объединениями крымских татар приобрели резкое ускорение.
Что касается отношений с властями Крыма, то уже есть первые результаты: открытие постоянного представительства Татарстана в Симферополе, которое состоялось 29 марта 2014 года, визит группы бизнесменов Татарстана из различных секторов, от ветряных мельниц до продажи халяльной пищи, организованный местным центром содействия предпринимательской деятельности. Это, как говорят организаторы, первое мероприятие такого рода, организованное административной единицей, последней вошедшей в состав Федерации. Власти Татарстана также высказали предложения выступить в качестве посредника между российскими властями, с одной стороны, и крымскими татарами – и, в частности, Меджлисом – с другой, для того, чтобы помочь им в интеграции в российские государственные структуры, а также усилить их роль в федеральном контексте и восстановить первоначальную роль среди мусульман России, со времен имперской эпохи.
Властям Казани, в последние месяцы, удалось занять нишу между Путиным и крымскими татарами. Среди гостей на историческом заседании 29 марта, в ходе которого была удовлетворена просьба о признании культурных и территориальных прав крымских татар, мы могли видеть Минниханова, Президента Совета муфтиев России Равиля Гайнутдина и других представителей татарской политической и интеллектуальной элиты. Несмотря на резкий тон, используемый против референдума за несколько дней до этого, присутствие этих персон и отсутствие на заседании национального гимна Украины, традиционно исполняемого в начале каждого заседания, а также Мустафы Джемилева, наибольшего противника сотрудничества с Россией среди лидеров Меджлиса, можно интерпретировать это как признак готовности вступить в диалог с властями Москвы. С другой стороны, первой говорить о территориальной и культурной автономии стала председатель Совета Федерации России Валентина Матвиенко. Через два дня уже ряд лидеров Меджлиса высказались в пользу сотрудничества с новыми властями Симферополя, а владелец телевизионного татарского канала ATR Лемур Ислямов был назначен заместителем председателя Совета Крыма. В последующие недели Минниханов оказал небольшое давление на Путина по вопросу реабилитации крымских татар, в чём правительство Украины долгое время отказывало крымским татарам. Татары были официально реабилитированы в 21-го апреля, а ещё мера встретила колебания, или даже несогласие, лидеров Меджлиса, некоторые из них требуют признания крымских татаров титульной нацией и восстановления позитивной дискриинации советского времени. Рустам Темиргалиев, наоборот, назвал реабилитацию «историческим моментом».
Каково будущее отношений между крымскими татарами и Татарстаном? Многое будет зависеть от развития ситуации в Украине, отношение российских властей к основным лидерам крымских татар и этнических отношений на полуострове. Татарский мир сегодня в большей стпенеи разобщен, чем до украинского кризиса, и «ястребы», «голуби» и откровенно пророссийские организации соперничают за главную роль. И вполне вероятно, что Путин намерен дождаться принятия нового статуса Меджлиса прежде, чем идти на дальнейшие уступки. В любом случае, отношения между Меджлисом и властями России пока напоминают принудительный брак. Первый вынужден, ради людей, которых он представляет, искать соглашения с Россией, российская власть, со своей стороны, не может игнорировать основные организации крымских татар, особенно в нынешних условиях.
Отношения же между Меджлисом и Татарстаном всё ещё сложные: контакты интенсивные лишь сегодня, и если крымские татары и получили большие уступки, и заслуга в этом, по крайней мере частично, властей Казани, тем не менее все же нет недостатка в противоречиях. По случаю визита в Татарстан, 26-29 апреля некоторых из лидеров Меджлиса – в том числе вице-президента Наримана Джелалова – для провозглашения Казани как Турецкой культурной столицы мира на 2014 год и празднования 120-летия со дня рождения народного татарского поэта Габдуллы Тукая, по сути, были подписаны ряд соглашений, в том числе и ранее упомянутый контракт на реконструкцию Дворца ханов, но так и не была достигнута договорённость о сотрудничестве с Всемирным Конгрессом Татар, что, по сути, было основной целью визита. Делегация высоко оценила способность крымских татар сохранить своё культурное наследие и подчеркнула важность связей с Татарстаном, но обсуждение соглашений о сотрудничестве назвала преждевременным, пока не будут урегулированы отношения между крымскими татарами и правительством России. (дополнение: соглашение между Междлисом и Всемирным Конгрессом Татар был подписан в 26-го мая)
Эти трудности чётко связаны с контекстом, в виду которого крымские и волжские татары находятся, хотя и невольно, но на противоположных сторонах. Несмотря на доброжелательное отношение, власти Татарстана по-прежнему часть истеблишмента в Москве, а это, в глазах их братьев в Крыме, ставит их в такое же положение, в каком они были в девятнадцатом веке, когда они часто рассматривались как наиболее русифицированная мусульманская часть империи. Несмотря на несомненное влияние Империи, татары Поволжья далеко не мостом были между двумя мирами, а иногда были и вовсе в трудном положении, не являясь полноценной частью ни одного из них. Пример Татарстана, по сути, является результатом русского духа в плане межэтнических отношений, то есть терпимости в обмен на послушание властям. В связи с этим, русский политолог Александр Панарин говорит о разнице между «правами человека» в западном стиле и стиля «прав народов», которые, хотя и в разных формах, но характеризует имперские государства. В первом случае мы имеем сильный акцент на права отдельных лиц, но гегемонский подход в отношениях между народами. Во втором случае, мы имеем своего рода правовой плюрализм. Свобода самоуправления меньшинств, особенно религиозного, гарантируется, даже если их законы и обычаи резко противоречат интересам большинства, но это компенсируется сильной властью, которая действует как гарант стабильности. В России такое отношение является нормой, особенно с восемнадцатого века, когда страна уже превратилась в многонациональную империю, в которой этнические меньшинства, особенно религиозные, сформировали население. Вмешательства в дела различных этнических групп были на самом деле довольно редкими, военные академии и высшие чины администрации и дворянства не были закрыты для представителей групп меньшинств, в России никогда не было недостатка в «нерусских», сделавших огромные состояния и состоявшихся в деловом мире. И, если и было место гонениям, то обычно это происходило в результате беспорядков в стране, и очень редко имело такой же системный характер как, например, истребление индейцев в Северной Америке или изгнания мавров и евреев из Испании. Хотя чрезмерная зависимость от царского режима с традиционными государственными структурами на завоеванных территориях во многих случаях привела к кристаллизации кланов, групп солидарности и всевозможных местных властителей, благодаря именно такому отношению, татары – как и многие другие российские этнические меньшинства — смогли сохранить свою идентичность. Поэтому есть надежда, что в перспективе такое положение дел должно привести к постепенному устранению барьеров и взаимных подозрений. В конце концов, как один французский дипломат сказал: «Посреби русского и найдешь татарина».

Giuseppe Cappelluti (Джузеппе Каппеллути) – итальянский журналист, исследователь, эксперт в области геополитики. Получил Диплом языковеда в 2013 г. в Университете Бергамо (Италия), с дипломной работой об отношениях между Россией и Казахстаном. Занимается вопросами, касающимися истории, геополитической ситуации и межэтнических отношений в странах бывшего СССР. Пишет для итальянского журнала геополитики “Евразия”.

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UN ESEMPIO DI “SOFT POWER” OCCIDENTALE: LA PROPAGANDA OMOSESSUALE CONTRO LA RUSSIA

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Per comprendere correttamente la propaganda omosessuale esercitata dall’America e dai suoi alleati contro la Russia, è necessaria una premessa che permetta d’inquadrare la questione nel più vasto contesto di quelli che vengono definiti i “valori occidentali”.
Tra questi si contano senz’altro quelli della “libertà” e della “tolleranza”.
Bisogna però intendersi bene su cosa s’intende con queste parole.
Per l’occidentale medio moderno – ovvero colui che è il portato di almeno due secoli e mezzo di speculazione filosofica illuminista e laicista, delle “rivoluzioni” politica, industriale e tecnologica, oltre che di due guerre mondiali che ne hanno minato le preesistenti “certezze” – concetti come “libertà” e “tolleranza” trovano il loro fondamento nell’idea che ciascuno disponga di un inalienabile “diritto di scelta”.
Un “diritto” che si esplica dall’acquisto di un prodotto all’abbigliamento preferito, dalla preferenza per il luogo in cui vivere a quella per una religione o un’altra, fino alla libertà di scelta del genere sessuale.
Di pari passo, l’occidentale soddisfatto di essere “moderno” considera il “relativismo” quale la pietra angolare di ogni relazione sociale e culturale. Ogni “assoluto” è apertamente considerato un retaggio di una mentalità “barbara e retrograda”.
Il “relativismo”, a sua volta, si sposa con l’individualismo e l’utilitarismo: l’essere umano, che si concepisce come mero “individuo” in grado di prescindere da ogni dimensione nazionale e comunitaria, opta per ciò che più gli fa comodo in un certo momento.
Siccome tutti sono incoraggiati (dai “media” e dagli “intellettuali”) a pensare e a comportarsi in questo modo, ecco che l’Occidente postula un mondo senza più “confini”, fisici o mentali che siano. La nozione stessa di “limite” dà tremendamente fastidio.
L’uomo moderno si considera di conseguenza come il più “aperto” tra tutti i suoi simili che lo hanno preceduto o che ancora si “attardano” su visioni del mondo “del passato”.
Ma sebbene tutto ciò sembri preludere ad una radiosa “nuova era” dell’umanità, di cui l’Occidente coi suoi “valori” sarebbe l’avanguardia, c’è da considerare il fatto che vi è un Grande Assente.
Il Grande Assente è Dio.
Bisogna tuttavia intendersi. Anche nell’Occidente propriamente detto esistono uomini per i quali Dio ha un posto nella loro vita. Ma il più delle volte “l’idea di Dio” che si fanno è quanto mai distante da quella che tradizionalmente si sono fatti tutti i popoli e le civiltà precedenti.
Il ‘dio occidentale’ – ovvero la maniera in cui i moderni s’immaginano il Principio, l’Origine di tutte le cose – è una proiezione delle loro predilezioni e dei loro desideri più o meno frustrati ed inconfessati. Un “dio” siffatto è l’anticamera del “mondo senza Dio”, poiché per tutte le tradizioni religiose che ci hanno preceduto Dio “ha parlato”, indicando chiaramente ciò che è giusto e ciò che è sbagliato per le Sue creature. Destinate alla beatitudine o alla dannazione.
Per il “pensiero moderno”, detto “laico”, ciò è inconcepibile. Per esso è l’uomo a dover decidere, in prima persona, quel che è “bene” e quel che è “male” per lui. La religione, in un simile contesto, finisce per svolgere un ruolo ‘consolatorio’, oltre che quello di agenzia per il sostegno di alcune categorie di “bisognosi”.
Le conseguenze devastanti dell’ateismo di fatto occidentale non sono forse ancora state considerate appieno, né si sono manifestate in tutta la loro funesta tragicità.
Il risultato, comunque, comincia a delinearsi chiaramente, e va sotto il minimo comun denominatore del “caos”. Una mancanza di un Ordine, quello patito dalle “società occidentali”, che non può non estendersi al basilare ambito dei sessi e delle relazioni tra di essi.
Nelle suddette aggregazioni umane regolate in base allo schema “contrattualistico” (simulata societas), opposto a quello “natural-comunitario” (innata societas), ciascuno viene educato alla massima del “fai come vuoi”, la quale, tanto per chiarire ulteriormente le cose, era la stessa di Aleister Crowley, considerato uno dei capostipiti del Satanismo moderno.
Siamo partiti dalla “libertà” e dalla “tolleranza” e ci troviamo nel Satanismo.
Non è affatto uno scherzo, né un’esagerazione.
Il Satanismo, ridotto alla sua essenza, è – più che l’adorazione di qualche strano essere raffigurato con le sembianze d’un caprone – la deificazione di se stessi, di quell’ego illusorio che ogni tradizione religiosa regolare indica come il “nemico principale” (e fondamentalmente l’unico).
Questo nemico dell’uomo, che gli è più vicino della sua stessa vena giugulare, che non l’abbandona mai e, anzi, eleva il tiro a seconda del grado di realizzazione spirituale di ognuno, è alla base di ogni deviazione moderna, da quelle teologiche a quelle politiche, da quelle economiche a quelle culturali eccetera.
Non si va lontani dal vero affermando che il “mondo moderno” è un ambiente nel quale le forze più basse che traggono l’uomo nei recessi più reconditi ed oscuri della sua coscienza confusa hanno avuto, mai come ora, una piena libertà di esprimersi.
Ad ogni modo, di fronte a tali forze, provvidenzialmente, si erge sempre un “katéchon”, ovvero “ciò che trattiene o colui che trattiene”, che con la sua stessa presenza dilaziona l’avvento del Regno parodistico dell’Anticristo.
Non è facile individuare nel concreto chi o che cosa svolga tale funzione nella nostra epoca. Tuttavia, ci sono vari indizi che permettono di scorgere nella dirigenza della Federazione russa, e, nello specifico, in Vladimir Putin, un elemento che frena lo scatenamento di quelle forze, evitando il crollo definitivo della “muraglia”.
Tale ruolo non è appannaggio esclusivo di nessuno, pertanto si può ascrivere a questa provvidenziale funzione anche l’azione di altre organizzazioni o altre personalità. È universalmente noto, infatti, il ruolo dei santi e delle loro preghiere.
Ma qui stiamo parlando di politica, e poiché ciascuno fa la sua parte, va detto che Putin ha contribuito non poco, con le sue iniziative, a non far precipitare la parte di mondo che egli amministra nella medesima spirale “egoica” che altrove ha visto dispiegarsi, uno dopo l’altro, fenomeni edonistici di massa o elitari, tutti parimenti distruttivi.
Questo ruolo la dirigenza russa lo condivide con altre dirigenze “non allineate”: si pensi alle pressioni mediatiche esercitate su Ahmadinejad, il quale, ospite in Europa, venne bersagliato con domande sui “diritti degli omosessuali” in Iran, rispondendo ai giornalisti che “il problema non sussiste”, poiché nella Repubblica Islamica non è previsto un “terzo genere”, visto che ad un certo punto chi non si sente bene nel sesso che la Natura gli ha dato deve prima o poi cambiarlo (cosa non proibita dall’Islam sciita, che ammette il necessario intervento chirurgico), senza restare indefinitamente coi proverbiali piedi in due staffe.
L’Occidente, nel frattempo, è andato molto più avanti, avendo cernito ben ventitré “generi sessuali” (1)! Ciò non è affatto strano, poiché, come premesso, una volta reso l’ego (cioè il proprio Satana interiore) la propria guida e il proprio metro di giudizio, ogni “libertà” è ammessa.
Ma questa “libertà” richiede, a suo modo coerentemente, di essere legittimata e resa perciò “legale”.
Di qui la propaganda e le pressioni che investono in primis i Paesi posti sotto diretto controllo dell’America, che devono adeguare le loro leggi in materia, accogliendo le nuove idee sui diversi “orientamenti sessuali” (2), mentre il medesimo apparato persuasivo viene scatenato contro il resto del mondo non ancora “al passo coi tempi”.
Le occasioni non mancano, in particolare in Russia: dalla mancata concessione delle autorizzazioni per il “Gay Pride” a Mosca (3), all’inaugurazione delle Olimpiadi invernali a Sochi nel febbraio del 2014.
Proprio in concomitanza con quest’evento, in un articolo per il sito della rivista, che invito a leggere (4), mi sono occupato della questione, cercando di individuare alcuni elementi che val la pena di ripetere ed approfondire.
Per prima cosa, è da rilevare che non si tratta di mera “propaganda”.
Il cosiddetto “soft power” – nel quale possiamo inscrivere la propaganda pro-omosessuali – è importante per l’America e gli occidentali quanto le armi vere e proprie. L’attacco a quelle realtà rimaste immuni dal contagio edonistico viene portato, in mancanza della possibilità di attaccare con le “cannoniere”, con una capillare opera di penetrazione nelle mentalità di cui si fanno carico “intellettuali” e “giornalisti”. A montare “il caso” bastano inoltre pochi “attivisti”, circondati dalle telecamere dei “media”: ciak, si gira, va in scena la “repressione”! Come da manuale della “sovversione” nella quale si sono specializzate alcune agenzie governative e non, appositamente create per diffondere la retorica dei “diritti umani”.
Nel succitato articolo rilevavo anche lo sprezzo del ridicolo da parte dei dirigenti americani quando affermano di “difendere la diversità” (5). Ricordavo infatti la fine che hanno fatto i popoli nativi del “nuovo continente”, al confronto con quelli d’Eurasia che hanno conosciuto da secoli la colonizzazione russa. Da una parte lo sterminio e la riduzione alla fame, dall’altra l’inglobamento in una “casa comune” che conta una miriade di etnie e religioni, di cui periodicamente il presidente Putin tesse orgogliosamente l’elogio in quanto rappresenta il fiore all’occhiello del “rispetto delle differenze” così come viene concepito dalla dirigenza russa (6).
Il contrasto tra il “communitarianism” anglosassone e la naturale interazione di popoli diversi, che vivono sulle loro terre storiche nell’ambito di una compagine plurinazionale con una guida comune non potrebbe essere più evidente.
Oltretutto, le “comunità”, tra cui si annovera anche quella LGBT (7), sono un terreno fertile per le “rivendicazioni” all’insegna proprio di quella “libertà” astratta che abbiamo testé denunciato e che viene alimentata coi mezzi più subdoli. Si tratta della strategia del divide et impera che crea per l’appunto “minoranze”, “popoli oppressi” ed altre “categorie” – tra cui quelle “di genere” – meritevoli d’un qualche tipo d’interessamento da parte dell’America e delle sue schiere di nuovi “missionari” (8).
Siamo di fronte a due modelli antitetici: la Russia persegue l’unione nella diversità, cercando ciò che unisce seppur nelle inevitabili differenze; l’America alimenta ed esalta le “differenze”, con l’obiettivo di appiattire tutti quanti su una parvenza di unità che si regge non sul riconoscimento della fondamentale unità delle rispettive radici e tradizioni (“modello russo”), quanto su un “contratto sociale” di tipo utilitaristico che permette, proprio a scapito delle radici e delle tradizioni, di dare libero sfogo alle “libertà individuali”.
La Russia, consapevole della portata distruttiva della cosiddetta “ideologia del genere”, che sta producendo altri capolavori come l’idea balzana che possa esistere una particolare forma di omicidio denominata “femminicidio” (9), nel gennaio 2013 ha così proibito ogni forma di propaganda da parte dei militanti per la “causa omosessuale”.
Subito, le catene mediatiche occidentali, hanno parlato di “legge anti-gay”. Ma non è vero che questa legge, approvata da 388 membri della Duma (con un voto contrario ed un astenuto), sia “contro i gay”. Essa è semplicemente contraria alla propaganda omosessuale (10). O meglio, è “contro i gay” nella misura in cui il termine “gay” indica il militante di una causa che i nemici della Russia utilizzano per scardinarvi ogni ordine naturale (11).
La legge in questione colpisce in maniera particolarmente severa la diffusione di quest’ideologia tra i bambini. Tutto il contrario delle scuole occidentali, nelle quali appositi “programmi educativi” sono destinati proprio alle scolaresche d’ogni ordine e grado, senza risparmiare quelle delle scuole materne…(12). Ma è tutto il sistema occidentale che va adeguandosi, con l’industria dello spettacolo a fare da “avanguardia dell’Inferno” (si pensi a video di certe “popstar”) e le amministrazioni locali che istituiscono “servizi” appositamente dedicati (13).
Il “politicamente corretto” fa il resto. Così, appena qualcheduno esce dai “limiti del discorso”, peraltro sempre più ridotti, ecco che viene bollato come “omofobo”.
Le leggi “contro l’omofobia” sono così diventate all’ordine del giorno dei Paesi cosiddetti “avanzati”, e quel che più sbalordisce chi osserva questo fenomeno è il pressoché completo allineamento all’opinione pro-gay di tutti coloro che hanno una qualche “posizione” nella società.
La questione presenta varie analogie con quella dell’“antisemitismo”. In entrambi i casi nessuno può fiatare, pena l’esclusione e la morte civile, ma la “categoria intoccabile” non è né amata né fondamentalmente rispettata dai “padroni del discorso”. Tant’è vero che né gli omosessuali non militanti (che non pretendono di essere sposati, per esempio) né gli ebrei non appiattiti sulla politica e l’ideologia israeliane dispongono di qualche spazio sui “media” (14).
Le possibilità che questa propaganda attecchisca anche in Russia non sono molto alte. È evidente che il lavaggio del cervello funziona solo nei Paesi prima occupati militarmente e poi sottoposti ad una rieducazione forzata mirante a snaturarne completamente il carattere (15).
Ma una falla può sempre aprirsi.
La disponibilità ad ammettere che una famiglia (con figli!) possa essere formata da due elementi del medesimo sesso nasce in un contesto destabilizzato per quanto riguarda ciò che forma le basi stesse della vita delle persone: gli stili di vita, il cosiddetto tempo libero, l’arte e la cultura, per finire col lavoro e le norme che lo regolano. Queste non sono “neutre”, ma condizionano pesantemente l’assetto familiare, quando non vi sono più orari definiti, “feste comandate”, la certezza del deprecato “posto fisso” e, soprattutto, ruoli e funzioni diverse ma complementari nella relazione coniugale.
L’idea che sta alla base delle “società moderne” è quella della fluidità. Nulla è stabile, nulla è dato una volta per tutte. Nulla è “così come è”.
I giorni sono perciò tutti uguali, tutti utili per fare “shopping”. La “flessibilità” e la “mobilità” sono la regola aurea non solo dei rapporti di lavoro, ma anche familiari. Si divorzia con disinvoltura come ci si cambia un paio di scarpe, così, mentre il terreno diventa sempre più instabile, qualcuno può cominciare a porsi seri dubbi sulla sua normalità (16), a maggior ragione se fin dalla scuola è stato indottrinato e “aiutato” a scoprire il suo vero “orientamento sessuale”.
L’interesse delle élite che mirano all’instaurazione d’un “Governo mondiale” è evidente: un essere destabilizzato ed in balia delle correnti “sociali”, “economiche” eccetera è senz’altro più facile da controllare e manipolare. Questo perché è in preda al proprio ego, che in ogni tradizione religiosa regolare è indicato come quell’anima concupiscente che si pone come ostacolo ad ogni autentica “liberazione”. La quale sta ad uno stato dell’essere che trascende quello della mera individualità come la parodistica “liberazione” dei moderni sta ad una completa resa alle forze più basse e confuse che si agitano nel profondo (il cosiddetto “subconscio”).
Stia bene in guardia, dunque, la Russia, nel non fare alcuna concessione a questo tipo di propaganda e ai suoi aedi (17). E, in particolare, a non adeguarsi a quelle manifestazioni della “modernità” più distruttive per l’integrità delle basilari cellule sulle quali si fondano l’unità e salute della nazione.

