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SUD SUDAN: UN CONFLITTO POLITICO MASCHERATO DA GUERRA ETNICA

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A quasi tre anni dall’indipendenza, la Repubblica del Sud Sudan è uno Stato ancora da costruire. Il ventennio di guerra civile contro il Sudan ha lasciato in eredità un territorio devastato, privo delle necessarie infrastrutture come acquedotti e servizi sanitari e dove la maggior parte della popolazione non ha accesso all’assistenza medica. Alcune aree di confine sono ancora oggetto di contenzioso con il governo di Khartoum. Il petrolio sarebbe una grande risorsa da sfruttare, ma l’assenza di impianti di raffinazione rende necessario il trasporto del greggio attraverso l’unico oleodotto esistente, quello che passa proprio per il Sudan, che applica tariffe di passaggio elevate. Nuovi violenti particolarismi aggravano il generale stato di crisi socio-economica: le forze del Presidente Salva Kiir e dell’ex vicepresidente Riek Machar sono da mesi in conflitto. Cina e Stati Uniti, le potenze con i maggiori interessi nell’area africana, monitorano la situazione tentando, probabilmente, anche di influenzarne gli esiti.

 

I dissidi all’interno del partito di governo

Un’analisi superficiale potrebbe etichettare il conflitto esploso in Sud Sudan come un regolamento di conti tra i due principali gruppi etnici del Paese: quello dei Dinka e quello dei Nuer. In realtà, le violenze in corso hanno una matrice politica e traggono origine da una lunga lotta per la leadership all’interno del partito di governo, il Movimento per la Liberazione del Popolo del Sudan (SPLM), capeggiato da Salva Kiir Mayardit (di etnia Dinka), che dal 2011 è anche il Presidente del Sud Sudan. Il suo ex braccio destro, Riek Machar Teny (Nuer), è stato vicepresidente dal 2011 al 2013, prima che un rimpasto di governo portasse alla sua rimozione dalla carica. Kiir viene accusato dagli oppositori di aver fatto ricorso a metodi dittatoriali per consolidare il proprio potere. Dal gennaio 2013 il presidente ha infatti provveduto a una drastica riorganizzazione dei vertici politici e militari dello Stato. Dopo aver sostituito il capo della polizia, il Generale Acuil Tito Madut, con il Generale Pieng Deng Kuol, Kiir ha rimosso dall’incarico 6 vice capi dell’esercito e 29 tra i più importanti generali. A febbraio un altro decreto presidenziale mandava in pensione altri 117 generali. Altri colpi di scena erano riservati agli stretti collaboratori di partito. Dopo aver dichiarato di voler competere con Salva Kiir per la leadership del partito in vista delle elezioni nel 2015, il vicepresidente Riek Machar è stato destituito nel luglio 2013. Medesima sorte è toccata al segretario generale dell’SPLM Pagan Amum Okiech per aver offerto il proprio appoggio al vicepresidente. Sospeso dall’incarico, ad Amum è stato fatto divieto di lasciare la capitale Juba e di avere contatti con i media. Emergevano in questo modo due opposte correnti all’interno dell’SPLM: da una parte il gruppo di governo, dall’altra i dissidenti e gli epurati da Kiir.

 

A dicembre esplodono le violenze

L’inizio del conflitto è datato 15 dicembre, quando truppe fedeli a Machar avrebbero tentato l’assalto al quartier generale delle forze armate sudsudanesi. Il giorno seguente, l’intervento dell’esercito presidenziale avrebbe scongiurato il colpo di stato senza però riuscire a riportare la situazione alla normalità. Secondo quel che ha invece riferito invece Peter Adwok Nyaba, ex Ministro dell’Istruzione e della Ricerca anch’egli tra gli epurati di Kiir, i fatti del giorno 15 non sarebbero andati proprio secondo la versione riportata dal governo. Durante una riunione del National Liberation Council (NLC), che avrebbe dovuto portare a una ricomposizione tra opposte fazioni politiche dell’SPLM, Adwok riferisce che Kiir avrebbe dato mandato al Generale Marial Ciennoung di procedere al disarmo della guardia presidenziale, il Battaglione Tigre, composto da elementi Dinka e Nuer. Dopo la consegna delle armi da parte dei soldati, le truppe Dinka avrebbero provveduto a riappropriarsene in segreto. L’intervento di un soldato Nuer che avrebbe assistito alla scena ha portato allo scoppio di una rissa tra i soldati. La situazione è precipitata quando anche le truppe Nuer si sono riarmate e dopo i primi scontri sono riuscite a occupare il quartier generale militare. Mentre l’intervento dell’Esercito di Liberazione del Popolo Sudanese (SPLA) costringeva alla resa i soldati ammutinati, i Dinka del Battaglione Tigre davano inizio a Juba a una vera e propria caccia all’uomo contro i Nuer, costringendo la popolazione civile a barricarsi nelle proprie case o a darsi alla fuga. Qualche giorno Riek Machar ha pubblicamente negato il proprio coinvolgimento nell’assalto, ma intanto la situazione era già compromessa. Dalla capitale il conflitto si è infatti esteso in altre regioni. Si sono diffuse notizie di scontri nelle caserme dello stato del Jonglei (uno dei dieci di cui è composto il Sud Sudan), con esecuzioni etniche sommarie. Milizie fedeli a Machar hanno poi preso il controllo del capoluogo Bor. Mentre le forze lealiste preparavano una controffensiva per riconquistare le posizioni perdute, il conflitto si estendeva a tutto il Nord Est: i ribelli hanno occupato le città di Bentiu e Malakal, negli stati di Unità e Alto Nilo, prendendo possesso delle principali aree petrolifere.
La tregua che avrebbe dovuto portare al cessate il fuoco è stata raggiunta il 23 gennaio ad Addis Abeba, ma si è trattato di un accordo di breve durata. Nel Nord del Paese sono in poco tempo ripresi gli scontri tra le truppe presidenziali e quelle ribelli, dando il via a una spirale di violenze senza via d’uscita.