NOTE
1) “Maschio e femmina li creo?”. Ma va là, esistono 23 generi sessuali, “Tempi”, 20 gennaio 2013 (http://www.tempi.it/maschio-e-femmina-li-creo-ma-va-la-esistono-23-generi-sessuali).
2) Qui si può consultare una mappa dei Paesi che ammettono le cosiddette “nozze gay”: http://it.wikipedia.org/wiki/Matrimonio_fra_persone_dello_stesso_sesso.
3) Nel 2007, la lobby omosessuale ed i suoi “attivisti” hanno provato ad imporre alla città di Mosca, sebbene non fosse autorizzata, una “marcia dell’orgoglio omosessuale” (il cosiddetto “Gay Pride”). Cfr. “La Repubblica” [giornale di proprietà dei De Benedetti dichiaratamente schierato con la suddetta lobby] del 27 maggio 2007, Gay Pride a Mosca, aggrediti i radicali. Picchiata anche Vladimir Luxuria [si noti la “a” di “picchiata”, nda]: http://www.repubblica.it/2007/05/sezioni/esteri/mosca-gay-pride/mosca-gay-pride/mosca-gay-pride.html.
4) E. Galoppini, Sochi 2014: di nuovo “sport e politica”, Eurasia-rivista.org, 19 dicembre 2013 (http://www.eurasia-rivista.org/sochi-2014-di-nuovo-sport-e-politica/20543/).
5) “La nostra delegazione a Sochi rappresenta la diversità che gli Stati Uniti costituiscono”, ha affermato la portavoce della Casa Bianca annunciando che la guida della delegazione degli atleti americani era stata affidata ad una “icona” del “movimento gay” nello sport.
6) Concetto, questo, ribadito anche nel mezzo della “crisi ucraina” dallo stesso presidente Putin e dal suo consigliere per le questioni culturali Vladimir Tolstoy: Putin advocate single cultural space within Russian borders, “Russia Today”, 24 aprile 2014: http://rt.com/politics/154292-putin-culture-russian-unity/.
7) Acronimo che sta per Lesbiche, Gay, Bisessuali e Transgender.
8) Fondamentale è il ruolo di istituti specializzati nelle tecniche di controllo mentale e di “guerra psicologica”. Cfr. D. Estulin, L’Istituto Tavistock, (trad. it.) Macro Edizioni, Cesena (FC) 2014.
9) E. Galoppini, L’ultima trovata dell’ego ribelle: il “femminicidio”, “Europeanphoenix.it”, 31 dicembre 2012 (http://www.ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=44820).
10) Russian Duma gives first not to nationwide ban on gay propaganda, “Russia Today”, 25 gennaio 2013 (http://rt.com/politics/russian-first-ban-gay-722/).
11) E. Galoppini, Aspetti del degrado occidentale: 2 – L’omosessualità ostentata, “Europeanphoenix.it”, 8 agosto 2012 (http://www.comedonchisciotte.org/site/modules.php?name=Forums&file=viewtopic&t=50938&start=0&postdays=0&postorder=asc&highlight=).
12) Si registrano ad ogni modo delle resistenze da parte di rilevanti settori delle popolazioni occidentali: è il caso della Francia, dove i genitori contrari alla propaganda omosessuale e all’ideologia “di genere” nelle scuole ha proclamato, con un discreto successo, un boicottaggio delle scuole da parte dei loro stessi figli.
13) Per esempio: http://www.comune.torino.it/politichedigenere/lgbt/.
14) Oltre a ciò, è degno di nota il fatto che gli stessi “media” non disdegnano d’insinuare l’omosessualità di personaggi scomodi per il sistema: si pensi all’austriaco Haider, ufficialmente morto in un incidente stradale, sul quale uscirono delle “rivelazioni” riguardanti una sua relazione omosessuale, onde screditarlo in quando uomo politico “di destra”.
15) E. Galoppini, Dalla “Repubblica delle banane” alla Repubblica “Gay-friendly”, “Europeanphoenix.it”, 13 aprile 2013 (http://ariannaeditrice.it/articolo.php?id_articolo=45383).
16)La parola “eterosessuale” è da respingere poiché anche se di per sé sarebbe l’opposto di “omosessuale” ha preso un significato tendente ad offuscare il fatto che una normalità esiste. Una normalità che contempla, in percentuali ridotte, la presenza di esseri umani attratti da altri dello stesso sesso. I quali, però, per il semplice fatto che la Natura non consente loro la riproduzione devono per forza di cose non costituire la maggioranza, altrimenti la specie umana rischierebbe l’estinzione pura e semplice.
17)A mero titolo d’esempio: Russia, nuova sfida di Navalny a Putin: “Se eletto porterò il gay prode a Mosca”, “La Stampa”, 27 agosto 2013: http://www.lastampa.it/2013/08/27/esteri/russia-navalny-lancia-la-sfida-a-putin-se-eletto-porter-il-gay-pride-a-mosca-EHIQ4TG9Y6GEnogWJwRFfJ/pagina.html [“La Stampa”, di proprietà degli Elkann, è un altro quotidiano apertamente schierato con la propaganda omosessuale].

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L’INTIFADA DELLA PALESTINA E LA CRESCITA DELLA DESTABILIZZAZIONE IN ISRAELE

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La questione della legittimità e della sicurezza

Israele dalla sua nascita nel 1948 fino ad oggi ha dovuto affrontare i problemi della sua legittimità e della sicurezza come due questioni principali che minacciano costantamente la sua esistenza. Questo stato sin dall’inizio ha dovuto fronteggiare due questioni: la crisi di legittimità all’interno e la mancanza di riconoscimento internazionale, in particolare da parte degli stati arabi e islamici della regione.
Il popolo musulmano della Palestina ha respinto la legittimità del regime di Israele e progressivamente ha costituito i nuclei della resistenza.
La prima resistenza è stata costituita tra il 1918 e il 1948, che ha compreso tre azioni: la resistenza pacifica dei palestinesi, la resistenza radicale e l’insurrezione popolare, la resistenza contro la Gran Bretagna e il Sionismo.
La seconda resistenza si è costituita nel periodo delle guerre tra gli arabi e Israele negli anni 1948, 1956, 1967 e 1973.
La terza resistenza comprende la nascita dell’Organizzazione per la Liberazione della Palestina, O.L.P., e le sue attività in forma di gruppi di milizia e partigiani tra il 1947 e il 1987.
La quarta resistenza ha visto la nascita dell’Intifada nel dicembre 1987 e continua ancora oggi.
Tutto ciò che la storia e il passato della resistenza dimostrano riguarda il non riconoscimento di Israele da parte dei diversi governi. Questa situazione ha radici nell’amara storia della costituzione di Israele e nei suoi progetti, i quali si possono ritrovare nel libro di Theodor Herzl del 1896, nell’accordo segreto Sykes- Picot del 1916, nella dichiarazione Balfour del 1917 e nella questione del “protettorato” sulla Palestina nel 1918, che praticamente portarono infine alla fondazione di Israele nel 1948.
In queste relazioni erano presentati due progetti, uno maggiore e uno minore.
Nel progetto maggiore si prevedeva la divisione della Palestina, e nel progetto minore si prevedeva la fondazione di un paese federale costituito da due stati, uno arabo e l’altro ebraico.
I paesi arabi, con il sostegno del Consiglio Supremo Arabo, hanno respinto entrambi i progetti e hanno sostenuto la Palestina araba indipendente. Dall’altra parte, il progetto minore non ha avuto l’approvazione dei paesi arabi e del regime sionista, e alla fine nella seduta dell’Assemblea generale delle Nazioni Unite, il 29 novembre 1947, il progetto che prevedeva la divisione della Palestina è stato approvato con 33 voti a favore e 13 voti contrari, e di conseguenza il 14 maggio del 1948 è stata proclamata la fondazione dello stato di Israele.

La questione della legittimità e il processo di dialogo

Il governo d’Israele, per poter risolvere la questione della legittimità e del riconoscimento, ha seguito la via pacifica con il mondo arabo e, servendosi della strategia “né guerra né pace”, ha preparato il terreno per realizzare i suoi progetti ambiziosi. Israele nel 1949 ha firmato l’accordo per il cessare il fuoco con i governi di Egitto, Siria e Giordania, e nel frattempo, con la scusa della frontiera sicura e della sua forza militare, ha rafforzato il processo di dialogo per vedersi riconosciuta la legittimità. Possiamo definire la pace di Camp David come una nuova era nel processo della legittimazione di Israele, anche perché in tal modo questo regime ha potuto stabilizzare ancora di più la sua posizione. Il processo di dialogo è terminato con l’inizio dell’Intifada e la questione della legittimità è ancora irrisolta, e inoltre i processi di pace a Maryland ed Oslo non hanno potuto dare una svolta adeguata.

La questione della sicurezza e la politica della violenza

Il governo d’Israele ha dovuto affrontare le sue questioni di sicurezza all’interno ed all’esterno delle sue frontiere utilizzando i mezzi militari e la violenza. All’interno ha iniziato a massacrare e ad espellere i palestinesi nel periodo tra la divisione della Palestina e la costituzione del governo d’Israele nel 1948, con il massacro di Deir Yassin ad opera del gruppo dell’Irgun guidato da Menachem Begin, e si è servito di questa politica nel territorio occupato diverse volte perpetrando diversi massacri come quelli di Gaza, Kafr Qasim, Tel al-Zaatar, Sabra e Shatila e il campo profughi di Jenin. Inoltre Israele ha applicato da sempre la politica di espulsione e dell’esilio, e ha espulso grande parte della popolazione palestinese dalla sua patria.

Yossef Weitz, ex direttore del Fondo Nazionale Ebraico scrive:

Israele non è abbastanza grande per contenere due popoli, se gli arabi lasciassero il paese allora possiamo dire che è sufficientemente grande per noi. Non abbiamo alternativa se non mandare via tutti. Non deve rimanere neanche un villaggio o una tribù araba.

Seguendo questa politica, progetti e programmi per la costruzione di nuove colonie ebraiche e iniziative per spingere gli ebrei a immigrare in Israele sono stati sempre all’ordine del giorno. Sono iniziate le costruzioni di nuove colonie nelle zone della Striscia di Gaza, in Cisgiordania e sulle Alture del Golan, e si è promossa la stabilizzazione degli ebrei immigrati al fine di ottenere una relativa sicurezza nel paese.

Per quanto riguarda la sicurezza lungo la frontiera, il governo israeliano utilizzò i suoi metodi militari dichiarando guerra nel 1948 agli stati arabi limitrofi, come Giordania, Egitto, Siria e Libano.
In questa guerra praticamente la sicurezza e la sua integrità territoriale furono messe seriamente a rischio ma gli aiuti degli Stati Uniti e il sostegno delle Nazioni Unite salvarono Israele e impedirono la sua sconfitta. Alla fine, con la firma dell’accordo, la guerra si concluse nel febbraio del 1949 e Israele riuscì a raggiungere una certa stabilità, riuscendo quindi a impadronirsi del 77% del territorio al momento di diventare membro delle Nazioni Unite. In tal modo di fatto la proposta della divisione, avanzata dalle Nazione Unite, che prevedeva il 57% del territorio per Israele e il 43% per gli arabi, e la costituzione di un governo arabo indipendente, è stata dimenticata.
Israele, per poter avere maggiore sicurezza e realizzare i suoi progetti ambiziosi, iniziò quindi a rafforzare il suo esercito e nel 1956, dopo la nazionalizzazione del Canale di Suez, con l’aiuto della Francia e dell’Inghilterra conquistò il deserto del Sinai. A causa del confilitto di interessi tra Francia e Stati Uniti la guerra venne però fermata e Israele abbandonò il Deserto del Sinai.
Nel 1967 Israele, sempre con la scusa di una maggiore sicurezza, ma in realtà per raggiungere il suo obiettivo del “Grande Israele”, sferrò altri attacchi contro i paesi arabi confinanti. In questa guerra Israele bombardò all’improvviso gli aeroporti dell’Egitto e occupò il Deserto del Sinai, la Cisgiordania, la città Santa di Gerusalemme e le Alture di Golan, nonostante la risoluzione 242 delle Nazioni Unite. Questa guerra improvvisa mise a disposizione di Israele le risorse e un territorio quattro volte maggiore rispetto alla situazione antecedente la guerra, e gli conferì una maggiore potenza per poter scongiurare le minacce. Questa vittoria durò comunque poco e non impedì la controffensiva dei paesi arabi che iniziò nel 1973 dall’Egitto e dalla Siria contro Israele per riprendere il controllo dei territori da quest’ultimo occupati.
Iniziò così la guerra del Kippur e la coalizione composta da Egitto e Siria attaccò Israele su due fronti. Nella prima settimana riuscirono a ottenere vittorie notevoli, però nella seconda settimana la situazione cominciò a entrare in un’altra fase con l’arrivo dell’esercito americano in sostegno d’Israele, che riuscì ad entrare in territorio siriano ed egiziano. Alla fine la mediazione delle Nazioni Unite portò, il 24 ottobre 1973, alla fine della guerra.
In questa guerra i paesi arabi non raggiunsero l’obiettivo però riuscirono a mettere se non in pericolo quantomeno in discussione il potere deterrente e la questione della sicurezza d’Israele.
La successiva invasione dell’esercito d’Israele del territorio libanese nel 1982 causò diversi problemi e non poté essere una politica di successo per la sicurezza e alla fine fu destinata a perdere.
Israele per tenersi in vita e mettersi al sicuro prese quindi un’altra decisione politica, ossia dotarsi dell’arma nucleare.
Già nel 1949 si era aperto il Centro di Ricerca Isotopo e nel 1952 il governo di David Ben-Gurion aveva fondato la Commissione dell’Energia Nucleare d’Israele. Con gli aiuti di paesi come gli Stati Uniti e la Francia, Israele riuscì quindi a compiere progressi notevoli nel campo della tecnologia nucleare e ad oggi si presume che questo paese abbia più di 200 testate nucleari, e la sua potenza nucleare è in costante crescita.
Oron, il famoso esperto l’Israele, a proposito dei programmi nucleari d’Israele disse:

Avere a disposizione le armi migliori, e la possibilità stessa di servirsi di queste armi, servono per costringere l’altra parte ad accettare le richieste politiche d’Israele. Una delle richieste è riconoscere ufficilmente le frontiere attuali e firmare l’accordo di pace con Israele.

Con la nascità dell’Intifada anche questa politica ha perso però la sua forza dissuasiva.

L’intifada e la questione della sopravvivenza

Il grande movimento del popolo palestinese contro le politiche feroci del governo d’Israele ha aperto una nuova era nella storia della lotta del popolo musulmano della Palestina.
Questo processo si è evoluto rapidamente dopo la conferenza dei vertici dei paesi arabi nell’aprile 1987 in Oman, che non portò a nessuna presa di posizione contro il regime sionista.
La prima Intifada, che comprendeva la protesta popolare contro l’occupazione della Palestina, aveva i seguenti obiettivi:
1- Evitare di far cadere nel dimenticatoio la questione della Palestina
2- Chiamare l’opinione pubblica a porre maggiore attenzione
3- La necessità di risolvere il problema della Palestina
4- Mettere a rischio la sicurezza interna del regime sionista
5- Evidenziare le dispute dei vari gruppi palestinesi e costringere i governi e le organizzazioni che gestivano la questione della Palestina a ricercare i loro interessi comuni.

Uno degli eventi importanti nella storia della lotta contro Israele è stato il ritiro di Israele dal sud del Libano. Questa azione si è compiuta senza la firma di nessun accordo e in modo unilaterale il 24 maggio del 2000, ponendo così fine all’occupazione del sud del Libano dopo 22 anni .
Questo fatto viene considerato la prima sconfitta militare dell’Israele nella sua storia e la prima vittoria politica, ideologica e simbolica dell’Organizzazione “Hezbollah”.
Talal Atrissi considera questo ritiro come un obiettivo che tutti i governi d’Israele stavano cercando, da Yitzhak Rabin e Shimon Peres a Ehud Barak, ma avevano dovuto affrontare due problemi:
Prima di tutto la preoccupazione per la situazione delle frontiere dopo il ritiro; secondariamente, Israele desiderava che questo ritiro venisse fatto sulla base di un accordo regionale, in particolare con la Siria, ma ciò non fu possibile in quanto Israele non poteva più sostenere le perdite nel sud del Libano.

Il ritiro di Israele e la vittoria di Hezbollah hanno rafforzato il fronte anti-Israele e favorito l’avvento della seconda Intifada.
Qualche giorno dopo la liberazione del sud del Libano, Seyyed Hassan Nasrollah, Segretario Generale di Hezbollah, a Bent Jbail ha dedicato questa vittoria al popolo palestinese e ha annunciato il suo sostegno alla secondo Intifada, chiedendo al mondo arabo di fare altrettanto.
L’ingresso provocatorio di Ariel Sharon negli spazi della Moschea di al-Aqsa incrementò la lotta contro Israele, preparò il terreno per l’Intifada e causò le dimissioni di Ehud Barak, e dunque un’altra sconfitta per Israele.
Visto la crescita della violenza politica d’Israele, il processo del sostegno all’Intifada prese una corsa più rapida e costrinse il regime ad affrontare una destabilizzazione generale e la crisi della sua sicurezza in modo che, nonostante la sua potenza militare, deve tutt’oggi lottare per la sua sopravvivenza.

L’intifada e la politica estera dell’Iran.

L’Iran Islamico nella sua politica estera ha sostenuto da sempre la Palestina e ha sempre chiesto il ritorno dei profughi alla loro patria e l’istituzione dello stato indipendente della Palestina. La proclamazione, da parte dell’Imam Khomeini, della giornata mondiale di al-Quds è stato un segno importante che dimostra il sostegno dell’Iran dalla Palestina.
L’Imam Khomeini nel suo discorso del 7 agosto 1979 ha proclamato la giornata mondiale di al-Quds con queste parole:

Possiamo proclamare l’ultimo venerdi del Sacro mese di Ramadan, che coincide con il periodo di Laylat al Qadr (la notte del destino), e può essere anche la chiave principale per il destino del popolo della Palestina, come la giornata di al-Quds. I musulmani in una cerimonia internazionale possono annunciare la loro solidarietà e il sostegno ai diritti legittimi del popolo musulmano.

Inoltre l’Imam Khomeini nel suo messaggio del primo agosto del 1981 definisce la giornata mondiale di al-Quds come il giorno degli oppressi, e nel suo libro intitolato “Il governo islamico” afferma:

Il movimento dell’Islam sin dall’inizio ha dovuto lottare con il sionismo, sono stati loro ad iniziare i complotti e la propaganda anti-islamica, e come vedete continua ancora.

L’Imam Khomeini ha sempre rifiutato il processo di pace tra arabi e Israele e ha invocato la resistenza contro Israele. Egli a proposito degli accordi di Camp David disse:

Camp David è solo un inganno e un gioco politico e niente altro per poter giustificare le continue violazioni di Israele dei diritti dei musulmani.

Recentamente, la Repubblica Islamica dell’Iran, nell’ambito dei suoi impegni in politica estera, ha organizzato a Teheran la Conferenza Internazionale per il sostegno all’Intifada, che ha visto la partecipazione delle delegazioni di 35 paesi islamici, delle organizzazioni palestinesi, dei leader del Movimento Hezbollah e di 300 personalità indipendenti.

I partecipanti hanno annunciato il loro sostegno all’Intifada e hanno concordato sui seguenti punti:
l’istituzione un comitato internazionale parlamentare per la difesa dall’Intifada, la condanna del sostegno degli Stati Uniti a Israele, l’istituzione di una corte internazionale per processare i criminali di guerra di Israele, la richiesta dell’attivazione di comitati per promuovere delle sanzioni contro Israele.

Per concludere, possiamo dire che, considerando l’incremento del processo dell’Intifida e la crisi della legittimità e della sicurezza, il regime sionista affronta nuove crisi che mettono a rischio la sua stessa presenza, e ormai le politiche ambigue di pace e violenza non possono più essere considerate adatte a risolvere la questione. Pare che il regime sionista debba rassegnarsi davanti alle richieste legittime del popolo palestinese più di altri tempi.
Il regime sionista, essendo consapevole del problema della sua legittimità, a volte con un linguaggio di pace e a volte di guerra ha violato e continua a violare i più elementari diritti umani nel territorio occupato e ferisce la coscienza umana.
La storia contemporanea può testimoniare diversi esempi del comportamento violento e disumano del regime sionista nell’arco della sua non lunga storia. Il massacro di centinaia di persone con la scusa dell’uccisione di tre israeliani, l’attacco contro i civili e la distruzione delle loro abitazioni ne sono un esempio lampante.
Oggi la questione della Palestina non è solo un problema dei paesi arabi ed islamici, bensì è diventata un problema umanitario. L’occupazione e le azioni criminali commessi sono una grande catastrofe umana e rappresentano la questione più importante a livello mondiale.
Purtroppo oggi i paesi arabi ed islamici e addirittura i paesi che si presentano come i difensori dei diritti umani nel mondo sono indifferenti nei confronti di queste azioni criminali e si limitano a dare mere indicazioni politiche.
L’omicidio di Mohammed Abu Khdeir ha causato l’incremento della tensione nei territori occupati e gli attacchi dell’esercito sionista, armato fino ai denti, vengono portati avanti sia per via aerea che terrestre contro il popolo indifeso della Palestina, provocando diversi feriti e morti.
La reazione del mondo non è andata, come detto, oltre generiche indicazioni politici, mentre il regime sionista continua a massacrare i palestinesi. Addirittura l’uccisione dei palestinesi è diventato un spettacolo divertente per alcuni giovani estremisti d’Israele che, seduti su una collina, si emozionano a vedere il bombardamento di Gaza.
Dopo l’uccisione di centinaia di palestinesi Israele vorrebbe dimostrare la sua “clemenza” accettando la proposta di pace avanzata di un altro paese per coprire le sue azioni criminali, pretendendo che il popolo di Gaza, e in particolare il movimento di resistenza, accetti immediatamente il cessate il fuoco!
Ancora un’altra volta il mondo si trova davanti a un esame di coscienza, per vedere come agisce nei confronti delle azioni barbariche del regime sionista.
Si spera che gli organismi internazionali rispettino i loro impegni nei confronti dell’umanità e si assumano la loro responsabilità per impedire l’occupazione e l’oppressione della patria altrui, e permettano che il popolo palestinese possa decidere liberamente il suo destino.

Ghorban Ali Pourmarjan
Direttore dell’Istituto Culturale dell’Iran – Roma

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IL RISCHIO SISTEMICO È PIÙ ELEVATO ORA RISPETTO AL 2008

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A partire dalla crisi del 2008, è stata devoluta grande attenzione da parte dei regolatori del sistema finanziario al rischio sistemico, ovvero la possibilità che qualche evento potesse causare la crisi dell’intero sistema bancario e non solo di una singola banca. Migliaia di pagine di regolamentazioni finanziarie sono state stese in proposito, e un gran numero di discorsi sono stati fatti sull’argomento, in particolare su come adesso abbiamo appreso il pericolo della filosofia “too big to fail” (Troppo grande per fallire) e pertanto il rischio di un crash finanziario come quello del 2008 non possa ripetersi nuovamente. Non c’è bisogno di dire che queste tesi sono senza senso; il rischio sistemico è più elevato ora rispetto al 2008. In aggiunta, la prossima crisi sarà quasi certamente peggiore dell’ultima.

Il problema principale addotto dalla legislazione del “Troppo grande per fallire” è l’idea che alcune banche sono così espanse che il loro fallimento possa causare un collasso economico catastrofico che debba poi essere pagato a tutti gli effetti dai contribuenti con le loro tasse. Non vi sorprenderà, però, sapere che per me questa non è la questione centrale.

Un gran numero di rischi nel sistema bancario dei giorni nostri sono presenti in un vasto numero di enti, tutti altamente interconnessi tra loro e sempre più dipendenti l’uno dall’altro. In tal maniera, il fallimento di un’istituzione di media grandezza, se sufficientemente connessa al sistema nella sua globalità, potrebbe avere implicazioni sistemiche. Allo stesso tempo, più o meno tutte le banche usano sistemi di management del rischio molto simili (e spuri), mentre la leva finanziaria, sono entrambe aperte ma più pericolosamente nascoste, è elevata in tutto il sistema. Una politica monetaria folle risulta folle per tutti e se dovesse accadere un disastro tecnologico, questo si ripercuoterebbe anche sui software usati da una gran parte dei sistemi bancari nella loro totalità. Ci sono un buon numero di ragioni per dissolvere i grandi agglomerati di banche, ma dissolverli in una maniera fine a se stessa, non risolverebbe il problema del rischio sistemico.

Il rischio sistemico è stato esacerbato dalla finanza moderna per diverse ragioni: l’interconnessione elevata del sistema è una di queste ragioni, dal momento che è un intreccio di contratti derivativi che arrivano ad un totale nominale di 710 miliardi di $, che si interseca per tutti gli enti mondiali (dato aggiornato a dicembre 2013 secondo i calcoli della BIS – Bank for International Settlements, ndt).

Alcuni di questi contratti come quello relativo ai 584 miliardi di $ di interest rate swaps (CDS) e options hereon, hanno un rischio potenziale quasi elevato come il loro ammontare nominale. In aggiunta, ci sono 25 miliardi di $ di contratti “non allocati”. Il mio sonno e reso irrequieto dal pensiero che il 150% del prodotto interno lordo degli USA (GDP) è situato in contratti che i regolatori del sistema non riescono a “definire”

Il problema è anche reso peggiore dalla non liquidità di molti di questi strumenti. Un tipo di derivati esotici con una maturazione a lungo termine che è probabile scambiare davvero raramente una volta che il flusso di creazione iniziale è terminato. Questi rischi sono alleviati dai contratti standard trading relativi ai cambi. Ma anche se il management di rischio delle banche fosse buono, il fallimento, Dio non lo voglia, di una maggiore controparte o di un exchange, causerebbe un disastro sistemico a causa delle strette interconnessioni.

Un altro rischio sistemico reso potenzialmente peggiore dalla moderna finanza è quello relativo ad un inadeguato management di rischio. Il management di rischio non è per nulla differente rispetto a quello del crash del 2008. Più di tre anni dopo il crash (e quasi due anni dopo che Kevin Dowd e io avevamo analizzato i suoi fallimenti nel management risk in “Alchemists of Loss”), J.P. Morgan stava ancora utilizzando una variazione sul Value-at-Risk per amministrare le posizioni dei suoi indici CDS nel disastro di London Whale. J.P. Morgan riuscì a “sopravvivere” a quell’episodio, ma da una prospettiva di risk-management, per nessuna logica ragione, le perdite avrebbero potuto essere di 100 miliardi di $, come anche di 2 miliardi di $, cosa che non avrebbe permesso loro di “sopravvivere”. I regolatori del sistema non hanno fatto niente per risolvere la questione. Invero, la nuova regolamentazione Basel III continua a permettere alle più larghe banche di disegnarsi da sole il proprio sistema di risk-management, una ricetta per il disastro sicuro.

Potreste pensare che il management di rischio, sia almeno un problema esacerbato dalla stazza delle banche “troppo grandi per fallire”: in realtà, non è del tutto così. Ogni banca commetterà i propri disastri di trading, alla stessa maniera un ritorno a banche più piccole diminuirebbe la grandezza dei disastri di trading, rendendoli però non meno frequenti, sarebbe sicuramente un miglioramento (e i successore della London Whale sarebbero meno portati alla megalomania e ai tentavi di controllo dell’intero mercato). Dall’altra parte, se il mercato nel suo complesso fa cose non contemplate nel sistema di management di rischio – come in David Vinar, Goldman Sachs “25 movimenti di deviazioni standard, in fila per diversi giorni” nell’anno 2007 – dal momento che tutte le banche usano sistemi di rischio simili con simili andamenti, sono tutte portate naturalmente a collassare nello stesso momento, producendo un collasso sistemico. Come spiegherò a breve, credo che il prossimo collasso dei mercati possa aver luogo in simultanea in tutti gli asset, senza possibilità di fuga. Così un collasso globale bancario del sistema di management del rischio, che vada ad impattare sulla stragrande maggioranza degli asset, causerà perdite a tutte le banche più importanti. Nessun accumulo di regole potrà mettere ordine in questo campo.

La finanza moderna ha anche reso il sistema di rischio peggiore, a causa della sua incomprensibilità, opacità e velocità. Né i trader e neppure gli analisti quantitativi che disegnano nuovi secondi e terzi ordini di contratti derivativi hanno idea di come quei contratti si comporteranno in una situazione di crisi, dal momento che sono sopravvissuti al massimo ad una crisi e il loro comportamento è stato sia quello di far da leva, ma anche separato dall’attività sottostante o dal gruppo di attività. Le banche non conoscono i rischi delle loro controparti e così non possono valutare la solidità dell’istituzione con cui stanno avendo a che fare. Per quello che riguarda le aree di “fast-trading”, i computer sviluppano algoritmi di trading a velocità elevatissima, così producendo inaspettati “flash-crash” in cui la liquidità scompare e i prezzi salgono in maniera vertiginosa.

L’opacità delle operazioni bancarie è resa peggiore dalle operazioni di tipo “Market to market”, che fanno riportare in maniera assurda alle banche enormi profitti mentre le loro operazioni si deteriorano con la qualità del credito dei loro debiti e il valore di questi debiti diminuisce. Ciò fa sì che i metodi operativi attuali delle banche portino ad una fase discendente, incomprensibile agli occhi degli investitori.

Il problema del “leverage” non è ancora risolto, nonostante tutti i tentativi di controllarlo fatti nel
2008. In aggiunta, gran parte del rischio del sistema finanziario è stato “emarginato” in istituzioni non bancarie come i fondi del mercato monetario, veicoli di cartolarizzazione, veicoli di titoli di credito supportati dagli asset e specialmente, mutui ipotecari REITs (Real Estate Investment
Trusts, ndt), che sono cresciuti molto a partire dal 2008. Questi veicoli sono ancor meno regolamentati delle stesse banche, e ogniqualvolta ci sia stato un tentativo di regolamentazione, è stato fatto in modo errato. Per esempio, sono stati fatti grandi sforzi, con l’appoggio della lobby delle banche, per creare confusione nei Money Market Fund, che da sempre ha solo avuto una perdita inferiore all’1% del valore del fondo. Al contrario, i giganteschi tassi di interesse dei mutui ipotecari REITs, che acquistano mutui ipotecari a lungo termine e si rifinanziano col mercato dei riacquisti, sono più incontrollate e costituiscono un rischio maggiore per il sistema.

Non dobbiamo dimenticare neppure grande ruolo della tecnologia, un sostanziale e crescente contributore del rischio sistemico. Ai nostri giorni le grandi banche sviluppano poco software per loro stessi affidandosi invece a “pacchetti” grandi e piccoli forniti da sviluppatori esterni. Il bug “Heartbleed” dell’aprile 2014 ha mostrato che anche piccoli programmi come OpenSSL, universalmente utilizzato, possono essere attaccati in diverse maniere e risultare molto difficili da difendere e portare così vulnerabilità all’intero sistema bancario. Un hacker con cattive intenzioni nella vasta sfera di influenza russo-cinese, o anche un ragazzo da casa propria, potrebbe produrre un bug in qualsiasi momento in grado di intrufolarsi nei sistemi di protezione comuni alla maggior parte delle banche, danneggiando o anche compromettendo definitivamente il sistema nella sua globalità.

Comunque, il più grande fattore che determina il rischio sistemico e la ragione per cui è peggiore oggi rispetto al 2008, è la politica monetaria: questa si è espansa al di sopra delle proprie possibilità a partire dal 1995, e come effetto ha avuto un boom della finanza ipotecaria tra il 2002-2006, anomalo anche che nelle aree meno prospere e le persone più povere ricevessero più finanze sul mutuo rispetto alle persone ricche. In ogni caso, questo incoraggiamento alla “leva” non è mai stato così grande come nel periodo a partire dal 2009. Come conseguenza i prezzi degli asset sono cresciuti a livello globale e il “leverage” sia aperto, e in maggior parte anche quello nascosto, è aumentato di dimensioni.

In generale, i tassi di interesse molto bassi, incoraggiano a prendersi dei rischi. I regolatori delle politiche monetarie teorizzano fantasiosamente che tutto ciò produrrà molti più “imprenditori da garage”. In realtà, le banche non faranno prestiti agli imprenditori, così, più semplicemente, si produrranno più artisti della speculazione in giacca e cravatta. Il risultato è un incremento del rischio. Quando la politica monetaria è così estrema per molto tempo, il risultato è più rischio sistemico. E’ molto semplice.

Di preciso, sotto quale forma si presenterà il collasso e quando arriverà, non è ancora chiaro. E’ probabile che sarà altamente inflazionistico. Se i 2.7 miliardi di $ di riserve in eccesso nel sistema bancario USA cominciano ad essere dati in prestito, il contraccolpo inflazionistico sarebbe molto rapido. In ogni caso, è anche possibile che la montagna di investimenti errati, conseguenza della politica monetaria scellerata degli ultimi cinque anni, possano collassare sul loro peso senza un aumento dell’inflazione. In qualsiasi caso, il crash del sistema bancario che accompagnerebbe la regressione economica, sarebbe molto più pesante dell’ultimo, perché il prezzo degli asset che lo causa non sarà solo confinato al mercato immobiliare, ma sarà, in misura maggiore o minore, a livello globale.

Dopo tutto ciò, il rischio sistemico sarebbe molto ridotto, principalmente a causa del fatto che non resterebbe molto del sistema bancario.

(Traduzione di: Marco Nocera)

Fonte: http://www.atimes.com/atimes/Global_Economy/GECON-01-170614.html

Articolo completo:
http://www.prudentbear.com/2014/06/the-bears-lair-systemic-risk-isworse.html#.U9Y_Ll69fL8

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ERITREA E ITALIA: UN PARTENARIATO POSSIBILE E ALTERNATIVO?

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Nel rapporto elaborato nei giorni scorsi dal Dipartimento di Stato USA sulla “libertà religiosa” nel mondo, l’Eritrea è stata riconfermata nella lista che comprende i paesi peggiori, insieme ad Arabia Saudita, Myanmar, Cina, Iran, Corea del Nord, Sudan, Turkmenistan e (per la prima volta) Uzbekistan.
Oltre alle pressioni statunitensi, il Governo di Asmara deve far fronte alle critiche provenienti da quel variegato mondo della sinistra “umanitaria” impegnata a difendere più i diritti dell’individuo che quelli dei popoli nel loro complesso, ma riesce a mettere d’accordo ex comunisti e liberali milanesi (Manfredi Palmeri) che ne hanno recentemente chiesto l’esclusione dall’Expo (insieme a quella dell’India …).
Il “regime eritreo”, in quanto sgradito all’establishment atlantista, viene infatti accusato di perseguitare politicamente i propri cittadini e di costringerli ad emigrare; in realtà, solo poche settimane fa, migliaia di eritrei si sono ritrovati per una grande festa di tre giorni al Parco Nord di Bologna senza alcun problema.
Se è vero che qualche sparuta contestazione c’è stata, questa sembra più riconducibile ad elementi dell’alta borghesia eritrea, oggi in rotta con il Governo di Asmara, che al proletariato affamato e ribelle.
Molto più saggiamente, dopo il totale disastro libico provocato dagli stessi critici di cui sopra (sinistra “umanitaria”, liberali e atlantisti), il Governo italiano tramite il Viceministro degli Esteri Lapo Pistelli, ha incontrato il Presidente eritreo Isaias Afewerki, per affrontare insieme le questioni migratorie e del traffico di uomini conseguente.
Esattamente come il Governo Berlusconi faceva, altrettanto opportunamente, con l’ex capo libico Gheddafi, sia per ragioni di sicurezza sia per assicurarsi vantaggi economici.
Ora, sperando che questi accorgimenti diplomatici del Governo di Roma non siano il preludio ad un’altra “bancarotta” come quella registrata a Tripoli per colpa di Washington, Parigi e Londra (e per la subordinazione italiana a queste tre capitali), bisogna brevemente ricordare alcune cose.
Innanzitutto l’Eritrea si trova sottoposta ad un assurdo embargo dell’ONU (astenuti Russia e Cina) dopo essere uscita dalla guerra difensiva con l’Etiopia (che cercava uno sbocco al mare); eppure quest’ultima, insieme a Kenya ed Uganda, continua imperterrita ad invadere i paesi vicini come la Somalia senza riceve sanzioni di alcun tipo: è evidente la strumentalità della condanna ad Asmara.
In secondo luogo l’Eritrea, il cui unico crimine pare essere quello di non aver voluto concedere una base militare agli Stati Uniti (1), da sempre interessati al controllo geopolitico di un’area che si estende fino agli strategici Sudan ed Egitto, è comunque un paese ricco di risorse naturali (metalli, minerali preziosi) e con possibilità di investimenti nel settore ittico, turistico, agricolo e delle infrastrutture.
E’ altrettanto evidente l’interesse dell’Italia, nazione storicamente legata all’Eritrea, a tutelare e a sviluppare ulteriori accordi politici e commerciali con quel paese, ignorando l’ipocrisia di buona parte della Comunità Internazionale.

1) http://www.eritreaeritrea.com/tutto%20cio%20che%20non%20dovreste%20sapere%20sull’Eritrea.htm

Stefano Vernole è Vicedirettore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici

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ESCALATION A GAZA: RAPPORTI E STRATEGIE (ANALISI CESE-M)

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Analisi di Emma Ferrero, Marco Arnaboldi, Giovanni Bronte e Gaetano Mauro Potenza.

Nei più classici approcci alla dottrina geopolitica, lo studioso che si interroga circa situazioni apparentemente prive di razionalità elabora modelli analitici ad ampio raggio in grado di spiegare ex tunc comportamenti e strategie operative degli attori coinvolti, inserendo così la totalità degli eventi in un piano metodico funzionale a determinati obiettivi. Nell’intraprendere un’ analisi delle condotte dei vari protagonisti dell’ennesimo scontro armato fra Palestina e Israele, appaiono evidenti fin da subito alcuni aspetti storicamente innovativi: una mutazione de facto dei rapporti endogeni agli attori, la presenza di nuovi player regionali e, cosa più
allarmante, una velata schizofrenia di intenti e propositi, probabilmente causata da errate valutazioni del proprio ed altrui potenziale, la quale distorce e devia fortemente anche i meglio intenzionati tentativi di decodificazione che vengono portati avanti da ricercatori ed esperti.

http://www.cese-m.eu/cesem/2014/07/analisi-cese-m-escalation-a-gaza-rapporti-e-strategie/

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IL VI VERTICE DEI BRICS E IL MUTAMENTO DEGLI EQUILIBRI GLOBALI

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I recenti avvenimenti sul piano internazionale suggeriscono che vi sia in atto una trasformazione degli equilibri globali e delle relazioni tra i grandi attori continentali, nel senso di un superamento del paradigma unipolare che ha dominato la scena mondiale negli ultimi 23 anni.(1) Tale prospettiva sembra delinearsi con sempre maggior forza se si guarda all’irrigidimento degli Usa e dell’Europa rispetto alla Russia (e agli iterati tentativi di avanzamento della linea di fronte della Nato nei territori delle ex repubbliche sovietiche), nonché alla fedeltà perenne al paradigma neo-liberale (figlia di una scienza economica affermatasi solo nell’ultimo trentennio) delle istituzioni finanziarie di Bretton-Woods, i cui programmi continuano a venire imposti nei paesi del vecchio continente, fattori di un arroccamento delle potenze occidentali all’interno delle proprie vetuste strutture militari ed economiche che hanno dominato la scena globale dalla fine della seconda guerra mondiale. Questa chiusura sembra spia di una difficoltà strategica di fondo che porta ad un inasprimento delle relazioni coi paesi concorrenti o percepiti come nemici sulla strada dell’egemonia globale.
I tentativi di spiegare la recente svolta negativa nei rapporti russo-americani come “ritorno alla guerra fredda” non rendono giustizia del quadro globale, limitati come sono a un punto di vista che presuppone un equilibrio ancora bipolare, ormai estinto. La guerra diplomatica in atto tra Russa e Stati Uniti andrebbe contestualizzata nel quadro della dinamica degli equilibri globali a favore dei paesi emergenti, come provano le decisioni prese dai BRICS durante il sesto summit tenutosi a Fortaleza, in Brasile, il 15 luglio scorso, avvenuto nella cornice dei mondiali di calcio, onde accrescerne la visibilità (anche se in Occidente tale notizia ha avuto comprensibilmente scarsa eco). Il summit ha sanzionato la nascita della Nuova Banca di Sviluppo (New Development Bank – NDB), che avrà un capitale iniziale di 50 miliardi di dollari, che saranno aumentati a 100, nonché di un fondo strategico di riserva (Contingent Reserve Arrangement – CRA) con un potenziale di 100 miliardi per far fronte alle crisi di liquidità, al quale i paesi contribuiranno in percentuale alla ricchezza.(2)
L’accordo per la NDB è stato preceduto dalle visite di Putin e Xi Jinping nel “cortile di casa” degli USA, il Sud-America. Il viaggio del primo ha toccato i paesi di Cuba (dove ha estinto l’intero ammontare del debito contratto dal regime castrista durante il periodo sovietico), Nicaragua, Argentina e Brasile. Gli stessi paesi, tranne il Nicaragua, sono stati oggetto del viaggio del presidente cinese Xi, che in più ha visitato il Venezuela. I rappresentanti di Russia e Cina hanno stretto accordi duraturi con i paesi indiolatini. Le intese hanno riguardato l’apertura di linee di credito, gli ambiti energetico (sulle forniture petrolifere, in particolare tra Cina e Venezuela), infrastrutturale (la Cina finanzierà la costruzione di due dighe in Patagonia e la quarta centrale nucleare argentina), spaziale, industriale e finanziario (con la sottoscrizione di un currency swap tra peso e renminbi nell’intento di scalzare il dollaro come unità di conto argentina). Rilevanti sono stati gli accordi tra Brasile e Cina, che è ormai il primo partner commerciale del paese sudamericano (grande importatore di materie prime brasiliane). (3)
L’obiettivo dei paesi emergenti è ormai apertamente quello di un nuovo ordine mondiale in senso multipolare, che superi i meccanismi di Bretton Woods e veda una partecipazione più ampia (democratica e rispettosa delle sovranità nazionali) degli stessi paesi nelle sedi decisionali mondiali, nella prospettiva di un ribaltamento dell’egemonia americana, espressa dal dominio del dollaro, nuovamente minacciato dopo la firma sull’accordo energetico tra la compagnia russa Gazprom e quella petrolifera cinese Cnpc per la fornitura trentennale di gas naturale russo che prevede il pagamento in yuan.(4)
Le rivelazioni di E. Snowden e il caso “datagate” hanno contribuito certamente ad una accelerazione di questo processo di trasformazione degli assetti mondiali, ancora non chiaro però. Queste hanno svelato che i principali obbiettivi dello spionaggio della National Security Agency erano praticamente quelli della sigla BRIC (Brasile, Russia, India e Cina).(5) Lo scandalo fu il motivo principale dell’annullamento della visita di Rousseff a Washington, ma oggi altre ragioni spingono sempre più il Brasile a voltare le spalle all’Occidente, tra cui proprio la mancata riforma delle quote di voto presso il FMI rimasta giacente al Congresso statunitense. (6)
Gli stessi dissapori con Washington ha creato la scoperta dello spionaggio ai danni della Cancelliera Merkel in Germania, cui ha fatto seguito l’espulsione del capo della CIA a Berlino.(7) La Merkel in questa occasione ha parlato duramente di “diversità di principi molto grandi rispetto ai compiti assunti dai servizi segreti dopo la guerra fredda”. I recenti tentativi di ricucire la situazione,(8) non è detto se riusciranno a impedire che la Germania possa volgere ad est e defilarsi dalla strategia di rottura dei rapporti con la Russia (soprattutto per le ricadute sui rapporti economici con Mosca), cui costringe oggi una acquiescenza dell’Europa alla linea aggressiva americana.
Recentemente un articolo apparso su Die Zeit critica radicalmente l’appiattimento sulla politica estera di Washington dell’Europa (che si vorrebbe unita), lamentando che la decisione di voler espandere la Nato in Ucraina costituisca la peggiore scelta strategica europea dalla fine della guerra fredda. (9) E nel giudizio espresso dal Die Zeit, come nelle recenti dichiarazioni del governatore della Banca di Francia Noyer, critico verso l’egemonia del dollaro(10), si colgono chiari indizi di un’insofferenza crescente, anche dell’Europa che conta, verso l’unipolarismo.
Le trattative in atto sull’approvazione del Partenariato transatlantico per il commercio e gli investimenti (Transatlantic Trade and Investment Partnership – TAFTA), che prevede la creazione di un’area di libero scambio tra Europa e USA (e si paventa possa attribuire un potere abnorme alle aziende multinazionali d’oltreoceano), in linea col perseguimento del Partenariato transpacifico (Trans-Pacific Partnership – TPP),(11) risulta una risposta al crescente peso globale del commercio cinese. Rinsaldare i legami economici col vecchio continente risulta il tentativo degli USA di innalzare barriere alla penetrazione cinese e difendere il primato economico, appena intaccato, del commercio e del dollaro statunitense. Il dollaro sebbene ridotto a cartamoneta inconvertibile, conserva per il momento centralità negli scambi internazionali.(12)
Il ruolo dei paesi europei negli equilibri geopolitici globali risulta ancora una volta decisivo. Spetterà a tali paesi e alla realpolitik tedesca decidere se proseguire al traino degli USA oppure risolvere di dotarsi di un proprio piano strategico di riferimento. Bisognerà prima capire, tuttavia, se un “ministero degli esteri europeo”, e se un’Europa politicamente unitaria, possano esistere nei fatti, prima ancora che a livello internazionale.

NOTE
1 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-07-19/l-egemonia-perduta-america-081130.shtml?uuid=ABnMaPcB
2 http://rt.com/business/173008-brics-bank-currency-pool/
3 http://www.tvsvizzera.it/radio-monteceneri/Cartacanta/Xi-e-Putin-a-spasso-nel-giardino-degli-Stati-Uniti-1545886.html ; http://www.agichina24.it/focus/notizie/cina-cuba-firmano-29-accordi
4 http://www.ilsole24ore.com/art/notizie/2014-05-21/gas-maxi-accordo-cina-e-russia-fornitura-38-miliardi-metri-cubi-annui-123703.shtml?uuid=ABH770JB L’accordo segue la decisione presa dalla Cina il 6 settembre 2012 di pagare in yuan le forniture di petrolio provenienti dalla Russia, vd. http://www.ilsole24ore.com/art/finanza-e-mercati/2012-09-25/cina-snobba-dollaro-paga-111255.shtml?uuid=AbCWZKjG
5 http://temi.repubblica.it/limes/con-chi-e-contro-chi-spiano-gli-usa/63879
6 http://temi.repubblica.it/limes/dilma-obama-e-i-simboli-di-una-visita-rinviata/51960
7 http://www.lastampa.it/2014/07/10/esteri/datagate-la-germania-accusa-lamerica-espulso-il-n-dei-servizi-usa-a-berlino-5H2rL5zhg8Av1TXr4VtmUO/pagina.html
8 http://www.nytimes.com/2014/07/23/world/europe/germany-obama-merkel-mcdonough-nsa.html
9 http://www.zeit.de/politik/ausland/2014-06/europaeische-interessenpolitik
10 http://lexpansion.lexpress.fr/entreprises/amende-bnp-paribas-christian-noyer-trouve-les-transactions-en-dollar-trop-risquees_1557009.html
11 http://www.cese-m.eu/cesem/2013/05/laccordo-strategico-transpacifico-di-cooperazione-economica-tpp-dubbi-e-riflessioni/
12 http://www.lafinanzasulweb.it/2014/i-brics-contro-il-nuovo-ordine-mondiale-e-su-moneta-e-petrolio-faranno-da-se/

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GLOBALIZAREA INSECURITĂȚII ȘI EUROPA DE EST

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Globalizarea reprezintă un proces multidimensional care transformă rapid și în profunzime, printre altele, raporturile geostrategice existente, relațiile dintre state şi implicit aplicarea normelor de drept internațional dintre actorii statali și marile puteri. Acest fenomen dinamic, stimulat politic, generează modificări în structura și echilibrul de forțe dintre puteri, afectează, de cele mai multe ori, grav apărarea și securitatea națională, zonală și continentală, procesul de pace din întreaga lume. Având în vedere numărul focarelor de conflict și tendința de creștere a acestora, pe măsura accelerării ofensivei globale, putem afirma, fără a greși, că pe continentul european și în întreaga lume se înregistrează o agravare alarmantă a instabilității, insecurității, respectiv o tendință generală de globalizare a insecurității.
Insecuritatea este un rezultat al impunerii democrației, indiferent de mijloace, de răsturnare a guvernelor alese legitim și de schimbare a regimurilor politice.