 

La crisi umanitaria

Il conflitto tra le due fazioni ha portato 800mila persone a lasciare le proprie abitazioni per sfuggire alle violenze. Di questi, secondo fonti dell’UNHCR, 236mila hanno attraversato il confine per lasciare il Paese. A questi numeri vanno aggiunte le persone che a causa della guerra vivono una situazione di pesante disagio e difficoltà: stime delle Nazioni Unite parlano di un rischio di crisi alimentare per 3,7 milione di persone, cioè un terzo della popolazione. Il personale del World Food Programme (WFP) è costretto a paracadutare alimenti per dare assistenza ai villaggi più isolati, a causa dell’interruzione delle vie di comunicazione.

 

Gli interessi strategici

L’esplosione di violenza in Sud Sudan sembra la naturale conseguenza dell’indipendenza, fortemente sponsorizzata dalle potenze occidentali in nome del diritto all’autodeterminazione e alla democrazia. Il sospetto che dietro il proposito umanitario però si nascondessero interessi strategici è forte.

Da quando nel 1989 Omar al-Bashir ha conquistato il potere, il Sudan si è alienato le simpatie degli Stati Uniti e, soprattutto, di Israele, tanto da essere inserito nel 1993 nella lista dei Paesi considerati “sponsor del terrorismo” da Washington. Da quel momento, con il Sudan sono intercorsi rapporti difficili. Nel 1998, in risposta agli attentati nelle ambasciate statunitensi di Dar es Salaam e Nairobi, il Presidente Clinton ordinò come ritorsione un attacco alla fabbrica farmaceutica di Al-Shifa a Khartoum, che la CIA aveva identificato come luogo di produzione di armi chimiche finanziato da Al-Qaeda. Le prove di legami con l’organizzazione terroristica di Osama Bin Laden e del coinvolgimento dello stabilimento nella produzione di armi chimiche (in particolare gas nervino), sono apparse deboli o carenti. In conseguenza dell’attacco, il Sudan ha sofferto una lunga carenza di medicinali che ha messo a rischio la salute di migliaia di persone.
Il petrolio è un altro fattore chiave per comprendere la situazione sudanese e i rapporti che sono intercorsi tra Khartoum e le potenze mondiali, una su tutte la Cina. La presenza cinese in Africa si è fatta sempre più consistente e il Sudan ha rappresentato in tal senso la porta d’ingresso nel continente africano per Pechino. Demonizzato dal mondo occidentale con accuse di genocidio, crimini di guerra e sostegno al terrorismo, al-Bashir ha trovato nel gigante asiatico un partner in grado di assicurare la necessaria stabilità commerciale al suo Paese. Dall’altro lato, la Cina siglando accordi con Khartoum ha potuto accedere a risorse petrolifere per soddisfare la crescente domanda interna di oro nero. La Chinese National Petroleum Corporation (CNPC), compagnia petrolifera statale, è attiva in Sudan dal 1996 e nel corso degli anni oltre a estrarre il greggio si è impegnata a costruire raffinerie, oleodotti e altre infrastrutture di vitale interesse economico.
L’indipendenza del Sud Sudan non ha messo in discussione i piani di Pechino. Il nuovo Stato ha ereditato l’80% circa dei giacimenti petroliferi che erano del Sudan, ma ciò non è bastato ad assicurare un futuro prospero al governo di Juba. Dato che infrastrutture e impianti di raffinazione sono rimaste nelle mani del Nord, il Sud Sudan è rimasto economicamente dipendente da Khartoum, dove passa il Grande Oleodotto del Nilo (gestito dalla CNPC), unica via per l’esportazione del petrolio. In tal modo non è stato difficile per la Cina instaurare relazioni commerciali anche con il nuovo governo. Un anno dopo l’indipendenza, Salva Kiir si è recato in visita ufficiale in Cina per incontrare il Presidente Hu Jintao, tornando con la promessa di investimenti nel proprio Paese per un totale di 8 miliardi di dollari.
Il conflitto attualmente in corso ha invece ora destato più di un timore nel partner asiatico, che teme il ripetersi della situazione libica, dove guerra e tensioni interne hanno causato ingenti perdite agli investitori cinesi. Oltre ad assistere a un calo della produzione di greggio a causa degli scontri, la Cina è stata costretta a far evacuare dalle aree petrolifere gestite dalla CNPC circa 300 dipendenti, la cui sicurezza era messa a rischio dagli scontri. A mettere ancor più in difficoltà la supremazia petrolifera di Pechino ci sarebbe il progetto di un oleodotto che dovrebbe transitare per Uganda e Kenya (Stati amici degli USA) che permetterebbe al greggio sud sudanese di bypassare l’oleodotto della CNPC per accedere alla via del Mar Rosso. La compagnia giapponese Toyota Tsusho sarebbe pronta a investire 5 miliardi di dollari nel progetto che, al momento, è in fase di studio.
Gli applausi della comunità internazionale che salutavano la nascita del 54esimo Stato africano sembrano ora così lontani e ricordano l’ottimismo con il quale si guardava alla caduta dei regimi in Libia, in Iraq o in Afghanistan. Come è noto, a tali eventi non è seguita la pacificazione dei territori ma si è aperta la strada all’esplodere di nuove rivalità interne. Il rischio che il Sud Sudan diventi l’ennesimo Stato fantasma è concreto e occorrerà ben più di qualche accordo economico per assicurarne la stabilità.