Dacă momentul 11 septembrie 2001, ca ripostă a Statelor Unite, reprezintă debutul procesului globalizării insecurității, criza politică și confruntările militare din Ucraina vin să confirme, cel puțin pentru statele din estul Europei, că acest proces este unul în derulare. Se conturează o permanentizare a insecurității pe măsură ce Uniunea Europeană și NATO, prin mijloace politice, de forță și intimidare, avansează spre Est. Pe acest fond, procesul de pace se alterează, agresiunea armată și violența se amplifică, apar noi riscuri, amenințări și vulnerabilități.

Terorismul internațional ia forma terorismului de stat, mega-terorismul vizează, mai mult ca oricând, intimidarea cu folosirea și chiar posibila folosire a armelor nucleare și a altor tipuri de arme de nimicire în masă secrete și interzise prin tratate și convenții. Toate aceste amenințări implică o ripostă pe măsură, răspunsuri multidimensionale directe și indirecte, în funcție de factorii de risc. Asistăm chiar la o nouă escaladare a cursei înarmărilor, la o revenire la Războiul Rece, de această dată de pe alți parametrii ˝termici˝ și conflictuali. Însăși procesul de integrare a noi state membre în Uniunea Europeană cunoaște un recul. Republica Moldova pierde ocazia integrării, procesul fiind suspendat pentru următorii cinci ani. Situația alimentării insecurității din Ucraina nu va fi un fapt izolat și se va constitui într-un precedent pentru Est ca și în cazul Kosovo. Procesul de fragmentare teritorială, de regionalizare și federalizare nu se va opri la Ucraina. Destabilizarea zonei și alimentarea din umbră a unui focar de război va avea consecințe dezastruoase pentru ambele tabere beligerante. Există, de asemenea, pericolul extinderii ostilităților, atât spre est cât și spre vest, a degenerării conflictului armat într-o conflagrație mai mult decât zonală. O stare de insecuritate extinsă a țărilor nemembre UE, chiar un posibil colaps al Europei de Est, determină corelativ o destabilizare a zonei euro, fapt ce ar putea ridica mari întrebări despre viitorul deja nesigur al Uniunii Europene.

Deşi nu există o definiţie general valabilă a globalizării, în general, ca fenomen economic, acest proces se caracterizează chiar prin scopurile urmărite, respectiv desființarea barierelor în faţa fluxurilor internaţionale de bunuri, servicii, capital şi informaţii. În prezent, există o dezbatere aprinsă asupra amplitudinii şi duratei acestui proces. Unii specialişti, precum John Gray, afirmă că globalizarea reprezintă o transformare epocală a capitalismului, care deja a fost realizată, fiind inevitabilă şi ireversibilă. Alţii, precum Paul Hirst sau Graeme Thompson, susţin că amploarea globalizării este exagerat interpretată şi că nu avem de-a face cu un fenomen, ci cu o accelerare a procesului de internaţionalizare a capitalismului şi a pieţei. În contrast cu aceste accepţiuni este cea care percepe acțiunea globalizatoare drept un al doilea val al procesului, în ansamblu, ce nu are precedent din punct de vedere al caracteristicilor sale şi al numărului de ţări implicate. Anthony Giddens descrie globalizarea ca fiind „nu nouă, dar revoluţionară” şi demonstrează că este „un proces cu mai multe fețe (și mai multe dedesubturi n.n.), cu aspecte diferite ce, adesea, sunt contradictorii.” [1]

Sub toate aspectele ei, globalizarea poate fi înțeleasă din perspectiva a trei teorii principale: teoria sistemului mondial, teoria organizării politice mondiale şi teoria culturii mondiale. Conform teoriei sistemului mondial, globalizarea reprezintă un proces, finalizat în secolul XX, prin care sistemul capitalist a fost propagat pe glob. De vreme ce acest sistem mondial şi-a menţinut câteva dintre caracteristicile sale principale, de-a lungul secolelor, se poate afirma că globalizarea nu este un fenomen nou. La începutul secolului XXI, economia lumii capitaliste este în criză, se poate vorbi chiar de o criză globală. De aceea, conform celui mai important promotor al acestei teorii, Immanuel Wallerstein, actuala celebrare ideologică a aşa-numitei globalizări nu reprezintă altceva decât „cântecul de lebădă” al sistemului mondial. Explicaţia constă în faptul că, în secolul XX, sistemul mondial şi-a atins limitele geografice de expansiune, un fenomen hegemonic mascat, prin extinderea pieţelor capitaliste şi a sistemului de stat către toate regiunile lumii. De asemenea, a fost martorul consolidării Statelor Unite ca unică superputere imperialistă iar sistemul a rămas, în sine, polarizat. Această transformare este denumită de Wallerstein „perioadă de tranziţie”. Noile crize economice nu mai pot fi rezolvate prin exploatarea pieţelor, declinul economic va da naştere la conflicte, chiar în centrul sistemului, iar sistemul va ajunge la un punct critic. Atâta vreme cât această tranziţie haotică nu va conduce la configurarea unei lumi mai democratice, „globalizarea capitalistă” va dispărea.

În accepţiunea teoriei organizării politice mondiale, globalizarea se referă la ˝comprimarea˝ lumii şi consolidarea viziunii asupra acesteia ca un întreg. Promotorii acestei teorii consideră că, la sfârşitul secolului XX şi chiar mai devreme, globalizarea a transformat ordinea mondială într-o problemă. Fiecare trebuie să răspundă reflexiv situaţiei dificile derivate din noua ordine, ceea ce duce la crearea unor viziuni contradictorii asupra lumii, oferind motivaţia supremă pentru susţinerea unei anumite viziuni. Astfel, o lume globalizată este integrată dar nu va fi niciodată armonioasă, este un conglomerat unic, dar divers, un construct al viziunilor împărtăşite sau neîmpărtășite, dar obligatorii, predispus la fragmentare. Este evident faptul că definiţiile globalizării variază de la o regiune la alta, de la o perioadă de timp la alta şi, nu în ultimul rând, de la o ideologie la alta. Sensul conceptului în sine este un subiect al discuţiilor globale: se poate referi la un proces real sau doar la o modalitate de reprezentare facilă a lumii. Termenul nu este neutru; definiţiile evidenţiază diverse abordări ale schimbării globale în funcţie de ideologii. Totuşi, se poate afirma că, în general, globalizarea se referă la extinderea legăturilor globale, la organizarea vieţii la scară globală şi la dezvoltarea unei conştiinţe globale, destinată consolidării unei societăţi globale.

Din perspectiva teoriei culturii mondiale, globalizarea este creşterea şi adoptarea culturii mondiale. Începând cu a doua jumătate a secolului XIX, s-a cristalizat o ordine mondială raţională, instituţională şi culturală, ce constă în modele aplicabile la nivel global, ce configurează state, organizaţii şi identităţi individuale.
Concepţiile despre progres, suveranitate, drepturi etc. au căpătat o mai mare autoritate, structurând acţiunile statelor şi indivizilor şi furnizând un cadru comun pentru disputele internaţionale. La sfârşitul secolului XX, cultura mondială s-a cristalizat drept element constitutiv al societăţii mondiale, un set de prescrieri universal valabile. Această cultură a devenit o moştenire comună, instituţionalizată peste tot pe glob şi sprijinită de multe grupări transnaţionale. Totuşi, ea nu întruneşte consensul general, astfel că implementarea modelelor globale nu va conduce la configurarea unei lumi omogene ci, dimpotrivă, va putea da naştere la conflicte. De exemplu, unii specialişti consideră că lumea reprezintă un ansamblu de comunităţi distincte şi subliniază importanţa deosebirilor existente, în timp ce alţii consideră că lumea se dezvoltă pe baza unui tipar unic, înglobând interesele umanităţii ca întreg. În această lume comprimată, compararea şi confruntarea viziunilor asupra sa poate conduce la izbucnirea unui conflict cultural, în care tradiţiile religioase joacă un rol cheie,

Indiferent de aspectele diferite ilustrate de cele trei teorii enunțate, există cel puțin un numitor comun, cel al unei puternice reacţii de rezistență firească la tendinţele de nivelare brutală și forțată, de ștergere a identităților naționale, de depersonalizare a indivizilor și colectivităților, a entităţilor civilizaţionale, ca şi atenţionări care se cer luate în seamă. Spre exemplu, Samuel P. Huntington, în celebra sa lucrare ˝Ciocnirea civilizaţiilor˝, atrage atenţia asupra faptului că entităţile civilizaţionale sunt realităţi care, în viitor, se pot înfrunta, pentru că ele se opun civilizaţiei occidentale care, în concepţia autorului, „a fost şi este încă agresivă.” Cu alte cuvinte, „strategia civilizaţiei occidentale, ca şi geopolitica ei, trebuie să se reformuleze în termeni civilizaţionali, renunţând la presiunile de altădată. Altfel, viitorul război va fi un război al civilizaţiilor.” [2]

Viitorul vizat de autor este un prezent al zilelor noastre. O asemenea politică și strategie globală, sancționate de Huntington, nasc artificial „granițe de sânge”. În accepțiunea autorului, conflictele locale, cum este cel prezent din Ucraina, riscă să se extindă, sunt cele care se produc de-a lungul faliilor dintre civilizaţii. „Cele mai periculoase conflicte culturale sunt cele care iau naştere de-a lungul liniilor de falie între civilizaţii”, conchide Samuel P. Huntington.

Orice studiu elementar privind problematica securității și insecurității trebuie să aibă în vedere, de la bun început, lămurirea unor concepte precum: amenințare, pericol, vulnerabilitate, risc, apărare.
Putem defini conceptul de amenințare ca reprezentând un pericol potențial, care are un autor, un scop, un obiectiv și o țintă.
Pericolul ar putea fi definit drept o caracteristică a unei acțiuni sau inacțiuni în scopul de a aduce prejudicii valorilor unei societăți, persoanelor sau bunurilor acestora. În cazul pericolului, sursa acțiunii, orientarea, obiectivele și efectele sunt probabile. Pericolul reprezintă o primejdie, un posibil eveniment cu urmări grave.

Amenințarea are indicatori concreți, reprezentând o declarare a unei intenții care poate fi agresivă. Din punct de vedere militar, analiza amenințării poate avea în vedere procesul de examinare a tuturor informațiilor disponibile referitoare la potențiale activități periculoase. Cu cât amenințarea este mai bine conturată, cu atât țintele și potențialul de apărare sunt mai bine evaluate. Natura specifică a amenințărilor, și amenințarea în sine, pot fi înțelese numai în relație cu caracterul particular al obiectului de referință. Domeniile în care pot fi studiate tipurile de amenințări sunt: politic, economic, social, militar, de mediu etc. În domeniul politic, amenințările sunt definite în termeni de suveranitate, independență și integritate teritorială. Obiectele de referință pot fi entități politice atât naționale cât și supranaționale. De exemplu, la nivel național, suveranitatea este amenințată de punerea la îndoială a recunoașterii, a legitimității sau autorității guvernării, iar la nivel supranațional, structurile și organizațiile internaționale sunt amenințate de situații care pot să submineze regulile, normele și chiar instituțiile ce le reglementează sau aplică. Un exemplu recent îl constituie criza de autoritate și legitimitate a guvernării din Ucraina. Pe 22 februarie președintele Viktor Ianukovici, ales democratic, este nevoit să fugă din țară fiind amenințat cu moartea, conform declarațiilor acestuia.

Vulnerabilitățile reprezintă stări de lucruri, procese sau fenomene din viața internă, care diminuează capacitatea de reacție la riscurile existente ori potențiale sau care favorizează apariția și dezvoltarea acestora. În problema crizei politice din Ucraina, principala vulnerabilitate generatoare de conflict armat și insecuritate a fost și este legată de scorul foarte strâns, aproximativ egal, în privința opțiunii populației privind aderarea la Uniunea Vamală cu Rusia sau aderarea la Uniunea Europeană. Conform Institutului Internațional de Sociologie din Kiev (KMIS), 38% din populația Ucrainei se pronunță pentru Uniunea Vamală cu Rusia iar 37,8% dorește aderarea la Uniunea Europeană.
Constituie vulnerabilități pentru majoritatea țărilor din estul Europei, foste comuniste, următoarele:
persistența problemelor de natură economică, financiară și socială generate de întârzierea reformelor structurale;
accentuarea fenomenelor de corupție și de administrare deficitară a resurselor publice;
reacții ineficiente ale instituțiilor statului în fața acutizării fenomenelor de criminalitate economică, de perturbare a ordinii publice și siguranței cetățeanului;
menținerea unor surse și cauze de potențiale conflicte sociale punctuale;
scăderea nivelului de încredere a cetățenilor în instituțiile statului;
menținerea unor disparități de dezvoltare între regiunile fiecărei țări în parte și între țările membre UE aflate la periferie, comparativ cu cele vestice aflate în centrul sistemului unional economic și politic.

Din acest ultim punct de vedere, opțiunea cetățenilor din Ucraina pentru aderarea la Uniunea Europeană este hazardantă și nu ia în considerare situația critică economică a unor țări apropiate care au aderat mai devreme iar în prezent se confruntă cu și mai mari probleme din punct de vedere economic și social.

Amenințările pot fi analizate în raport cu factorii de risc. Pentru orice strategie de securitate a unei țări, factorii de risc pot fi considerați ca fiind acele elemente, situații sau condiții, interne sau externe, care pot afecta, prin natura lor, securitatea țării, independența și suveranitatea statului.

Riscul reprezintă posibilitatea unui pericol, iar vulnerabilitatea drept rezultatul combinării riscurilor existente cu capacitatea de a face față situațiilor riscante interne sau externe. Riscul se concretizează în diferența dintre ˝așteptarea pozitivă˝ și ˝evenimentul negativ˝ ce se poate produce, avându-se în vedere probabilitatea apariției acestuia. Riscul este un rezultat al imposibilității de a cunoaștere cu certitudine a evenimentelor viitoare. Analiza de risc în privința securității naționale poate fi clasificată în funcție de domeniile și sfera de abordare. Caracteristicile care apropie conceptual amenințările de pericole, riscuri și vulnerabilități sunt în legătură cu:
• originea – care poate fi internă și externă;
• natura – care poate fi politică, economică, socială, militară, informațională, etc.;
• caracterul – care poate fi direct și indirect.
Deosebirile dintre conceptele analizate sunt date de genul proxim și diferența specifică care dezvăluie caracteristicile esențiale ale fiecăruia. Amenințările, pericolele, riscurile și vulnerabilitățile, la un loc sau numai o parte dintre ele, sunt conștientizate în mod diferit de către puterile lumii comparativ cu statele naționale lipsite de putere și apărare, chiar și atunci când sunt aflate în același areal geografic sau făcând parte din același sistem ideologic. Sensibilitățile generate de probleme istorice, de tradiții, de nivelul de dezvoltare economică, de putere militară, ambițiile hegemonice, interesele naționale fundamentale, calitatea de membru sau nu la o alianță militară funcțională dau percepției sensuri, nuanțe și particularități diferite. Privite în mod sistemic conceptele supuse analizei se află întotdeauna într-un raport bine determinat. Diferența de percepție reală a pericolelor, amenințărilor, riscurilor și vulnerabilităților dintre Ucraina și Rusia este diferită și contradictorie. Ucraina prezentă, având la conducere un guvern pro occidental, vede în Rusia un inamic potențial ce pune în pericol integritatea ei teritorială. Rusia se simte, de asemenea, amenințată de politica expansionistă a Statelor Unite având concursul diplomatic, motivat economic dar și politic, al Uniunii Europene. Dincolo de declarațiile pacifiste ale celor două părți, aflate în conflict, sunt ascunse tendințe agresive și nu sunt excluse acțiunile sau intervențiile belicoase. Uniunea Europeană solidară cu noul guvern al Ucrainei vizează o Europă lărgită până la Urali, nu numai geografic dar și politic. Rusia lui Putin adoptă, in extremis, o strategie și tactică ofensivă, ca cea mai bună formă de apărare, și reformează sistemul politic și militar cu scopul vădit al constituirii, indiferent de mijloace, a unei noi uniuni, cea a Eurasiei.

După anul 2009, criza globală a luat locul terorismului sub aspectul impactului asupra securității globale a Statelor Unite și a preocupării Administrației americane privind impactul direct. Astăzi, recunoaşte Zbigniew Brzezinski, securitatea Statelor Unite „nu mai este în mâinile Americii ”. [3] Lumea se confruntă cu dificultăţi serioase în depăşirea turbulenţelor provocate de colapsul financiar, în pofida măsurilor extraordinare de salvare financiară luate peste tot în lume. În acest context provocator, securitatea globală este, de asemenea, supusă unor teste extrem de severe. Actuala stare de insecuritate a expus, fără jumătăţi de ton, actuala forţă a globalizării şi, în acelaşi timp, face posibilă disoluţia puterii globale. Tranziţia de la o lume unipolară, bazată pe unicul ˝leadership˝, Statelor Unite ale Americii, către o lume bipolară, tripolară sau multipolară, pare să fi ajuns într-un punct fără întoarcere pe măsura agravării insecurității în Europa de Est. Momentul Ucraina reprezintă piatra de încercare, un moment hotărâtor care separă intențiile și presupusele strategii de acțiunile politice concrete. Se poate vorbi chiar de un concurs de împrejurări și de o cursă aprigă între protagoniști, care doresc să fructifice disoluția statului ucrainean. Situația din Ucraina nu este și nu va fi una favorabilă întăririi, dezvoltării și stabilității statului. Un stat slab, fără putere și posibilități de înarmare, lipsit de apărare și nevoit să ceară ajutor extern, poate reprezenta un deziderat comun pentru marile puteri, chiar aflate într-un conflict diplomatic și politic.

Statele slabe sunt definite drept acele state care nu au capacitatea de a furniza sau nu doresc să furnizeze datele politice fundamentale asociate statalităţii: securitate, instituţii politice legitime, management economic şi bunăstare socială. [4] Aceste state au devenit subiecte la modă, ce par a fi ˝stimulate˝ să se manifeste în relațiile internaționale începând cu a doua parte a anilor ’90, fiind privite ca o epidemie a sistemului internaţional, ale cărei simptome, născute prin combinarea unei largi varietăţi de factori, lăsate netratate, ar putea contribui la propagarea instabilităţii în mai multe zone ale lumii și, implicit, a Europei. Cel mai vehiculat scenariu este, în prezent, cel în care violenţele dintr-un stat slab ar lua amploare afectând şi statele vecine, iar comunitatea internaţională, implicit NATO, ar fi nevoite să intervină. Însă, experiența ˝intervențiilor umanitare˝ trecute, o sintagmă ce ține loc războiului nedeclarat și bombardamentelor strategice, a demonstrat cu prisos că aceste intervenții ale singurei superputeri recunoscute au crescut instabilitatea regională și globală iar consecințele au fost dintre cele mai dramatice. În Europa, acest scenariu a devenit realitate odată cu dezmembrarea Iugoslaviei, iar în prezent prinde contur, după același plan strategic, în Ucraina. Această țară est europeană, de origine slavă, este împinsă într-un război fratricid de secesiune, urmărindu-se federalizarea și enclavizarea regiunii după criterii ideologice și planuri politico-strategice. Nu mai este niciun secret că Maidanul a fost, în fapt dar nu și în drept, un Euromaidan, ce a început cu un val de proteste, demonstrații și tulburări civile în noaptea din 21 noiembrie 2013având ca locație Maidan Nezalezhnosti (“Piața Independenței”, din Kiev), unde a fost cerută, în principal, aderarea și integrarea Ucrainei la Uniunea Europeană. Așa după cum evoluează evenimentele, Ucraina lasă impresia unui stat neguvernat și neguvernabil, ce întrunește aspectul dezolant al unui stat eșuat.

Pentru unele doctrine democrate din lumea contemporană, conceptual de ˝stat eșuat˝ ar reprezenta o formă de organizare politică lipsită de conţinut care nu este capabilă sau nu doreşte să îşi îndeplinească obligaţiile fundamentale ce-i revin ca stat naţional și „trebuie să-și piardă această calitate”. Doctrina ascunde, însă, scopul real, mult mai profund, și anume, extinderea fenomenului globalizării spre est, indiferent de mijloace, politice sau militare. În aceste circumstanțe, statele, în speță Ucraina, este ˝ajutată˝ să eșueze.
Paradoxul este legat, în principal, de infuzia de capital promisă și ajutorul financiar al Uniunii Europene, bani care nu sunt pentru statul ucrainean independent și care se returnează pe alte căi sau vor fi recuperați, ulterior, cu dobândă, ca urmare a politicii impuse de UE viitorului stat membru. Acest joc politic, al pașilor mărunți, ce presupune cedări succesive de suveranitate, va duce în final la pierderea definitivă a independenței și suveranității statului național unitar ucrainean.
Dintre caracteristicile statului eșuat enumerate de Robert Rotberg amintim:
„orientări educaţionale şi medicale degradate sau politici anti-educaționale și anti-sănătate ;
creşterea analfabetismului, promovarea ignoranței și lipsei de reacție civică, a renunțării și nepăsării în plan social;
scăderea severă a factorului demografic prin diminuarea condițiilor de trai, prăbușirea speranței de viață, abandonarea celor în vârstă, scăderea drastică a mijloacelor de subzistență, mărirea ratei mortalităţii infantile, încurajarea contracepției și a avortului etc;
creşterea sărăciei, șomajului, imposibilitatea de a realiza venituri pe măsura creșterii taxelor și impozitelor;
adâncirea prăpăstiei dintre bogaţi şi săraci, între cei puternici și cei slabi;
extinderea corupţiei și înlocuirea domniei legii cu domnia banului;
imposibilitatea de a controla puterea în afara limitelor capitalei
administrative şi pierderea de autoritate în fața administrațiilor regionale
sau locale;
mărirea ratei criminalităţii, a delicvenței și nesupunerii;
creşterea nivelului de insecuritate individuală, socială, națională, regională și globală.” [5]
Situația gravă a statelor eşuate este un rezultat al abandonului social, a colapsului ca strategie, a lipsei unor politici eficiente pe termen lung. Toate acestea, și nu numai, favorizează apariţia conflictelor. Conform lui Robert Rotberg, în statul eşuat se înregistrează un grad ridicat de tensiune internă, un conflict profund şi contestarea puterii de către diverse fracţiuni, forţele militare guvernamentale sunt puse faţă în faţă cu grupări înarmate conduse de unul sau mai mulţi pretendenţi la putere sau cu populația revoltată neînarmată ” [6] ( sau înarmată ca în cazul Ucrainei n.n.)

Aceste state favorizează instabilitatea regională și globală. Parteneriatul strategic Statele Unite – Uniunea Europeană, cu toate acestea, nu își pune problema analizei cost-beneficiu decât în primă fază, stimulând prin acțiuni subversive producerea eşecului și favorizarea intervenţiei post conflict.

În analiza sistemului relațiilor internaţionale actuale operează şi conceptul de colaps al statului cu trei premise de bază.
Prima se referă la prăbuşirea instituţională. William Zartman defineşte colapsul statului drept „o situaţie în care structura, autoritatea (puterea legitimă), legea şi ordinea politică au fost distruse şi trebuie să fie reconstruite într-o formă veche sau nouă. Dacă luăm în considerare această definiţie, colapsul statului ucrainean reprezintă, în primul rând, colapsul guvernului. În acest caz, atât cauza, cât şi remediul sunt legate, mai degrabă, de structurile socio-politice decât de stat în sine, iar intervenţia post-colaps se consideră esenţială și este făcută în interesul celor care intervin. Orice acțiune politică viitoare îndepărtează țara de independența ei.
Cea de-a doua premisă pe care se construieşte teoria referitoare la colapsul statului este aceea că prăbuşirea instituţională este, în general, legată de prăbuşirea societăţii, aspecte adesea privite ca două feţe ale aceleiaşi monede. Motivul principal este acela că, într-o societate slabă, există o instabilitate generală ce alimentează lipsurile instituţionale şi slăbeşte structurile guvernamentale. Este vorba aici despre existenţa unei fracturi în principiile bunei guvernări.

Cea de-a treia premisă este existenţa unei legături evidente între colapsul unui stat şi conflictul armat.” [7] În aceste cazuri, agenţii statali naţionali sunt incapabili să recâştige monopolul asupra mijloacelor forţei, iar bunăstarea şi securitatea sunt fragmentate gradual între un anumit număr de părţi conflictuale care încep să acţioneze pe cont propriu, așa după cum este atât de ușor de sesizat în prezent în Ucraina. Rezultatul imediat constă adesea în creşterea în amploare a violenţei armate şi în pierderea spaţiului teritorial, economic şi politic în favoarea actorilor nonstatali (rebeli) care se nasc din lipsa de legitimitate și autoritate provocate de guvernul colapsat. În viziunea lui Robert Dorff, expert în securitate internaţională la Institutul de Studii Strategice din Statele Unite, eşecul şi colapsul statului sunt părţi ale unui continuum în care un anumit stadiu al eşecului conduce automat la altul. În timp ce diferenţa dintre aceste stadii este, în principal, una de grad, punctul lor comun este acela că toate au origine comună, anume, prăbuşirea generală a corpului de reguli formale şi informale ce guvernează o societate, însoţită de dispariţia autorităţii formale sau a sursei sale.
Guvernarea este, în acelaşi timp, cauză şi consecinţă a eşecului în sfera economică şi a insecurităţii. Francis Fukuyama afirma că „lipsa capacităţii statului în ţările sărace a ajuns să bântuie lumea dezvoltată după sfârşitul Războiului Rece, în anii’90, colapsul sau slăbiciunea unor state provocând deja dezastre umanitare majore.” [8] Autorul enumeră, în acest sens, provincia Kosovo și statul Bosnia și Herțegovina, din Zona Balcanică a Europei de Est. Actualul conflict politic, economic și militar din Ucraina probează afirmațiile analiștilor în domeniu. Din punct de vedere geostrategic ne găsim într-o etapă distinctă de renaștere și revigorare a Războiului Rece, care ia forma conflictului clasic dintre Rusia și Statele Unite la care apare ca element de noutate Uniunea Europeană care este interesată de extinderea politică și economică spre est. Aceasta întreține conflictul ucrainean dar în același timp are o acțiune prudentă în relația diplomatică cu Rusia și una rezervată în relația cu Statele Unite. Interesele economice influențează în mod vădit acțiunea de politică externă a UE. Statul ucrainean, de curând investit cu putere și autoritate, la fel de precare, face dovada servituții, a slăbiciunii, eşecului și colapsului inevitabil. Ultimele trei caracteristici ale statului actual ucrainean sunt stabilite în funcţie de trei elemente inter-relaţionate, cuprinzând tocmai standardele occidentale de dezvoltare. Acestea sunt : guvernarea, economia şi securitatea. Capacitatea actorilor statali de a genera stabilitate zonală este strâns legată de măsura în care aceştia reuşesc să eficientizeze procesul de furnizare a procesului de securitate internă și în zona de influență din imediata apropiere a teritoriului suveran. Guvernul ucrainean este în prezent un generator de insecuritate și chiar alimentează și escaladează un conflict zonal ce poate avea consecințe dezastruoase pentru țările din Europa de Est și chiar pentru stabilitatea economică și politică a uniunii, a întregului proces de integrare și aderare de noi membrii.

Într-o lume globalizată, starea internă a statului are repercusiuni asupra rolului şi statutului acestuia la nivel internaţional. Performanţele interne şi externe ale statelor sunt monitorizate și ierarhizate în funcţie de „Indexul statelor eşuate” [9] elaborat de către experţii Fondului pentru Pace şi de indicatorii guvernării, elaboraţi de către specialiştii Băncii Mondiale, cei mai interesați de evoluția evenimentelor, a crizelor și conflictelor zonale. O astfel de analiză, de care nu este scutită nici Ucraina, trebuie să ţină seama, pe lângă situaţia internă prezentă a statului, de cele două dimensiuni ale prezenţei acestuia pe scena internaţională, anume statutul şi rolul. Statutul internaţional reprezintă poziţia pe care acel stat o ocupă în sistemul internaţional determinată de apartenenţa sa la diverse instituţii şi organizaţii internaţionale şi de puterea sa internaţională, incluzând aici toate dimensiunile specifice (economică, politică, militară, umană, culturală, tehnico-informaţională etc.). Această ierarhizare pornind de la „Indexul statelor eşuate” constituie una dintre cele mai sigure analize a vulnerabilităţii statelor suverane ce duce la conflict și în cele din urmă la colaps. Fondul pentru Pace propune 12 indicatori pentru analiza eşecului unui stat: „presiuni demografice; mişcări masive de refugiaţi sau persoane dislocate intern, ce creează urgenţe umanitare complexe; moşteniri ale unor grupări ce doreau răzbunare sau paranoia de grup; emigrare masivă a clasei medii şi a elitelor profesionale; dezvoltare inegală în cadrul diverselor grupuri sociale; declin economic sever; criminalizarea şi/sau pierderea legitimităţii statului; deteriorarea progresivă a serviciilor publice; suspendarea sau aplicarea arbitrară a statului de drept şi nerespectarea drepturilor omului; aparat de securitate ce operează ca stat în stat; crearea elitelor divizate; intervenţia altor state sau actori politici externi.” [10]

Ucraina joacă în aceste momente rolul de actor manipulat în configurarea viitoare a mediului de insecuritate europeană, dintr-o perspectivă strategică globală. De modul în care zona de influență a NATO și a UE avansează teritorial și politic spre est, vom puterea vorbi de o instabilitate și insecuritate și mai mare în viitor, această acțiune fiind percepută de Rusia drept o agresiune combinată de un real pericol pentru independența și suveranitatea acestei puteri în refacere de forță politică, economică și militară. Din păcate, în aceste zile, pe fondul unui terorism de stat nerecunoscut și neîncriminat, Ucraina alimentează o stare de insecuritate zonală ce tinde să se extindă la fel de periculos atât spre est cât și spre vest.
Puterea, în contextul relațiilor internaționale, poate fi definită drept capacitatea unui stat de a influenţa sau controla alte state iar Rusia deține o astfel de capacitate chiar și în relația cu Ucraina.
Sociologul german Max Weber a definit puterea ca şansa unui actor politic de a-şi impune voinţa sa altui actor politic. Secretarul de Stat al Administrației Americane în timpul președintelui Richard Nixon și Gerald Ford, Henry Kissinger, numeşte puterea drept „capacitatea unei entităţi de a-şi impune voinţa asupra alteia sau de a rezista presiunii exercitate de altă entitate”. [11] Rămâne de văzut dacă Ucraina va rezista presiunilor diplomatice și politice exercitate din Vest și în același timp celor economice și militare din Est sau se va prăbuși. Este evident că zona de instabilitate, vizată de cele două mari puteri, este un măr al discordiei globale ce alimentează insecuritatea Europei de Est și a întregului continent.

Referințe bibliografice
[1] Anthony, Giddens, Runaway World: How Globalization Is Reshaping Our
Lives, Profile Books, London, 1999, p.10.
[2] Samuel, P. Huntington, 1997, THE CLASH OF CIVILIZATIONS THE REMAKING OF WORLD ORDER, Simon & Schuster.
[3] Dan, Dungaciu, America la ora opțiunilor majore : dominație sau conducere globală ?, Revista Politica nr.45 din 16 dec.2004.
[4] Patrick, Stewart, Weak States and Global Threats: Fact or Fiction?, în „The Washington Quarterly”, No. 29:2, Spring 2006, p. 27-53.
[5] Robert I., Rotberg, Nation-State Failure: A Recurring Phenomenon?, NIC 2020 Project, 2003, p.3-4.
[6] Robert I., Rotberg, When States Fail: Causes and Consequences, Princeton University Press, 2003, p. 5.
[7] William, Zartman, Collapsed States: The Disintegration and Restoration of Legitimate Authority, Boulder, Lynne Rienner,1995.
[8] Francis, Fukuyama, Construcţia statelor. Ordinea mondială în secolul XXI, Editura Antet, Bucureşti, 2004, p.6.
[9] Daniel, Kaufmann ; Kraay, Aart ; Mastruzzi, Massimo, Governance Matters Aggregate and Individual Governance Indicators 1996-2008, The Development Research Group Macroeconomics and Growth Team & World Bank Institute Global Governance Program, 2009.
[10] Alexandra, Sarcinschi, Rolul actorilor statali în configurarea mediului internațional de securitate, Editura UNAp., București,2010, p.12-17.
[11] Henry, Kissinger, Problems of National Strategy, A book of Readings, Ed.V, 1971, p. 3.

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UNA GEOPOLITICA FLUVIALE

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Il fiume è coessenziale ad una interpretazione della storia europea secondo una visione “di terra”, contrapposta ad una percezione marittima. Si vogliono evidenziare solo interpretazioni dell’elemento fluviale a partire dal Medioevo in quanto da lì emergono i significati geopolitici di fiume ricorrenti anche nei secoli successivi. Per ragioni di spazio, ma con riserva di approfondimento, in questa sede non affrontiamo la storia dei significati assunti dall’elemento fluviale negli altri Grandi Spazi diverso da quello europeo, né i profili sociali che la costruzione di una civiltà reca con sé.
La Terra è Madre del diritto, poiché essa reca in sé sempre una misura interna di giustizia per il lavoro di dissodamento e coltivazione svolto entro linee precise di suddivisione del suolo che, unitamente ad altre, danno una chiara percezione dell’ordine costituito: l’occupazione della terra costituisce il titolo radicale, l’archetipo di un processo giuridico costitutivo che immediatamente ci permette di differenziare la posizione nostra verso l’esterno, nei confronti di altri popoli, ed all’interno in relazione alle altre linee in cui la proprietà del suolo è suddivisa. Ebbene, col termine nomos Schmitt definisce “la forma immediata nella quale si rende spazialmente visibile l’ordinamento politico e sociale di un popolo … l’occupazione di terra e l’ordinamento concreto che in essa è contenuto e da essa deriva. ..Nomos è la misura che distribuisce il terreno ed il suolo della terra..” .
La Madre Terra può dare frutti se, oltre all’energia dell’uomo, vi sia la risorsa principale costituita dall’acqua, e qui si introduce la prospettiva fluviale che rende evidente, anche se talvolta data per scontata, l’idea del Nomos sopra descritta. L’ Impero Romano reca con sé una concezione universalistica e sovranazionale rivolta ad uno spazio territoriale che diviene concreto solo se rapportato all’altrettanto decisiva presenza dell’elemento fluviale che lo delimita. Lo spazio continentale europeo si costituisce su un tripartito regime fluviale: il Rodano, che si getta nel bacino occidentale del Mediterraneo e unisce quest’ultimo al centro nevralgico dell’Europa centrale, via Ginevra, il corso della Saône e del Doubs, che lo conduce alle «Porte di Borgogna» (Burgundische Pforte), cioè al varco di Bâle o di Belfort, in prossimità del Reno e non lontano dalle sorgenti del Danubio.
Già I Romani erano coscienti del fatto che un’unità politico territoriale del loro Impero non potesse prescindere dal governo di questi tre grandi regimi fluviali (Rodano, Reno e Danubio) rispetto ai quali vanno considerati gli inserimenti delle popolazioni barbariche all’interno dell’Impero (il fiume come confine). Alcune occupazioni territoriali – come quelle di Ostrogoti e Burgundi si svolsero nel rispetto dell’ordinamento spaziale romano, dato che le tribù nomadi si fecero assegnare terra dall’Imperatore medesimo; altre occupazioni invece avvennero senza alcun riguardo per le situazioni precedenti: è il caso dei Longobardi in Italia, a partire dal VI secolo, che abolirono le situazioni giuridiche precedenti acquisendo in modo violento la proprietà altrui conferendola nelle “sale” e ripartendola fra l’aristocrazia guerriera distinta poi per ducati ed arimannie. Essi comunque ebbero ben presente l’importanza del fiume Ticino ponendo a Pavia (Ticinium) la loro capitale, poiché, risalendo il Po, si aveva il controllo dell’intera pianura padana: i mercanti di Comacchio dall’VIII secolo risalivano il Po per arrivare a Pavia vendendo sale, olio e spezie di provenienza orientale e comprando grano per le regioni costiere (il fiume come via di comunicazione). A partire dalla dissoluzione dell’impero carolingio, si pone il problema di mantenere il riferimento all’antica localizzazione territoriale dell’Impero Romano: nel Medioevo avanza la lotta per Roma e non contro Roma. La Chiesa si assume la gravosa responsabilità di impedire la dissoluzione di un intero mondo, di trattenerlo – da qui il concetto di katechon – di fronte all’avanzare dell’Anticristo, o, detto, altrimenti la dissoluzione completa dell’Occidente.
Il recupero delle popolazioni slave dislocate fra l’Elba e l’Oder avvenne avvalendosi di armi, diplomazie e predicazione religiosa (il fiume come riferimento di unità religiosa latino germanica) oscillando queste popolazioni tra il miraggio di Costantinopoli e il timore di entrare in un’organizzazione che potesse ridurre la loro autonomia politica: Ottone I riuscì a sottomettere dapprima la Boemia, poi la Moravia ed infine, fatto decisivo, gli Ungari dopo averli sconfitti militarmente nel 955 a Lechfeld – in prossimità del fiume Lech (il fiume come teatro di scontro bellico). Nel Continente i secoli dal XII al XV sono ad appannaggio delle repubbliche marinare veneziane e genovesi e delle città come Firenze (situata sull’Arno): esse riescono ad acquisire uno strapotere commerciale facendo rete fra commercio marittimo, arterie fluviali interne dell’entroterra e vie stradali in grado di collegare i centri- specie del Nord Italia- col Nord della Francia e con le Fiandre. Un esempio di questa perfetta integrazione è data appunto dal fiume Ticino che permette, risalendo da Est di proseguire verso la Germania utilizzando per lunghi tratti la navigazione fluviale e lacuale sul Lago Maggiore per giungere poi in territorio elvetico servendosi del passo del Gottardo.
Superata la carestia del 1348 e le altre crisi del XV secolo, il continente europeo riprende lentamente a ripopolarsi e soprattutto a vedere l’introduzione di nuovi prodotti agricoli – come riso e mais – che, a differenza del grano- presenteranno una resa maggiore ed una possibilità ulteriore di vendere eccedenze alimentari sul mercato: nelle agricolture più evolute, si afferma il sistema irriguo grazie anche ad una forte infrastrutturazione di canali che spesso porta comunità – è il caso di Milano con Pavia – a scontrarsi per la deviazione dei corsi fluviali (il fiume come risorsa per l’agricoltura)
Dal XVII secolo comunque all’elemento Terra comincerà a contrapporsi il Mare che ridefinirà completamente i precedenti modi di intendere la statualità ma lo stesso presupposto di Grande Spazio: ha inizio l’ascesa dell’Inghilterra che ripensa sé stessa, la propria politica e la e propria identità a partire dal Mare dove ovviamente, non esistendo linee di confine, è possibile osare tattiche e metodi impensabili sulla terraferma: il vocabolo – coi relativi attacchi a vascelli ed imbarcazioni spagnole- deriva dal greco peirao che significa appunto tentare, osare. Avuta completamente la meglio sugli Olandesi – un popolo grandissimo che comunque, al momento decisivo dopo la pace di Utrecht del 1713, si volse a quella terraferma per recuperare la quale tanto aveva lottato contro il Mare- gli Inglesi, già in precedenza sbarazzatisi della potenza spagnola, rimasero incontrastati padroni delle vie oceaniche. All’interno del suo territorio insulare, l’Inghilterra si attivò enormemente affinché bacini fluviali- il Tamigi, il Severn, il Trent, l’Humber – venissero potenziati con opportuni lavori che ne migliorassero la navigabilità; nel continente la strategia diplomatica perseguita fu opposta sempre per rendere più oneroso il trasporto via terra di merci e granaglie (il fiume come baricentro di strategia geopolitica) e, soprattutto, impedire di pensarsi come Grande Spazio continentale: solo così si riesce a comprendere l’ossessione britannica di invocare il superiore principio della libertà dei mari e dei commerci, mantenendo libere tutte quelle vie di comunicazione sul mare (Stretto di Gibilterra, Canale di Suez) che consentono il collegamento dell’area atlantica verso quella indiana; ed in quest’ottica si comprende l’ossessione britannica di tenere lontana la flotta russa dal Mediterraneo e dal Mar Nero per impedire la costituzione di qualsiasi rete con l’arteria danubiana e gli altri bacini fluviali interni al territorio russo.
Ad Est l’arteria danubiana rimarrà sempre quella decisiva dato che gli Ottomani dal XVI secolo tenteranno, dal Mar Nero, di risalire la foce per spingersi fino a ridosso di Vienna: le vittorie di Eugenio di Savoia a Timisoara, lungo il fiume Timis, a Belgrado sul Danubio e a Zenta nel 1697 sono fondamentali per il mantenimento della civiltà occidentale (il fiume come elemento divisivo di due civiltà).
E’ davvero superata questa visione? Sembra proprio di no, dato che il disegno strategico di bloccare l’arteria danubiana era già perseguito da Gran Bretagna e Stati Uniti non solo all’epoca del Trattato di Versailles, ma ancora, per parte americana, all’epoca della guerra in Kossovo col bombardamento del ponte danubiano su Novi Sad. Né può dirsi un caso che la Crimea sia stata oggetto di interesse immediato per parte russa- dato che è la parte di territorio ucraino in cui sfocia il Danubio – e come per gli USA sia indispensabile stressare l’intera area che dal Baltico arriva al Mar Nero (l’antica linea dai Variaghi ai Greci).
Personalmente sono convinto che la risorsa fluviale sia importante non solo da un punto di vista culturale (il fiume come memoria del patrimonio culturale e naturale europeo) ma anche economico attraverso opere di grandi infrastrutturazione che rendano collegabili il bacino renano con quelli dei grandi corsi russi (il fiume come infrastruttura economica- ) – come grande volano per la crescita e l’occupazione- favorendo al contempo il potenziamento delle aggregazioni territoriali in dimensioni macro-regionali (il fiume come perno di riorganizzazione territoriale) che permettano sempre più, nel rispetto delle proprie identità e della propria storia, il recupero della dimensione di Grande Spazio Europeo l’unica che possa consentirci un confronto con quelli russi, cinesi e sudamericani in termini di confronto di civiltà. Come annunciato in premessa, non ci si può dilungare oltre nel raffronto con i Grandi Spazi russi, cinesi e sudamericani sebbene si possa dire che là il problema della regolazione delle acque di grandissimi corsi fluviali abbia spinto verso un’organizzazione amministrativa di tipo imperiale, fortemente accentrata con un impatto particolare nelle modalità di esazione fiscale, secondo un’impostazione differente da quella europea che conobbe la figura dello Stato a partire dal XVI secolo : è comunque anch’essa una materia meritevole di essere rappresentata secondo una prospettiva turistico culturale che espliciti i prezzi demografici, sociali, sanitari, alimentari che in termini di sofferenza, lotta e scontro una civiltà paga per emergere: il fiume, nel Grande Spazio Europeo costituisce la Memoria della nostra civiltà occidentale continentale, l’unica che abbia la dignità e la statura per confrontarsi con le altre sopra ricordate.

NOTE
(1) C. Schmitt Il Nomos della Terra – Milano 1991
(2) C. Schmitt Il Nomos

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L’ISIS, DI BATTISTA E LA GUERRA AL TERRORISMO: COMMENTO GEOPOLITICO DI UNA CONTRADDIZIONE

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L’uscita, in parte provocatoria, del deputato grillino Alessandro Di Battista arriva in un momento importante nella vita politica italiana, alle prese con numerose criticità e alla vigilia della convocazione delle Commissioni Esteri e Difesa del Parlamento per decidere l’invio di armi ai curdi iracheni.
Le recenti crisi internazionali, dalla guerra di Gaza a quella in Ucraina, hanno contribuito – dopo parecchi anni e seppur per motivi diversi – a stabilire un nesso tra avvenimenti esterni e loro conseguenze sul piano interno, ma la questione dell’avanzata dell’Isis in Iraq ha aumentato notevolmente la tensione in un’Italia già scossa dai possibili contraccolpi di un’immigrazione straniera ormai fuori controllo.
Le parole dell’On. Di Battista, opportunamente evidenziate da alcune agenzie (1), hanno quantomeno riaperto il dibattito su alcuni temi che sembravano ormai destinati a sparire dal dibattito politico nazionale, seppure appaiono venate da alcune ingenuità che – sapientemente gonfiate dai mass media – rischiano di inficiarne l’assunto generale.
Sbaglia infatti Di Battista quando utilizza l’esempio dell’ISIS per legare il movimento qaedista ai gruppi rivoluzionari arabi che da decenni cercano di ottenere l’indipendenza in un contesto regionale fortemente caratterizzato dal neocolonialismo occidentale (dai numerosi colpi di Stato della CIA – giustamente ricordati nel suo discorso – alla creazione di Israele, alle basi militari USA, alle guerre dirette ed indirette volute dalle varie multinazionali …).
Se avesse davvero voluto mettere nel sacco la leadership nordamericana, confortando la sua opinione secondo la quale ”Gli USA non ne hanno azzeccata una in Medio Oriente …”, Di Battista avrebbe dovuto sottolineare l’incoerenza della presunta “guerra al terrorismo” condotta da Washington e non la sua inefficacia (perché i suoi obiettivi strategici sono ben altri …).
Avrebbe ad esempio potuto dire che per oltre due settimane, durante l’avanzata dell’ISIS, gli USA non abbiano mosso un dito se non per difendere la propria Ambasciata a Baghdad, mentre la Russia e l’Iran fornivano aiuti militari al legittimo Governo iracheno.
Avrebbe potuto sottolineare che l’avanzata dell’ISIS era infatti funzionale al disegno statunitense di rientrare con forza in Iraq mettendo fine al Governo di Al Maliki, troppo vicino a Teheran, così come in effetti è poi accaduto … (2).
Avrebbe potuto rilevare che, ben lungi dal sostenerne il Governo centrale, gli USA stiano ora aiutando soltanto i separatisti curdi, funzionali al disegno di divisione dell’Iraq e quindi ad una sua ulteriore destabilizzazione.
Soprattutto Di Battista avrebbe dovuto chiarire come l’ISIS sia stato sostenuto per anni dai principali alleati mediorientali degli Stati Uniti e di Israele (che ne hanno addestrato gli effettivi in Giordania): Turchia, Arabia Saudita e Qatar contro il Governo siriano di Bashar Al Assad.
Il deputato di Cinque Stelle avrebbe potuto notare la strana coincidenza tra la recente decisione di Obama di riarmare i ribelli siriani e la nuova avanzata dell’ISIS in Siria ed Iraq, oscurata dai media finché Washington non ha deciso di bombardarne alcune postazioni, come se i massacri dei cristiani in Medio Oriente avvengano soltanto ora …
In particolare Di Battista avrebbe potuto sottolineare come gli Stati Uniti possiedano numerosi mezzi di pressione, militari e finanziari, nei confronti dei paesi che armano e pagano l’ISIS, in quanto tutti suoi alleati storici …
Spiegando questa curiosa incongruenza della politica estera nordamericana, ormai talmente palese da essere ammessa anche dai commentatori della geopolitica “ufficiale” (3), si sarebbe finalmente evidenziato che la “guerra al terrorismo” intrapresa dopo l’11 settembre 2001 non è altro che una guerra indiretta ma veemente condotta dagli USA e dai suoi alleati contro le principali nazioni eurasiatiche per il controllo economico e finanziario delle risorse del pianeta, ad evidente danno degli stessi popoli europei.
Il voler equiparare l’ISIS – un’organizzazione militare spietata, affatto endogena (viste le provenienze cecene, pakistane …), ben finanziata ed addestrata dai servizi segreti delle principali potenze occidentali e da quelli delle petromonarchie del Golfo Persico – ad un’OLP o ad un’ETA qualunque con le quali poter trattare, ha così sviato l’attenzione dal problema reale facendoci perdere un’ interessante occasione di dibattito.
Un problema reale, perché come riportato in un’altra parte dell’intervento dell’On. Di Battista (“Essere alleati degli USA non significa essere sudditi”), riguarda innanzitutto la sovranità politica ed economica dell’Italia e il controllo militare del proprio territorio, due parametri senza i quali l’esistenza stessa del “nostro” Paese può considerata ormai a rischio.
Ci si augura perciò che l’importante dibattito sulla questione irachena nelle Commissioni Esteri e Difesa di Camera e Senato non si traduca in un’inutile rissa tra fazioni politiche prigioniere di un’ideologia che non esiste più ma che rappresenti un’utile occasione per chiarire una volta per tutte quale sia il nostro tanto citato “interesse nazionale”: prendendo magari le opportune misure per realizzarlo.