 

Fonti
Reuters, S.Sudan: Japan firm completes Kenya pipeline study, consultato il 5 aprile 2014
SouthSudanNation.com, From Dr. Adwok: Sorry Sir, it was not a coup, consultato il 7 aprile 2014
UN News Centre, UN relief officials arrive in South Sudan amid ‘alarming’ spread of hunger, displacement, consultato il 6 aprile 2014
UNHCR, South Sudan Data, consultato il 7 aprile 2014
U.S. Department of State, State sponsors of terrorism, consultato il 6 aprile 2014
WFP, South Sudanese need food and peace, consultato il 7 aprile 2014

Francesco Piscitelli, dottore in Scienze Politiche

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IL MESSICO NELLO SPAZIO GEOSTRATEGICO DEGLI STATI UNITI

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“Il Messico, piuttosto che essere una nazione sottoposta alla globalizzazione, è una nazione sottomessa all’imperialismo”
John Saxe Fernandez

Negli ultimi tre decenni la politica estera messicana è stata duramente criticata. I forti interessi che attualmente confluiscono nei rapporti con gli Stati Uniti hanno provocato un disastro per quanto concerne una vasta gamma di prodotti industriali e gli interessi politici della nazione.

Dopo la Seconda Guerra Mondiale il sistema internazionale si divise in due, conformandosi al bipolarismo. Tuttavia, gli Stati Uniti si consolidarono come potenza egemone vittoriosa, riaffermando il proprio potere militare, politico, economico ed ideologico, soprattutto nell’emisfero occidentale rispetto alla controparte, l’Unione delle Repubbliche Socialiste Sovietiche (URSS): il cosiddetto ordine geopolitico della guerra fredda.

Tra gli anni Quaranta e Cinquanta la politica estera del Messico promosse dottrine e principi antiinterventisti, nazionalizzò settori strategici; lo Stato, che controllava l’economia e la politica industriale, si basò sul noto modello Import Substitution (MSI), il quale mantenne una certa stabilità economica, ma che, nonostante la struttura pianificata e di stampo nazionalista, mostrò contraddizioni e incoerenze evidenti e palesò i suoi limiti alla fine degli anni Sessanta. Inoltre, in quel momento, il Paese stava attraversando una serie di incomprensioni, controversie e polemiche con gli Stati Uniti. Temi che riguardavano principalmente questioni territoriali, risorse, capitali, ma anche controversie sulle posizioni di politica estera. Tuttavia, gli Stati Uniti continuarono ad essere un partner privilegiato ed esclusivo, in quanto la caratteristica dei poteri forti in Messico è sempre stata quella di assicurare un appoggio deciso al capitalismo.