Note
1) L’intervento integrale di Alessandro Di Battista è stato ripreso da Agenzia Stampa Italia: http://www.agenziastampaitalia.it/politica/politica-estera/21564-isis-che-fare-leggete-l-analisi-completa-di-di-battista-m5s
2) http://www.eurasia-rivista.org/stefano-vernole-e-alireza-jalali-allirib-usa-e-gb-usano-terroristi-isis-per-costringere-al-maliki-alle-dimissioni/21744/
3) Il direttore della rivista italiana di geopolitica Limes, Lucio Caracciolo, ha recentemente definito l’11 settembre 2001 “Attacco saudita all’America vestito da follia terroristica”, in Limes, “Brasiliana”, 6 giugno 2014, p. 15.

Stefano Vernole è Vicedirettore di “Eurasia” Rivista di studi geopolitici.

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LA GRANDE SCACCHIERA SECONDO BRZEZINSKI

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Il 21 luglio scorso, ossia quattro giorni dopo che era stato abbattuto il Boeing 777 della Malaysia Airlines mentre sorvolava l’Ucraina orientale a circa 50 km dal confine con Russia, Foreign Policy pubblicava un’intervista a Zbigniew Brzezinski da parte di David Rothkopf (1). Il “grande vecchio” della geopolitica statunitense, il cui ultimo importante lavoro, Strategic Vision. America and the Crisis of Global Power, è stato pubblicato solo due anni fa, (2) non si smentisce e la sua analisi degli affari internazionali è come al solito caratterizzata da uno stile di pensiero netto e chiaro, benché si debba cogliere anche e soprattutto il senso di quel che egli “esprime tra le righe”.
Brzezinski è perfettamente consapevole dei limiti della potenza americana e ritiene che gli Stati Uniti si siano lasciati coinvolgere nel labirinto medio-orientale senza ottenere alcun vantaggio, mentre si è destabilizzata l’intera regione. Il che è tanto più grave in quanto attualmente non vi è più un sistema internazionale in grado di garantire un “nuovo ordine mondiale”. Ne consegue, a giudizio di Brzezinski che, sebbene non stiamo scivolando verso un’altra guerra mondiale, rischiamo di andare verso un’era di grande confusione e caos.
Brzezinski riconosce esplicitamente anche che l’America ha sbagliato ad eliminare Saddam e a lasciare troppo spazio alle petromonarchie del Golfo, senza nemmeno impegnarsi a fondo né in Libia né in Siria. Per mettere fine ai conflitti che stanno devastando e insanguinando l’intera regione medio-orientale e che vedono prevalere gruppi di terroristi islamisti (ma Brzezinski sa benissimo da chi sono finanziati e armati), occorrerebbe quindi puntare sull’Iran, nonostante la prevedibile opposizione di Israele. Ma per Brzezinski Israele è al sicuro con le sue 150-200 testate atomiche, mentre l’Iran anche se riuscisse a fabbricare un ordigno nucleare non sarebbe così folle da “suicidarsi” lanciandolo contro Israele.
Al riguardo, Brzezinski, che si dichiara favorevole pure alla creazione di uno Stato palestinese, è chiarissimo, arrivando ad affermare: “I can envisage a nuclear-armed Israel and a nuclear-armed Iran being a source of stability in the region” (una concezione condivisa anche da Martin van Creveld il noto analista militare israeliano, pure lui decisamente contrario all’invasione dell’Iraq nel 2003). In effetti, Brzezinski ritiene che gli Usa dovrebbero prendere l’iniziativa per edificare un nuovo ordine mondiale di tipo multipolare, dacché è evidente che la sovraesposizione imperiale del grande Paese nordamericano per Brzezinski è un pericolo che Washington non deve più correre, i tempi non essendo maturi per un nuovo unipolarismo statunitense.
In questa prospettiva, l’alleanza degli Stati Uniti con la Cina sarebbe, a suo avviso, la chiave geostrategica per arrivare a ridisegnare la mappa geopolitica dell’intero pianeta in modo tale da garantire maggiore maggiore sicurezza e maggiore stabilità negli affari internazionali. Nella sostanza, la Cina dovrebbe avere un ruolo egemone in Asia, pur dovendo lasciare un certo “spazio geopolitico” al Giappone e all’India, mentre gli Usa dovrebbero di fatto dominare incontrastati in Europa, contando sull’appoggio dei circoli atlantisti europei, e in America Latina, anche se secondo Brzezinski si dovrebbero migliorare le relazioni bilaterali tra gli Usa e i Paesi del continente americano (che pensi in particolare al Brasile ci pare ovvio).
Tuttavia, anche in questa intervista si rivela chiaramente la russofobia dello studioso di origine polacca, il quale considera la Russia responsabile della grave crisi ucraina, senza dire nulla sul fatto che a Kiev c’è stato un golpe appoggiato dalla Nato, né sul fatto che, di conseguenza, la stragrande maggioranza della popolazione della Crimea ha voluto riunirsi alla Russia. E neppure ovviamente dice nulla su quanto sta accadendo in questi ultimi mesi in Ucraina orientale, ove la popolazione locale combatte una disperata battaglia contro i golpisti filo-occidentali di Kiev, tra i quali vi sono pure bande armate di neonazisti, che agiscono come “utili idioti” della Nato.
Eppure, tali “omissioni” non dipendono solo da pregiudizi antirussi. Apparentemente per Brzezinski la Russia è un Paese relativamente debole, che può tutt’al più svolgere un ruolo geopolitico a livello regionale, e in questo senso, ammette che la funzione della Russia può anche essere utile. Ma quel che in realtà si deve tenere presente è che la stessa idea di riconoscere alla Cina una posizione mondiale di primo piano, non la si comprende appieno se non la si mette in relazione con il fatto che i Brics costituiscono ormai un “potenziale “polo geopolitico” in grado di contrastare quello atlantico, dominato dagli Usa. Il fatto stesso che il rapporto tra Cina e Russia si vada rafforzando mette in discussione l’egemonia degli Usa. Questo Brzezinski lo sa meglio di chiunque altro. Come sa che l’Ucraina è di importanza decisiva per la sicurezza nazionale e il ruolo internazionale della Russia.
Infatti, è stato proprio Brzezinski a scrivere che senza l’Ucraina la Russia non può essere un attore geopolitico a livello globale, ma potrebbe solo essere solo un “predominantly Asian imperial state” (3). Ma oggi, con l’eccezionale crescita della Cina e quella (assai minore di quella cinese ma pur significativa) dell’India anche questo ruolo non sarebbe possibile per la Russia, una volta privata della Crimea e della sua sfera d’influenza in Europa. Limitare drasticamente quindi il ruolo geopolitico della Russia è la ragione fondamentale dell’ingerenza degli Usa negli affari interni dell’Ucraina e del tentativo di portare questo Paese nell’orbita della Nato e della Ue, ossia degli Usa (cui naturalmente .piacerebbe che in Russia accadesse quanto è accaduto in Ucraina).
In questa prospettiva, l’argomentazione di Brzezinski è assai più chiara, dacché è logico che la politica di una superpotenza come gli Usa (stendiamo pure un “velo pietoso”, come si suol dire, sulla questione della democrazia e della pace made in Usa) non può dipendere dalla politica di potenza israeliana o dalle ambizioni e dagli interessi regionali dell’Arabia Saudita e del Qatar, mentre è pacifico che la sicurezza nazionale sia di Israele che delle petromonarchie del Golfo dipenda dalla politica di potenza americana. Nondimeno, è assai difficile ritenere che questi attori regionali siano pronti a dar vita ad un nuovo corso geopolitico che veda l’Iran diventare una potenza nucleare e addirittura garante di equilibri geostrategici funzionali alla politica statunitense, in un’area che gli stessi Stati Uniti hanno contribuito a trasformare in un lago di sangue e in cui scorrazzano bande armate islamiste d’ogni genere.
Né è convincente paragonare le relazioni tra Roma e Bisanzio a quelle che dovrebbero intercorrere tra Cina e Usa in un prossimo futuro, benché spiegare l’attuale fase storica riferendosi alle guerre di religione in Europa nel XVII secolo, che portarono alla nascita di un sistema politico continentale fondato sugli Stati nazionali europei, sia (se non condivisibile) perlomeno comprensibile, giacché è naturale che le relazioni internazionali non possono essere fondate su una geopolitica del caos. (Degno di nota è pure che Brzezinski consideri un fattore di forza lo Stato nazione e che perciò ritenga necessario fondare un nuovo ordine mondiale su due potenti Stati nazione, nonostante tutte le ciance sulla fine degli Stati nazione predatori).
Una tale situazione di caos, in effetti, a lungo andare non può non avere conseguenze negative per la potenza capitalistica predominante, anche sotto il profilo economico, mentre l’economia internazionale è sempre più caratterizzata dal dinamismo dei Brics e dalle difficoltà della “vecchia Europa”, non a caso “liquidata” da Brzezinski, che pur non ne sottovaluta l’importanza, come un problema che l’America può e deve risolvere mediante accordi commerciali. Ovverosia mediante il Tafta, il noto Transatlantic Free Trade Act, che segnerebbe il definitivo tramonto dell’indipendenza dell’Europa, mettendo i singoli Stati del Vecchio Continente sotto la tutela dei “mercati” English speaking.
Al riguardo è significativo pure che Brzezinski in questa intervista non prenda in considerazione gli effetti della crisi economica sull’Ue né la questione del rapporto tra la Germania e i Paesi deboli dell’Europa meridionale, ma si limiti ad evidenziare la debolezza geopolitica dell’Ue (benché nella sua opera più recente sottolinei i forti legami commerciali con la Russia che caratterizzano l’economia della Germania e quella dell’Italia). Ma la debolezza dell’Europa, su cui non ci piove, potrebbe rivelarsi un fattore di grave instabilità per gli stessi Usa, giacché, nel caso che i Brics diventassero un vero “blocco geopolitico”, ciò non potrebbe non influire sui delicati e fragili equilibri economici e politici dell’Ue, in specie su quelli dell’Eurozona già sottoposti a tensioni fortissime.
In sostanza, quindi per Brzezinski il vero scopo degli Usa dovrebbe essere quello di evitare che si costituisca un potente polo geopolitico in Eurasia, dacché “una potenza che domini l’Eurasia eserciterebbe un’influenza decisiva su due delle tre regioni economicamente più produttive al mondo: Europa occidentale e Asia orientale. Uno sguardo alla mappa suggerisce anche che un Paese dominante in Eurasia quasi automaticamente controllerebbe Medio Oriente e Africa”. (4)
Perché ciò non accada, gli Usa dovrebbero “sfilare” la Cina (almeno di fatto, se non formalmente) dai Brics, impedire che si formi un asse geostrategico Mosca-Pechino, trasformare il Medio e Vicino Oriente in un’oasi di pace – facendo leva sui buoni rapporti (tutti da costruire) tra Iran e Israele da un lato, e tra Iran e Arabia Saudita (nonché tra Israele e palestinesi) dall’altro -, mantenere il controllo dell’intero continente americano usando più la carota che il bastone, e saldare all’Atlantico un’Europa sempre più debole e stretta nella morsa di una crisi economica, le cui cause non sono certo solo di natura economica.
Qualcuno potrebbe pensare che sia più facile risolvere il problema della quadratura del cerchio. Eppure, Brzezinski non è affatto un visionario. Si deve tener conto infatti che in primo luogo l’uditorio cui egli si rivolge è costituito dai membri del gruppo dominante americano, in cui la “pressione” per un intervento contro l’Iran è pur sempre forte, mentre Brzezinski è convinto non solo che si possa ottenere parecchio lasciando che l’Iran sviluppi il suo programma nucleare pacifico, ma soprattutto che “raffreddare” la situazione in Medio Oriente a questo punto convenga a tutti.
Per quanto concerne i Brics, invece è evidente che la parte del leone la fa la Cina, la cui quota della manifattura mondiale è salita dall’8,3% nel 2000 al 30,3% nel 2013, mentre quella degli Usa nello stesso periodo è calata dal 24,5% al 14,3% (5). Ragion per cui è imperativo per gli Usa trovare un accordo con la Cina. Inoltre, è abbastanza chiaro che Brzezinski più che a un multipolarismo pensa ad un bipolarismo che lasci spazio a dei “poli geopolitici” regionali,tanto che ritiene che “we are moving into a world of a G-2 plus”.(6).
Non solo però, come si è già rilevato, è ben difficile che gli Usa possano convincere i loro stessi alleati ad accettare una ridefinizione così drastica della mappa geopolitica in Medio Oriente a breve termine, ma non è nemmeno facile che la Cina si comporti come si augura Brzezinski, dacché in gioco vi è un sistema geopolitico, finanziario ed economico che è ancora completamente “egemonizzato” dagli Usa e in generale da quella che si può definire l’élite occidentale del potere. Ma vi è pure la questione della Russia, che dovrebbe subire passivamente l’iniziativa strategica degli Usa. Il che francamente sembra assai improbabile, anche se Brzezinski ritiene che l’ingesso dell’Ucraina nell’Ue e l’espansione della Nato verso est potrebbero indurre Mosca a rassegnarsi ad avere un ruolo di carattere subalterno rispetto a quello degli Usa e della Cina.
Invero, per Brzezinski il nemico “numero uno” degli Usa è ancora la Russia (non a caso giunge addirittura a criticare l’Europa rea, a suo avviso, di non aver preso una posizione dura nei confronti della Russia sulla questione ucraina). Il motivo è semplice. Secondo il “nostro” la Cina è essenzialmente una potenza asiatica, nonostante i suoi interessi commerciali siano ormai globali. La Russia invece è una potenza eurasiatica, ancora in grado di influenzare la politica e la cultura europea. Ed è pure un partner economico di primaria importanza per molti Paesi europei, oltre a disporre di uno spazio immenso e ricchissimo di materie prime. E’ naturale dunque che per Brzezinski gli Usa debbano puntare sulla Cina per mettere la Russia in un angolo, costruire una “barriera” che divida l’Europa dalla Russia di Putin e cercare di togliere il “pungiglione militare” ai Brics.
Certo la Cina potrebbe diventare una superpotenza militare e sfidare gli Usa anche senza un’alleanza militare con la Russia. Del resto, la crescita militare della Cina è già in atto, ma appunto per questo è necessario per gli Usa giungere ad un compromesso con i cinesi, che pure devono ancora risolvere parecchi problemi di politica interna. Ciononostante, solo integrando i gruppi dominanti cinesi nella élite del potere occidentale, sarebbe possibile un sistema “G2 plus” come si augura Brzezinski. Ma anche ammesso che ciò non sia una sorta di wishful thinking, ci vorrebbero anni per costruirlo, mentre è la stessa politica di “pre-potenza” dell’America e dei suoi principali alleati che continua a creare caos e instabilità non solo nel Medio Oriente.
Peraltro, anche la vicenda ucraina, che Brzezinski tratta non solo superficialmente ma con arroganza e distorcendo completamente la verità dei fatti, è indice che gli Usa sono tutt’altro che disposti a “mollare la presa” sia sul Vecchio Continente che sulla fascia costiera dell’Eurasia. Comunque sia, non c’è prova migliore che l’America sia in difficoltà del fatto che il “nostro” ammetta che “we are losing control of our ability at the highest levels of dealing with challenges that, increasingly, many of us recognize are fundamental to our well-being”. (7) E su questo si può essere tutti d’accordo.
Contrariamente però a quanto sostiene Brzezinski, nessun equilibrio internazionale (né alcuna nuova Bretton Woods) sarà possibile fino a quando gli Usa non rinunceranno ad una politica che ha come autentico scopo l’egemonia globale. D’altronde, com’è noto gli Usa non hanno alleati permanenti, ma solo obiettivi permanenti. E questo, com’è ovvio, lo sanno pure i cinesi. E’ quindi alla luce di tali obiettivi e interessi che si devono valutare le parole di Brzezinski. Certo è che nei prossimi anni la situazione internazionale diverrà ancora più fluida e instabile, con improvvisi mutamenti di fronte e rovesciamenti di alleanze, tanto che è lecito ritenere i Paesi che non ne sapranno approfittare per rafforzare la propria sovranità e ampliare la propria sfera d’azione geopolitica, rischieranno di scivolare verso la periferia del “sistema mondo”. E che ciò si stia già verificando per quanto concerne l’Italia, un Paese del tutto subalterno alle logiche di potere d’oltreoceano, non dovrebbe sorprendere nessuno.

NOTE
1. A Time of Unprecedented Instability? (http: // www. Foreign policy. com/articles /2014/07/21/ a_time_of_unprecedented_instability_a_conversation_with_zbigniew_brzezinski%20).
2. Z. Brzezinski, Strategic Vision. America and the Crisis of Global Power, Basic Books, New York, 2013.
3 Z. Brzezinski, The Grand Chessboard, Basic Bokks, New York, 1997, p. 46.
4. Così scriveva lo stesso Brzezinski in un articolo per Foreign Affairs del settembre/ottobre 19 (vedi F. W. Engdahl, L’odierna posizione geopolitica degli Usa, “Eurasia”, n. 3, 2010, p. 62.).
5. “Scenari Industriali”, Confindustria centro studi, giugno 2014, n. 5, p. 15.
6. Vedi A Time of Unprecedented Instability?, cit.
7 Ibidem.

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Unisex. La creazione dell’uomo “senza identità”

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Enrica Perucchietti, Gianluca Marletta, Unisex. La creazione dell’uomo “senza identità”, Arianna Editrice, Bologna 2014.

Scopo del presente libro è quello di avvertire il lettore del pericolo che incombe su tutti coloro che sono sottoposti alla propaganda, palese ed occulta, della cosiddetta “ideologia di genere”.
Tale ideologia, di cui ci siamo già occupati sul fascicolo 2/2014 di questa stessa rivista dedicato a “La seconda Guerra fredda”, sotto il manto rassicurante del “rispetto” e della “libertà” mira a La creazione dell’uomo “senza identità”, come recita il sottotitolo di Unisex, di Enrica Perucchietti e Gianluca Marletta (Arianna Edizioni, Bologna 2014).
I lettori di una rivista di geopolitica, e a maggior ragione gli addetti ai lavori, non devono sottovalutare il peso del fattore ideologico nella competizione tra grandi potenze. Se infatti è chiaro a chiunque il ruolo svolto dalle ideologie otto-novecentesche come strumento per rinforzare il consenso interno e cooptare simpatie presso società nemiche da indebolire e sovvertire, forse non è altrettanto evidente come l’ideologia “gender” si situi in un consolidato e nutrito filone, pur tuttavia con delle sue peculiarità in linea con lo “spirito dei tempi”.
Essa non si limita per l’appunto a fornire una mera arma propagandistica, ma viene utilizzata in maniera martellante contro le stesse popolazioni da cui sono emersi i teorici di questa visione del mondo a rovescio, e successivamente contro quelle conquistate, per uno scopo mai dichiarato prima con siffatta spregiudicatezza: la manipolazione dell’uomo ad un punto tale da mandarlo in confusione persino sul piano delle sue basi biologiche.
Come tutte le astruserie non basate sulla realtà immodificabile della Natura, si è di fronte – come riconoscono gli stessi autori – ad un tassello importante verso il tentativo di edificare la “Grande utopia”, cioè il cosiddetto “Nuovo Ordine Mondiale”. Che di per sé non si significherebbe molto, senonché, alla luce della teoria e della prassi degli “ideologi del genere”, si può affermare con cognizione di causa che l’obiettivo principe di tale “ordine” è “l’uomo nuovo”, completamente a-morfo (cap. 1).
Si potrebbe a ragione individuare nel “rivoluzionarismo”, nel desiderio di sovvertire l’ordine naturale delle cose, l’humus da cui trae origine questa propaganda che inonda in prima istanza le popolazioni occidentali con i “diritti dei gay”, il “pansessualismo” ed altre assurdità che in epoche normali non sarebbero mai uscite dal recinto di chi era dedito al vizio e alla perdizione.
Ma quelle erano epoche nelle quali la religione non era uno strumento consolatorio ad uso e consumo della gestione di “crisi umanitarie”. Il che spiega l’odio esplicito dei teorici “gender” verso tutte le “false religioni” e l’impegno profuso nella diffusione di un clima atto a far recepire una “Nuova Era” (della “tolleranza”, dell’amore universale” ecc.).
Partendo da quest’assunto (senza peraltro approfondire la portata distruttiva dell’odio antireligioso insito nella “ideologia di genere”), gli autori – che per onestà intellettuale si premurano d’informare che essi non ce l’hanno con gli omosessuali, limitandosi invece a studiare il pensiero e l’azione degli “omosessualisti”, ovvero degli omosessuali militanti – proseguono la loro disamina con una breve storia di questa corrente di pensiero (cap. 2), le cui radici non vanno disgiunte da quelle che hanno prodotto, tra le altre, la mala pianta della “droga libera”.
In prima fila, a sovvenzionare “scienziati” e “centri studi” (ci occuperemo in seguito dell’Istituto Tavistock, oggetto di uno studio di Daniel Estulin tradotto sempre per Arianna Editrice), troviamo i veri potenti del capitalismo occidentale, organizzati in “fondazioni” che, assieme all’Onu, svolgono un ruolo capillare nella persuasione delle masse, progressivamente conquistate – quando non sono sorrette da una visione del mondo saldamente tradizionale – a questo nuovo paradigma che mette in discussione le basi stesse dell’essere umano, della famiglia e della comunità.
Ideologia “gender” ed omosessualismo (cap. 3) sono strettamente correlati, ed è interessante notare come una certa “antipsichiatria” (per altri versi giusta e sacrosanta tanto è misera la concezione dell’uomo dei moderni “strizzacervelli”) abbia avuto in vista lo sdoganamento dell’omosessualità quale “orientamento sessuale” al pari di quello cosiddetto “etero”.
Una volta fatto accettare un disturbo come normale, attraverso tre momenti distinti ma sovrapponibili (“desensibilizzazione” fino all’assuefazione del pubblico; “bloccaggio”: attribuzione d’ogni difetto e nefandezza a chi, fermo su valori tradizionali, non accetta l’ideologia “gender”; “conversione” e conquista finale delle anime), si giunge – come sottolineano quasi ironicamente gli autori (cap. 3) – ad una situazione rovesciata rispetto alla precedente: per l’“omofobo” dovrebbero così spalancarsi le porte delle galere e, perché no, dei manicomi, qualora venissero riaperti. Per ora basti la “morte civile”, al pari del “razzista” o dell’“antisemita”.
L’interesse per il lettore di “Eurasia” di un libro come questo sta in ciò: che ogni competitore dell’Occidente è passibile dell’accusa di “omofobia”, col che si spiegano le campagne incessanti contro la Russia e Putin, marchiati col bollo dell’infamia da alcune lobby adeguatamente sostenute da chi detiene il controllo della finanza e di un’economia sempre più monopolizzata (tanto per stare in tema di “artificiosità”, si tratta degli stessi ambienti che premono per far adottare a tutto il mondo gli alimenti geneticamente modificati).
Il sospetto – più che fondato – espresso da Perucchietti e Marletta – è tuttavia che gli omosessualisti vengano per così dire usati, esattamente – aggiungiamo noi – come “gli ebrei” da parte degli anglo-sionisti, per giungere ad un punto in cui – mentre saranno liberalizzate (in attesa che cambi la morale diffusa) altre perversioni come la pedofilia o la zoofilia – l’essere umano vorrà trascendere se stesso in una parodia dell’autentica ascesi che va sotto il nome di “transumanesimo” (cap. 6).
Per questo gli autori mettono in guardia da un “illuministico” e “positivistico disincanto” da cui nascerebbe tutto ciò, che al contrario avrebbe un’essenziale connotazione “mistica” ed “esoterica”. La liberazione dalla natura e dalle “catene biologiche” non poteva che essere postulata e perseguita da uno “pseudoesoterismo” che per adesso si avvale del contributo di “scienziati” e dispensatori di salute e felicità in camice bianco, i quali insinuano l’idea che – alla luce delle “nuove tecniche di riproduzione” – la riproduzione stessa e l’atto sessuale vadano oramai separati.
Ciò sarebbe senz’altro il trionfo del pansessualismo e di Gaia (da cui, per inciso, “gay”, in quanto “l’amore omosessuale” sarebbe l’unico veramente “libero” e “gioioso”…).
Ecco perché in quest’inquietante congrega di ‘alchimisti’, tra cantanti e attori, scrittori e “intellettuali” (cap. 4), non potevano mancare coloro che – forti dell’usbergo fornitogli dal paravento di “autorevoli istituzioni internazionali” – predicano la “decrescita” ed una drastica riduzione delle nascite.
Può essere quindi definito un caso il fatto che la “crisi” in cui le nazioni occidentali si dibattono da anni, a parte le oggettive difficoltà materiali, va traducendosi in disorientamento (anche sessuale) ed ostacoli d’ogni tipo posti alla formazione di famiglie normali?

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DA BIN LADEN AL “CALIFFO”: LA GUERRA FINALE CONTRO L’ISLAM (PER COLPIRE L’EURASIA)

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La fase finale della guerra dell’Occidente contro l’Islam è finalmente cominciata. Tanto più che quest’ultimo s’è dotato d’un ‘medievale’ e terrificante “Califfato”.

Non bisognava disporre di particolari doti profetiche per prevedere che prima o poi saremmo arrivati a tanto. Basta leggersi una raccolta di articoli pubblicati prima del 2008 che ho intitolato Islamofobia. Attori, tattiche, finalità (Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 2008). Il capitolo finale, che riassumeva i termini della questione (Islam come “problema” e strategie geopolitiche atlantiche: un rapporto necessario, rivisto ed aggiornato per i corsi del Master Mattei dell’Università di Teramo col titolo Il “Grande Medio Oriente” e il momento anti-islamico dello “scontro di civiltà”), regge ancora bene alla sfida del tempo, perché, come recita appunto il titolo, la “paura dell’Islam” è da mettere in stretta relazione con le strategie geopolitiche atlantiche nel Mediterraneo e in Eurasia.

Da quando è stato proclamato un improbabile califfato a cavallo della Siria orientale e dell’Iraq centro-settentrionale (1), l’Islam è tornato prepotentemente nelle case degli occidentali, sottoposti a dosi da cavallo di messaggi sensazionalistici ed allarmistici capaci di provocare sconcerto e preoccupazione persino tra gli stessi musulmani.
Ma prima di giungere a tanto, serviva la cosiddetta “Primavera Araba”, il cui obiettivo principale è stato l’eliminazione dei “regimi arabi moderati” che almeno ufficialmente l’Occidente sosteneva da anni contro gli “estremisti” (e che erano in buoni rapporti – forse troppo buoni per i nostri “alleati” – con l’Italia della Prima ma anche della Seconda Repubblica).

Tutto però è cominciato con quello che definivo nel suddetto libro il “Big bang del XXI secolo”, ovvero l’azione “terroristica” in territorio americano attribuita alla fantomatica al-Qâ‘ida.
Ricordiamo bene come nei giorni che seguirono l’11 settembre 2001 uno degli argomenti principali della propaganda occidentale tesa a diffondere disprezzo e diffidenza verso l’Islam fosse la richiesta, fatta praticamente a ciascun musulmano, di dissociarsi dal “terrorismo”, secondo un assurdo postulato in base al quale “non tutti i musulmani sono terroristi, ma tutti i terroristi sono musulmani”, ripetuto incessantemente dalla “fabbrica del consenso”.
C’era tuttavia una via d’uscita dalla gogna mediatica: l’adesione al cosiddetto “Islam moderato”, che in pratica consisteva (e consiste) in un’adesione formale alla religione islamica accettando però tutti i capisaldi antitradizionali del “pensiero moderno” (oltre all’adozione di una posizione “equidistante” nel cosiddetto “conflitto israelo-palestinese”…).

A garantirci dall’orda famelica dell’Islam guerrigliero e spietato sussistevano comunque i “regimi arabi moderati”. I quali, dal 2011, dopo il celebre discorso di Obama al Cairo (giugno 2009) nel quale, astutamente, “tendeva la mano all’Islam”, sono stati rovesciati con le note tecniche di sovversione dall’interno denominate “Primavera araba”, altrove note come “rivoluzioni colorate”. Quando non bastava l’azione di prezzolati del posto, perlopiù tratti dai ranghi del cosiddetto “Islam politico” preceduti da sinceri ma sprovveduti “liberali” (oltre alla solita teppaglia che si trova sempre), l’Occidente interveniva col classico apparato di cannoniere e bombardieri (v. il caso libico).

Ricapitolando, ad una prima fase islamofobica dominata dalla figura di Osama bin Laden, del suo vice al-Zawahiri e degli altri luogotenenti (tipo al-Zarqawi), con tutto il corredo di “attentati terroristici” (Londra, Madrid ecc.) e teste mozzate cui facevano da contraltare le sparate da cowboy di Bush, le tute arancioni di Guantanamo e le “torture” di Abu Ghraib, ha fatto seguito la “fase della speranza”, col pubblico occidentale illuso sulle magnifiche sorti e progressive alle quali avrebbero aspirato le masse arabe e islamiche desideranti la “democrazia”. Una “democrazia islamica” sotto l’insegna dei Fratelli Musulmani e delle varie sigle ad essi riconducibili che qua e là hanno preso il potere.

L’apice di questa seconda fase nella quale anche i peggiori tagliagole diventavano araldi della libertà ha coinciso con la prima parte della cosiddetta “rivolta siriana”, che pur inscrivendosi nella “Primavera araba” ha posto in inevitabile risalto – data la posizione strategica della Siria – la portata strategica di un’operazione mirata al rovesciamento del regime di Damasco. Il quale, è bene ricordarlo, poco tempo prima era ancora considerato da alcuni partner occidentali, pur con qualche riserva (penso all’Italia), come un garante della “stabilità” nel Mediterraneo ed oltre.

Ad un certo punto, però, col rovesciamento del presidente egiziano tratto dai ranghi della Fratellanza musulmana, Muhammad Morsi (operato forse col sostegno russo?) (2), qualcosa nel dispositivo sovversivo innescato dagli occidentali s’è inceppato. La “rivolta siriana” è entrata in crisi, così come s’è incrinato il meccanismo sin lì tetragono della propaganda unilaterale occidentalista, anche se, a dire il vero, le voci discordanti rispetto al mainstream vertevano soprattutto sul “massacro dei cristiani” da parte dei fanatici islamici delle formazioni “jihadiste”; il che prefigurava la piega da “Nuova crociata” che finalmente s’è manifestata con l’emergere di quest’inedito “Califfato”.

Ma ormai la classica frittata era stata fatta. Con la Libia consegnata alle bande fondamentaliste ed enormi bacini petroliferi di Siria ed Iraq in mano ai seguaci del “califfo” (3), il volto più terrificante dell’Islam può finalmente entrare nelle case degli italiani e degli altri sudditi dell’Occidente.
Ed è questa la fase numero tre del progetto che punta a destabilizzare definitivamente tutto il Mediterraneo ed il Vicino Oriente, con la non troppo remota possibilità di vedersi coinvolti militarmente in una guerra non nostra che non abbiamo affatto cercato, per il semplice fatto che all’Italia il Mediterraneo ed il Vicino Oriente prima del 1991 (operazione Desert Storm) andavano bene così com’erano, fatto salvo Israele, che difatti non ha mai visto di buon occhio quegli statisti poi eliminati – giusto a partire dall’anno dopo… – con l’operazione mediatico-giudiziaria “Mani pulite”.
Da un punto di vista propagandistico, il terrore islamofobico che questa nuova fase è in grado di suscitare negli animi di persone ingenue, manipolate e conquistate ai “valori occidentali” è senz’altro più elevato di quello della prima fase con Bin Laden e soci a ‘bucare lo schermo’.
In fondo lo “Sceicco del terrore” e la sua organizzazione avevano attaccato solo l’America. Sì, dovevamo essere solidalmente “tutti americani”, ma ancora non ci sentivamo completamente imbarcati nell’impresa, ed infatti stavamo come sempre coi piedi in due staffe (vedasi la posizione dell’asse franco-tedesco nel 2003, quando l’Angloamerica invase l’Iraq). E chi l’ha detto che la “strage di Nassiriyya” sia dovuta ai “guerriglieri islamici” e non a qualche nostro indicibile “alleato”?
Ora non ci sono più scuse per sottrarsi e fare i “furbi”. Ce lo fanno capire con sempre maggiore insistenza. Non sorprende affatto, pertanto, che dalla bocca di ministri dell’attuale Governo italiano escano dichiarazioni possibiliste al riguardo di un nostro maggiore e più ‘fattivo’ coinvolgimento nelle operazioni in Iraq volte a debellare un pericolo che all’unisono viene definito non solo regionale, bensì “per il mondo intero”…
Il temibile “Califfato”, coi suoi alleati posizionati sulla costa libica, novelli saraceni, sta lì a minacciarci col suo “Medio Evo”; pertanto, se si vuol salvare la “modernità” con tutti i suoi “valori”, non è più possibile sottrarsi al richiamo alle armi dell’Occidente a guida anglo-sionista.
Frotte di “migranti” tra i quali potrebbero nascondersi dei “terroristi” vengono rovesciate sulle nostre indifese coste, mentre tra i figli della cosiddetta “seconda generazione” spopola il richiamo alla “guerra santa”. Da qualche parte, nel Levante, c’è un “Califfo” che vagheggia di conquistare Roma, mentre “i cristiani” e le minoranze subiscono massacri, e poco importa ai fini propagandistici se musulmani di vedute diverse da quelle dell’Isis sono sottoposti a medesimo trattamento. Questo è quanto trasuda da giornali e tg, che in due minuti frullano tutto in un cocktail terrificante al termine del quale il malcapitato ed impreparato spettatore non potrà che augurarsi una selva di bombe atomiche sull’intero Medioriente.
Infine, entrati nella terza fase, quella della “guerra totale” all’Islam, la concomitante “crisi ucraina” chiarisce anche ai cerebrolesi il nesso tra l’11 settembre, l’islamofobia e l’attacco all’Eurasia. Mentre la propaganda occidentale – senza nemmeno più l’impiccio d’un Berlusconi suo “amico” – dipinge Putin alla stregua d’un pazzo sanguinario ed irresponsabile, dobbiamo dunque temere che le stupide ed ingiustificabili “sanzioni” contro Mosca faranno il paio con un intervento armato della solita improbabile “Italietta” nel Levante islamico?

NOTE
1. Sulla teoria del Califfato ho scritto, su “Eurasia” 4/2007, pp. 35-44, Considerazioni sull’istituto del Califfato e la “Giustizia” nell’Islam.
2. M. Bassiouni, Sisi’s visti to Russia is message to the West, “Al Monitor. The pulse of the Middle East”, 13 agosto 2014 (http://www.al-monitor.com/pulse/tr/politics/2014/08/russia-egypt-relations.html).
3. Maurizio Blondet si chiede logicamente, riprendendo l’ex primo ministro iracheno al-Ja‘fari, come una compagine unanimemente bollata col marchio del “terrorismo” possa vendere il petrolio che inopinatamente controlla, ricavandone tre milioni di dollari al giorno. Cfr. Il Califfo: un altro pretesto per “vendere” l’attacco contro la Siria, “Effedieffe.com”, 26 agosto 2014 (l’articolo è per soli abbonati: http://www.effedieffe.com/index.php?option=com_content&task=view&id=305228&Itemid=135).

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“… BERRANNO LE ACQUE DEL TIGRI E DELL’EUFRATE…”

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Alessandro imprigiona Gog e Magog

(…) tra due monti grande era, di rosso
bronzo, una porta (…)
(…) Il figlio dell’Ammone
la incardinò, per chiudere gli immondi
popoli (…)
(G. Pascoli, Gog e Magog)

Nel suo resoconto della conquista romana della Commagene al tempo di Vespasiano, Giuseppe Flavio rievoca il saccheggio della Media e dell’Armenia ad opera degli Alani, popolo nomade di stirpe iranica che abitava le steppe a nord-est del Mar d’Azov, tra il Don e il Mar Nero. “Il popolo degli Alani – scrive lo storico ebreo – dei quali abbiamo dichiarato in precedenza che sono Sciti che vivono presso il Tanai e la palude Meotide, avendo in quei tempi progettato di invadere la Media e le regioni situate oltre di essa per saccheggiarle, intavola trattative col re degli Ircani; costui infatti è padrone dell’accesso che il re Alessandro sbarrò con porte di ferro (pýlai sideraí)” (1). Il luogo d’accesso alla Media, controllato dal re degl’Ircani che da poco si era sottratto al dominio partico, era costituito dal valico delle Porte Caspie (Kaspiádes Pýlai), l’odierno passo di Firuzkuh alle pendici orientali dell’Alborz.
La menzione delle “porte di ferro” costruite da Alessandro Magno ci rimanda a un celebre episodio che ha come protagonista il sovrano macedone: l’imprigionamento delle orde di Gog e Magog all’interno di un’altissima muraglia. La storia, alla quale Giuseppe Flavio fa cenno, è narrata in maniera sintetica ma completa nei versetti 84-101 della coranica Sura della Caverna, dove si parla di un conquistatore divinamente ispirato, indicato come Dhû’l-qarnayn (“Possessore delle due corna”) e identificato generalmente con Alessandro Magno. Nel brano coranico si legge che Dhû’l-qarnayn, dopo aver portato a termine una campagna militare in Occidente e dopo avervi instaurato un governo fondato sulla giustizia e sul rispetto della Legge divina, si rivolse verso l’Oriente. Imbattutosi in un popolo semiselvaggio ma tranquillo, il Bicorne non cercò di cambiarne il tipo di vita, ma lo lasciò vivere secondo i suoi costumi. Infine giunse in un luogo situato tra due montagne, i cui abitanti gli fecero questo discorso: “O Dhû’l-qarnayn, in verità Ya’ğûğ e Ma’ğûğ diffondono la corruzione in questa terra (mufsidûna fî’l-ard); dobbiamo versarti un tributo, perché tu metta una barriera tra noi e loro?” (2) Il Bicorne accolse la loro richiesta, dicendo: “Il potere che il mio Signore mi ha conferito è meglio del vostro tributo; ma voi aiutatemi con la forza delle vostre braccia e io metterò tra voi e loro una muraglia. Portatemi dei blocchi di ferro” (3). Quando fu colmato lo spazio tra i versanti delle due montagne, il Bicorne ordinò agli operai di soffiare coi loro mantici, finché la massa divenne incandescente; quindi fece portare del rame liquefatto e ve lo fece versare sopra, sicché gli assalti di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ vennero frustrati. Disse infine il Bicorne: “Questa è misericordia del mio Signore; ma quando verrà il Giorno promesso dal mio Signore, Egli ridurrà in polvere la muraglia. E la promessa del mio Signore è verità” (4). Oltre a ciò, due versetti della Sura dei Profeti evocano lo scatenamento delle orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ alla fine dei tempi: “E c’è un’interdizione (harâm) su ogni popolazione che abbiamo distrutta: non ritorneranno fin quando non sarà data via libera a Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, i quali si precipiteranno giù da ogni altura” (5).
Il Profeta Muhammad, avuta la visione di un’apertura che si era prodotta nella barriera di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, ammonì: “Guai (wayl) agli Arabi! Facciano attenzione a un gran male che si sta avvicinando”; alla domanda che gli venne fatta (“Periremo anche se tra noi vi sono dei santi?”) rispose: “Sì, se la turpitudine si fa troppo grande”. In ogni caso, alla fine dei tempi il rapporto fra i seguaci del Profeta e le orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ sarà di 1 a 999: “sarete tra la gente come un pelo nero sul fianco di un toro bianco”, dice un hadîth.  Secondo un altro hadîth, alla fine dei tempi Dio aprirà la muraglia che rinchiude le orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, le quali usciranno a portare la devastazione in ogni luogo. “I primi di queste orde – prosegue il hadîth – berranno le acque del lago di Tiberiade e lo prosciugheranno; poi berranno le acque del Tigri e dell’Eufrate. Distruggeranno e mangeranno ogni cosa sulla faccia della terra. Allah, benedetto sia l’Altissimo, annienterà poi queste orde malefiche e le spazzerà via dalla faccia della terra” (6).
Sostanzialmente fedele ai termini coranici è l’esposizione della tradizione persiana del Sadd-e Sekander (“Barriera di Alessandro”) che troviamo nell’Eskandar-nâmè di Nezâmî di Gangè (1141-1204).
Ya’ğûğ e Ma’ğûğ corrispondono ovviamente ai biblici Gog e Magog. Nella visione di Ezechiele (7), Gog è il re di una non meglio precisata regione settentrionale, “la terra di Magog”, che reca il nome di uno dei sette figli di Jafet (8); nell’Apocalisse di Giovanni, Gog e Magog rappresentano le nazioni che, dopo aver dato l’assalto al campo dei santi e alla città prediletta, vengono distrutte dal fuoco celeste (9).
Ma l’analogia esistente fra il binomio biblico di Gog e Magog e quello coranico di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ si estende anche all’ambito indiano: nel Kalki-Purâna si racconta infatti come l’ultimo avatâra di Vishnu riesca ad uccidere due démoni di nome Koka e Vikoka (10).
Dalla presenza del tema in esame in testi tradizionali diversi consegue che “una caratteristica del complesso di Gog e Magog è quella di essersi diffuso in tutte le aree culturali dell’Eurasia” (11). Mentre la storia coranica del Bicorne, contaminata con la versione siriaca dello Pseudocallistene, dà origine a una rigogliosa letteratura che interessa sia il mondo musulmano, dalla Spagna alla Malesia, sia le aree cristiane dell’Egitto e dell’Etiopia (12), in Occidente l’elaborazione della leggenda di Gog e Magog ha il suo testo di maggiore rilievo nelle Rivelazioni dello Pseudometodio (13), che, inizialmente diffuse in greco o in siriaco intorno alla metà del VII secolo d. C., furono poi tradotte in latino.

Un popolo o un’orda di démoni?

Il suo vero nome era, pare, Goggins (…) Alla fine della guerra era uno degli uomini più ricchi degli Stati Uniti, cioè del pianeta.
(G. Papini, Gog)

Nell’età antica e in quella medioevale, sia la cultura giudaica sia quella cristiana identificano le genti di Gog e Magog con diversi popoli barbari provenienti dal nord, perché le sedi dei nemici d’Israele sono ubicate a nord, in particolare nella dorsale che collega l’Europa nordorientale al Caucaso ed al Caspio. Il Dio di Israele dice infatti a Gog, signore del paese di Magog: “Sono con te Gomer e tutti i suoi, la casa di Tergama dell’estremo settentrione e tutti i suoi, popoli numerosi. (…) verrai dalla tua regione dell’estremo settentrione” (14). Tergama, o Togarma, è l’Armenia. Per quanto riguarda Gomer, primogenito di Jafet e quindi fratello di Gog, dovrebbe trattarsi dell’antenato dei Galati, dal momento che Giuseppe Flavio scrive nelle Antichità giudaiche: “Si chiamavano Gomeriti, da Gomer, quelli che ora sono chiamati Galati dai Greci. Magog chiamò Magoghi i suoi, mentre i Greci li chiamano Sciti” (15). Nella Guerra giudaica, come si è visto, il medesimo autore identifica negli Alani (“Sciti che abitano presso il Tanai e la palude Meotide”) il popolo situato olte le Porte Caspie, cioè oltre l’accesso alla Media che era stato sbarrato da Alessandro. E alani saranno i popoli di Gog e Magog anche per un ebreo del XII secolo, Beniamino di Tudela (16).
Non solo sciti e alani: Gog e Magog furono volta a volta unni, ungari, cumani, peceneghi, turchi, tartari, mongoli. Gli Ungari, diventati cristiani, dovettero ricollegare la loro origine all’albero genealogico dell’umanità tracciato dai testi biblici, cosicché accettarono di riconoscersi discendenti di Magog. Nelle prime pagine delle Gesta Hungarorum, redatte dall’anonimo P. Magister all’inizio del XII secolo, leggiamo: “Nella regione orientale vicina alla Scizia c’erano le genti di Gog e Magog, che Alessandro Magno isolò dal mondo rinserrandole (…) Il primo re della Scizia fu Magog, il figlio di Jafet, e dal re Magog quella nazione prese il nome di magyar. Dalla discendenza di questo re germogliò il famosissimo e potentissimo re Attila. (…) Molto tempo dopo, dalla stirpe del medesimo re Magog nacque Ügyek, padre del duce Álmos, dal quale sono discesi i re e i duci dell’Ungheria” (17). Anche l’autore del Chronicum pictum del 1358 ripropone la tesi della discendenza da Magog, ma contamina la storia biblica con la tradizione magiara, inserendo Hunor e Magor, mitici antenati degli Unni e degli Ungari, nella genealogia desunta dalla Genesi biblica (18). La stessa tesi è ribadita dalla Cronaca quattrocentesca di Thuróczi: “Dunque, come afferma la Sacra Scrittura e come dicono i maestri (doctores), gli Ungari sono discesi da Magog figlio di Jafet, il quale – come riferisce il vescovo San Sigilberto nella cronaca antiochense delle nazioni orientali – nell’anno 58 dopo il diluvio entrò nella terra di Eiulath e da sua moglie Enech generò i già menzionati Hunor e Magor, da cui gli Unni e i Magiari hanno tratto la stirpe ed il nome” (19). E ancora nel 1905 il poeta ungherese Endre Ady si dirà “figlio di Gog e di Magog”.
Secondo la Povest’ vremennych let, cronaca russa del XII secolo, alle orde imprigionate da Alessandro deve essere ricondotta l’origine dei popoli turchi. Rievocando le incursioni cumane avvenute nell’anno 6604 (=1096) nei dintorni di Kiev, il cronista, al fine di inquadrare la stirpe degli invasori pagani, riporta questo brano di Metodio di Patara: “Alessandro, imperatore macedone, giunse nei paesi orientali e fino al mare, nel paese detto del Sole, e vide qui uomini impuri della tribù di Jafet, dunque vide le loro oscenità (…) Avendo visto ciò Alessandro il Macedone, temendo che essi si moltiplicassero e profanassero la terra, li respinse nei paesi a settentrione tra le alte montagne, e, per volere di Dio, le grandi montagne si strinsero attorno ad essi, non si unirono le montagne soltanto per 12 braccia, e qui vennero erette porte di bronzo, e vennero unte con il sunklit (20): né il fuoco può bruciarlo né il ferro espugnarlo. Negli ultimi giorni verranno fuori otto tribù dal deserto di Jatreb, e verranno fuori anche questi popoli immondi, che sono tra le montagne boreali per volere divino” (21). Basandosi sull’autorità di Metodio, la Povest’ afferma che delle otto tribù del deserto di Jatreb quattro sono state distrutte al tempo di Gedeone, mentre dalle altre quattro hanno tratto origine i Turcomanni, i Peceneghi, i Turchi, i Cumani. “E Ismaele generò dodici figli, dai quali discesero i Turcomanni, e i Peceneghi, e i Turchi e i Cumani, cioè i Polovcy, che sono venuti dal deserto. E più tardi, queste otto tribù, al limitare del mondo hanno generato uomini impuri murati nella montagna da Alessandro il Macedone” (22). In tal modo la cronaca russa innesta sull’albero iafetico la progenie di Ismaele.
Fra i testi medioevali che identificano le genti di Gog e Magog con i Turchi, particolarmente degna di nota è la Cosmographia attribuita ad Etico Istrico. I Turchi, che secondo una paretimologia proposta da questo testo si chiamano così perché sono un “popolo truculento” (gens truculenta) (23), alla fine dei tempi devasteranno la terra. E Alessandro il Macedone, che in un anno e quattro mesi riuscì a rinchiuderli nelle terre del Nord, al di là delle Porte Caspie, può esser detto “Magno” proprio per aver inventato “tanti strumenti utili a respingere la follia degli uomini selvaggi (agrestium hominum vesaniam), che un giorno verranno certamente liberati, quando giungerà il tempo dell’Anticristo (temporibus antechristi), perché perseguitino i popoli pagani e puniscano i peccatori (in persecutionem gentium vel ultionem peccatorum)” (24).
Nel Milione si legge che la provincia di Tenduc, sulla quale regna Giorgio, un discendente del Prete Gianni, è lo stesso luogo “che noi chiamamo Gorgo e Magogo, ma egli lo chiamano Nug e Mungoli” (25). Marco Polo, che sulla scorta dei viaggiatori musulmani identifica il Muro di Alessandro con la Grande Muraglia cinese, identifica i “Nug” (“Ung” nella versione francese del Milione) con la tribù nestoriana degli Öngüt, e i “Mungoli” coi Tartari.
Mentre ebrei e cristiani hanno creduto di ritrovare le caratteristiche delle bibliche genti di Gog e Magog nei vari popoli che, affluendo dal cuore dell’Eurasia verso occidente, hanno minacciato lo spazio da loro abitato, la cultura islamica è stata meno propensa ad assegnare un preciso contenuto etnico all’archetipo coranico di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ. Infatti il Corano, come si è visto, si astiene completamente dal fornire una qualche indicazione che possa contribuire a identificare le orde in questione con una o con più popolazioni storiche. Nel planisfero disegnato nel 1154 da Al-Idrîsî per il Kitâb Ruğâr (26), le genti di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, localizzate in due porzioni dell’estrema periferia terrestre, sono ben distinte dagli Alani, così come dai Peceneghi e dagli altri popoli turchi. Ibn Khaldûn, che si basa sulla carta geografica di Al-Idrîsî, si limita a fornire dati relativi all’ubicazione delle sedi di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ, ma non si impegna affatto nel compito di precisarne l’appartenenza etnica. “Vi sono nel Nord, – scrive Ibn Khaldûn – nazioni e razze distinte tra loro e chiamate con nomi diversi: Turchi, Slavi, Tughuzghuz, Cazari, Alani, Franchi, Gog e Magog” (27). I paesi di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ occupano la decima sezione della sesta “zona” (iqlîm, dal gr. klíma); nella nona sezione della sesta zona, a separare Ya’ğûğ e Ma’ğûğ dai Kimäk, dagli Adhkish, dai Türgish, dal deserto, dalla Terra fetida e dai Peceneghi, si trova il Muro di Alessandro, a proposito del quale Ibn Khaldûn riferisce il seguente episodio. “Il geografo ‘Ubayd-Allâh b. Khorradazbeh racconta che Al-Wâthiq vide, in sogno, che il Muro era aperto. Spaventato, inviò sul luogo l’interprete Sallâm, che ne riportò una descrizione e delle informazioni. È una lunga storia, che qui non ha nulla a che vedere” (28).
L’apertura vista in sogno da Al-Wâthiq era già stata vista dal Profeta Muhammad (29). Si tratta della fessura “attraverso cui penetreranno, all’approssimarsi della fine del ciclo, le orde devastatrici di Gog e Magog, le quali d’altronde esercitano continui sforzi per introdursi nel nostro mondo” (30).

Signore dell’Oriente e dell’Occidente

Victor utriusque regionis.
(Curzio Rufo, Historiae Alexandri Magni)

Abbiamo già avuto modo di notare (31) come l’Islam, tanto nel Corano e negli ahâdîth quanto nelle tradizioni e nelle letterature dei popoli musulmani, abbia narrato la storia di Alessandro attribuendo un particolare risalto alla valenza simbolica degli elementi che la compongono, per cui anche le orde di Ya’ğûğ e Ma’ğûğ sono state più che altro considerate come il simbolo delle influenze inferiori, caotiche e distruttive che cercano di insinuarsi nel mondo umano.
L’eloquenza del simbolismo di cui è ricca la storia di Alessandro non poteva sfuggire a uno scrittore come Ernst Jünger, il quale ha visto nel fendente vibrato a Gordio “un principio spirituale che è in grado di disporre in modo nuovo e più conciso del tempo e dello spazio” (32), sicché la spada di Alessandro diventa “lo strumento di una decisione libera e risolutiva ma anche di un potere sovrano” (33). Infatti la decisione, come insegna Carl Schmitt, è l’atto con cui un soggetto fornito di sovranità esprime la volontà di vincere il caos instaurando un ordine politico e giuridico in cui possa avere vigore la norma, il nòmos.
Nel caso di Alessandro, alla funzione di decisore è correlata quella di raffrenatore (katéchon), funzione che egli svolge alle Porte Caspie, dove trattiene e raffrena il mistero del disordine, dell’empietà, dell’iniquità (mystérion tês anomìas). È noto che le espressioni greche ho katéchon, tò katéchon, mystérion tês anomìas sono state usate da San Paolo nella seconda epistola ai Tessalonicesi (34) e che diversi esegeti del testo paolino, tra cui Tertulliano, Lattanzio, Giovanni Crisostomo, Girolamo e Giovanni Damasceno (35), hanno individuato nell’Impero romano “colui che trattiene” (ho katéchon) e la forza “che trattiene” (tò katéchon).
Tale ermeneusi può trovare conferma nella “leggenda di Alessandro”, in quanto nell’impero romano e negli imperi che successivamente ne riprendono l’eredità si riflette l’archetipo dell’impero fondato da “colui che trattiene” le orde di Gog e Magog. Il sacro romano imperatore Federico II di Svevia venne paragonato dai musulmani – e non solo da loro – a Iskandar Dhû’l-qarnayn (36); il Conquistatore ottomano, che umanisti e cronisti italiani del Quattrocento erano soliti equiparare a quello macedone, elesse come proprio modello Alessandro, “di cui vita e gesta gli erano probabilmente familiari fin dalla gioventù in base alle leggende islamiche” (37); e Napoleone, che già da Primo Console “accarezzava piuttosto l’idea di Alessandro, che si ripresenta ricorrentemente alle soglie di ogni civilizzazione” (38), nel 1812 fu tentato dall’idea di emulare il Macedone spingendosi alla conquista dell’India.
Ma cos’è che fa di Alessandro la Gestalt imperiale per eccellenza, cui si connettono intimamente i ruoli di decisore e di katéchon?
Come abbiamo già avuto modo di far notare (39), secondo la leggenda Alessandro percorse la terra in tutta la sua estensione orizzontale, da occidente ad oriente, per poi ascendere fino alla sfera del fuoco, percorrendo la direzione verticale complementare ed opposta a quella lungo cui era disceso quando si era calato in fondo al mare. Denis Roman ha dunque potuto osservare: “A questa espansione nel senso della ‘ampiezza’ può aggiungersi una ‘esaltazione’, simboleggiata dall’ascensione del conquistatore (…) La figura di Alessandro può essere così rapportata a una dottrina completa del Sacro Impero, integrante le due dimensioni, individuale e sopraindividuale, del simbolismo della Croce” (40). “Ampiezza” ed “esaltazione”, con cui Denis Roman traduce i vocaboli arabi inbisât e ‘urûj, termini tecnici del lessico esoterico dell’Islam, “corrispondono rispettivamente alle due parti del Viaggio Notturno del Profeta, simbolo per eccellenza del viaggio iniziatico: la prima, chiamata Isrâ’ (trasporto notturno), da Mecca a Gerusalemme, corrisponde alla dimensione orizzontale della croce, mentre la seconda, quella celeste, designata col termine Mi‘râj (mezzo d’ascensione, scala), corrisponde alla dimensione verticale e giunge al Signore della Gloria Onnipotente” (41). Secondo Fadlallâh al-Hindî al-Burhânapûrî (m. 1620), “sia l’esaltazione (‘urûj) sia l’ampiezza (inbisât) hanno raggiunto la loro pienezza nel Profeta, che Allâh lo benedica e gli dia la pace” (42), sicché è il Profeta Muhammad a rappresentare il modello esemplare dell’Uomo Perfetto (al-insân al-kâmil); ma lo stesso Profeta avrebbe detto che, tra tutti gli uomini, il più simile a lui è stato Dhû’l-qarnayn. Infatti il Bicorne realizzò sia la dimensione dell’“ampiezza” sia quella dell’“esaltazione”: se la Sura della Caverna pone in risalto l’ampiezza di un itinerario che si estese da Occidente ad Oriente, un hadîth riferito da ‘Amr ibn al-‘As fornisce il dato relativo all’esaltazione: dopo la fondazione di Alessandria in Egitto, “l’Altissimo inviò a lui (a Dhû’l-qarnayn) un angelo che lo prese e lo innalzò in cielo”, fino a mostrargli tutto il creato compreso tra l’Oriente e l’Occidente.
Le “due corna” evocate dall’epiteto coranico Dhû’l-qarnayn sono infatti – così come le due teste dell’aquila bicipite – il simbolo di “un duplice potere esteso sull’Oriente e sull’Occidente” (43). Due corna d’ariete erano il principale attributo di Ammone, del quale Alessandro si era riconosciuto figlio: “E vide ancora Ammone, con l’aspetto di un vecchio, con la barba d’oro e le corna d’ariete sulla fronte, che gli disse: Febo ti parla, che ha corna d’ariete” (44). E corna taurine erano quelle di Dioniso, che prima del suo emulo Alessandro aveva conquistato l’India e percorso l’Asia: “Le campagne dei Lidi ricche d’oro – ho lasciato e dei Frigi, e dalle plaghe – assolate di Persia e dalle rocche – della Battriana giunto all’invernale – terra dei Medi e all’Arabia Felice, – tutta l’Asia ho percorso” (45).
La figura del Bicorne si colloca dunque sullo sfondo dello spazio eurasiatico, che non costituisce soltanto lo scenario della sua impresa, ma la proiezione spaziale stessa dell’idea di impero.

Il retaggio di Alessandro

“Impero” significa qui il potere storico che riesce a trattenere l’avvento dell’Anticristo.
Carl Schmitt, Il nomos della terra

Sulla fronte della Torre del Trabucco, che si erge sulla destra della facciata del Duomo di Fidenza (già Borgo San Donnino), si trova incastrata una formella consunta, nella quale Benedetto Antelami ha raffigurato l’ascensione di Alessandro alla sfera del fuoco. In San Marco a Venezia, nella cattedrale d’Otranto ed altrove si trovano analoghe rappresentazioni del medesimo episodio, che in età medioevale conobbe un’ampia diffusione dalla Francia all’Etiopia (46).
Alla stessa altezza della formella di Alessandro, sulla base sinistra della volta del protiro, si trova una lastra scolpita a bassorilievo in cima alla quale sta l’iscrizione “Fortis Hercules”; vi è infatti raffigurato Eracle, che con la destra tiene sollevato per la coda un leone. Come la figura di Alessandro che ascende al cielo, così anche quella del suo antenato Eracle richiama la dottrina dell’impero, in quanto pure l’Alcide realizzò le due dimensioni della croce: l’”ampiezza” con la decima fatica (che lo portò dall’estremo occidente alle montagne orientali del Caucaso) e l’”esaltazione” con la dodicesima fatica (discesa al Tartaro) e con la successiva ascensione all’Olimpo.
Con Eracle volle identificarsi, assumendo l’appellativo di Herculeus, Marco Aurelio Valerio Massimiano (240-310), la cui figura compare tre volte sulla facciata della cattedrale fidentina, che è dedicata a San Donnino, cubicularius dello stesso Massimiano. Questo imperatore fu per i cristiani un pagano e un persecutore; e, per quanto in particolare concerne la vicenda del patrono di Fidenza, fu proprio un suo ordine a causarne il martirio. Tuttavia il rilievo “tipico” delle figure scolpite dall’Antelami induce a vedere rappresentata nell’immagine dell’imperatore più una funzione che non un particolare personaggio storico. Nell’icona di Massimiano Erculio bisogna probabilmente scorgere un simbolo dell’autorità imperiale, ossia di un potere la cui legittimità fu riconosciuta anche dai cristiani, come ci viene emblematicamente ricordato dal bassorilievo in cui è lo stesso San Donnino a posare la corona sul capo dell’imperatore.
Sul frontone del portale di sinistra, infine, troviamo un rilievo suddiviso in tre scene, nella prima delle quali troneggia, indicata dalla scritta “Karolus Imperator”, la figura di Carlo Magno, con la corona in capo, lo scettro nella destra e il globo nella sinistra. Carlo Magno è qui celebrato per i privilegi che concesse alla chiesa di Borgo; ma soprattutto egli rappresenta, nel contesto delle immagini, la nuova fase imperiale venuta a succedere alle due precedenti, rispettivamente simboleggiate da Alessandro e da Massimiano.
Il significato che si sprigiona dalla rete dei simboli conferma il fatto che nella coscienza medioevale è “ben salda l’idea della provvidenzialità di Roma, il cui Imperium non è visto come l’istituzione ‘diabolica’ persecutrice del Cristianesimo, ma l’Orbe nel quale il Cristo aveva scelto di nascere ed ove, grazie alla ‘pax’ assicurata dai Cesari, la nuova fede poté porre salde radici e permeare di sé il reggimento civile” (47). Ma la sinfonia delle immagini antelamiche esprime in modo ben chiaro anche un’altra idea: quella della continuità essenziale della funzione imperiale attraverso le varie epoche storiche. Al prototipo rappresentato da Alessandro e dal suo impero eurasiatico succedono l’imperium di Roma e quindi il Sacro Romano Impero, che nel corso dell’età moderna diventerà l’Impero austro-ungarico e come tale protrarrà la sua esistenza fino alla prima guerra mondiale. Sul tronco dell’Impero Romano d’Oriente si innesterà quell’”impero romano turco-musulmano” (48) che con la sua stessa esistenza smentirà quanti avevano identificato i Turchi con Gog e Magog.
Infatti ciascuna di queste manifestazioni storiche dell’idea di impero, indipendentemente dalla propria dimensione territoriale e dall’appartenenza religiosa della dinastia regnante, ha rinnovato l’azione del katéchon archetipico, tenendo a freno le spinte del caos e della dissoluzione. Solo il venir meno della forza “frenante” di cui erano depositari gl’imperi distrutti nella prima guerra mondiale ha consentito che si aprissero delle fessure decisive nella barriera che era stata eretta dal katéchon bicorne, sicché le orde di Gog e Magog, per riprendere le parole del hadîth, hanno bevuto le acque del lago di Tiberiade e poi quelle del Tigri e dell’Eufrate.

 

NOTE

1. Giuseppe Flavio, De bello judaico, VII, 7, 4.
2. Corano, XVIII, 94.
3. Corano, XVIII, 94-95.
4. Corano, XVIII, 97-98.
5. Corano, XXI, 95-96.
6. Al-Bukhârî, Sâhîh, 4741.
6. Il primo hadîth si trova nel Sahîh di Al-Bukhârî, che ne riporta sette varianti (LX, 7, 3346 e 3347; LXI, 25, 3597; LXVIII, 24, 5293; XCII, 4, 7059; XCII, 29, 7135 e 7136); il secondo hadîth è registrato anch’esso da Al-Bukhârî, come LXV, 4741; per il terzo hadîth cfr. Dâr al-Burhâniyyah, Il Mahdi e l’Anticristo, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1988, p. 16.
7. Ezechiele, 38-39.
8. Genesi, 10, 5.
9. Apocalisse, 20, 7-10.
10. Kalki-Purâna, VII, 14-30. cfr. Le Kalki-Purâna, Première traduction du sanskrit en langue occidentale de Murari Bhatt et Jean Rémy suivi d’une étude d’André Préau. Préface de Jean Varenne, Arché, Milano 1982, pp. 116-117 e 206.
11. Giorgio R. Cardona, Indice ragionato, in : Marco Polo, Milione, Adelphi, Milano 1975, p. 640.
12. Dario Carraroli, La leggenda di Alessandro Magno, Tipografia G. Issoglio, Mondovì 1892, rist. anast. Arnaldo Forni Editore, Bologna 1979, pp. 150-208.
13. Die Apokalypse des Ps.-Methodios, hrsg. von A. Lolos, Meisenheim a. Glan 1976; E. Sackur, Sibyllinische Texte und Forschungen. Pseudomethodius, Adso und die Tiburtinische Sibylle, Halle a. S. 1898, rist. anast. J. Trumpf, Stuttgart 1974, pp. 144-148.
14. Ezechiele, XXXVIII, 6 e 15.
15. Antiquitates judaicae, I, 11.
16. „Jewish Quarterly Review“, 17 (1905), pp. 517-525.
17. A magyar középkori irodalma, Szépirodalmi könyvkiadó, Budapest 1984, pp. 10-11.
18. A magyar középkori irodalma, cit., p. 168.
19. Thuróczi János, A magyarok krónikája, Helikon, Budapest 1986, p. 13.
20. Sostanza che preserva dal ferro e dal fuoco.
21. Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, Einaudi, Torino 1971, p. 146. L’episodio è presente anche nella favolistica russa: cfr. Aleksandr N. Afanasev, Antiche fiabe russe, Einaudi, Torino 1974, pp. 78-79.
22. Racconto dei tempi passati. Cronaca russa del secolo XII, cit., p. 132.
23. Alessandro nel Medioevo occidentale, a cura di Mariantonia Liborio, Fondazione Lorenzo Valla – Mondadori Editore, Milano 1997, pp. 322.
24. Alessandro nel Medioevo occidentale, cit., pp. 326-327.
25. Marco Polo, Milione, Adelphi, Milano 1975, p. 106.
26. La carta di al-Idrîsî si trova riprodotta, corredata dalla Clef de la Carte du Monde e la Légende de la carte di F. Rosenthal, in: Ibn Khaldûn, Discours sur l’Histoire universelle, Sindbad, Paris 1978, t. I, pp. 107-110.
27. Ibn Khaldûn, op. cit., t. I, p. 170.
28. Ibn Khaldûn, op. cit., t. I, p. 161.
29. Il Corano, Edizione integrale a cura di Hamza R. Piccardo, Newton & Compton, Roma 2001, p. 261 nota 39.
30. René Guénon, Il Regno della quantità e i segni dei Tempi, Edizioni Studi Tradizionali, Torino 1969, pp. 209-210.
31. Claudio Mutti, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, Effepi, Genova 2005, pp. 73-74.
32. Ernst Jünger – Carl Schmitt, Il nodo di Gordio, Il Mulino, Bologna 1987, p. 32.
33. Ernst Jünger – Carl Schmitt, op. cit., p. 33.
34. 2 Thessalonicenses, 2, 6-7.
35. Massimo Maraviglia, La penultima guerra. Il “katéchon” nella dottrina dell’ordine politico di Carl Schmitt, Edizioni Universitarie di Lettere Economia Diritto, Milano 2006, pp. 179-203.
36. Ernst Kantorowicz, Federico II imperatore, Garzanti, Milano 1976, pp. 190 e 200.
37. Franz Babinger, Maometto il Conquistatore e il suo tempo, Einaudi, Torino 1970, p. 548.
38. Oswald Spengler, Il tramonto dell’Occidente, Longanesi, Milano 1957, p. 255.
39. Claudio Mutti, L’Antelami e il mito dell’Impero, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1986, pp. 25-29; Idem, Imperium. Epifanie dell’idea di Impero, cit., pp. 70-79.
40. Denis Roman, Les Revues, “Études traditionnelles”, gennaio-febbraio 1975, p. 140. Trad. it. Il tabot etiopico, in : Michel Vâlsan, Il cofano di Eraclio, Edizioni all’insegna del Veltro, Parma 1985, p. 55.
41. Michel Vâlsan, Références islamiques du “Symbolisme de la Croix”, “Études traditionnelles”, marzo-aprile e maggio-giugno 1971, p. 53.
42. Le Traité de l’Unité dit d’Ibn ‘Arabî, Paris 1977, p. 53.
43. René Guénon, Simboli della Scienza sacra, Adelphi, Milano 1994, p. 172.
44. [Pseudocallistene,] Il Romanzo di Alessandro, a cura di Monica Centanni, Arsenale, Venezia 1988, pp. 41-43.
45. Euripide, Le Baccanti, trad. di Carlo Diano, in Il teatro greco. Tutte le tragedie, Sansoni, Firenze 1980, p. 1008.
46. Claudio Mutti, L’Antelami e il mito dell’Impero, cit., pp. 12-23.
47. Angelo Terenzoni, L’ideale teocratico dantesco, Alkaest, Genova 1979, p. 44.
48. “The Greek Christian Roman Empire fell to rise again in the shape of a Turkish Muslim Roman Empire” (Arnold Toynbee, A Study of History, 2a ed., London – New York – Toronto 1948, vol. XII, p. 158). Cfr. Claudio Mutti, Roma ottomana, “Eurasia. Rivista di studi geopolitici”, a. I, n. 1, ott.-dic. 2004, pp. 95-108.

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