Alla fine degli anni Settanta, le contraddizioni del capitalismo globale emersero nuovamente. Il petrolio per gli Stati Uniti cominciò a divenire un problema importante, la concorrenza internazionale si fece sempre più intensa e, con il consolidamento in blocchi o unioni, la competizione in campo internazionale si determinò nelle aree di dominio e di rispettiva influenza da parte delle due super potenze.

In Messico, la crisi economica ebbe un forte impatto. L’accumulo di ricchezza e di incongruenze nel sistema di produzione e industrializzazione, un uso irresponsabile dell’economia furono i principali fattori che dimostrarono l’impercorribilità del modello stabilito. Nei sei anni a guida Lopez Portillo l’economia versava in condizioni critiche, sia per i problemi interni che per il contesto internazionale. Dagli anni Ottanta, vari indici come la disoccupazione, l’attività economica, il prodotto interno lordo reale, la produzione industriale, le importazioni e l’altissimo debito estero raggiunsero livelli drammatici, colpendo pesantemente la società messicana.

A partire dagli anni Ottanta i nuovi obiettivi della politica estera degli Stati Uniti divennero la propaganda della loro concezione del mondo, la quale era costruita, in una certa misura, per riaffermare le virtù del libero mercato, la cooperazione internazionale, la privatizzazione (l’unica strada per la prosperità e la modernità), era focalizzata sull’espansione del neoliberismo e della globalizzazione, insieme alla ricerca di un’integrazione con il Messico e il Canada per garantirsi, tra le altre cose, la sicurezza energetica ed economica.
Alla fine degli anni Ottanta e nei primi anni Novanta, i grandi cambiamenti globali come la caduta del muro di Berlino, il crollo dell’URSS, i primi segnali di ascesa nell’economia internazionale della Cina, la concorrenza vertiginosa e una debolezza di fondo del potere statunitense, come la dipendenza dalle risorse naturali strategiche, segnarono il passo per un ripensamento geopolitico di Washington in materia di politica estera, nella quale il Messico giocherà un ruolo fondamentale nello schema di un’integrazione connotato dalla subalternità.

In questo contesto si delineò una profonda trasformazione, inadeguata alla situazione della società messicana, alla politica economica, alla politica interna ed estera, soprattutto per quanto concerne i rapporti bilaterali.
Il discorso dominante si concentrò principalmente sull’apertura del Messico all’economia globale, sul miglioramento dei rapporti con gli Stati Uniti e sull’attuazione delle politiche strutturali di regolazione (PAE). Washington vide il Messico come una piattaforma ideologica di interessi strategici e commerciali. Il presidente Miguel de la Madrid sponsorizzò l’ingresso della nazione nel Fondo Monetario Internazionale (FMI) nel 1982, sollecitò l’entrata del Messico nell’Accordo generale sulle tariffe doganali e sul commercio (GATT) nel 1985, cosicché, gli Stati Uniti divennero, riuscendo in tal modo ad accrescere la propria influenza, il principale esportatore di valuta estera ed il più grande acquirente dei prodotti messicani. La politica estera messicana diede un’immagine di pragmatismo, ortodossia e di assoggettamento alle linee guida del sistema bancario internazionale. Tuttavia, l’accettazione delle politiche del FMI portò ad una frattura ideologica nei confronti dell’America Latina.

Il governo e la sua nuova plutocrazia al potere (soprattutto tecnocrati formati nelle università nordamericane, e sostenitori del capitalismo con amicizie ed alleanze all’estero), costretti dal contesto internazionale, e condizionati da gruppi egemonici, concepirono una politica di liberalizzazione del commercio estero, promuovendo attivamente gli investimenti stranieri e lo smantellamento del sistema di protezione, importazione e di industria nazionale

La mossa successiva, che entrambi i governi fecero per entrare nella “modernità”, fu la firma dell’accordo di libero scambio (NAFTA – 1992). Questo accordo sigillò il nuovo rapporto bilaterale, con una forte valenza simbolica e rappresentò il punto di continuità nella politica di integrazione subalterna del Messico nei confronti degli Stati Uniti, i quali determinarono le regole economiche, le questioni fondamentali di politica interna ed gli obiettivi futuri della politica estera messicana. Si ebbe la netta percezione che il Messico stesse abbandonando la sua inclinazione nei confronti dell’area geografica dell’America Latina.

A partire agli anni Novanta Washington cominciò a cambiare sostanzialmente i suoi obiettivi di controllo egemonico a causa della preoccupazione del proprio ruolo nel mondo; l’emergere di nuove potenze sulla scena mondiale, la crisi e le contraddizioni del sistema capitalistico; la scarsità e la dipendenza dalle risorse naturali e strategiche e, dal proprio punto di vista, il pericolo di governi bellicosi, nazionalisti o instabili.

In Messico, con l’avvento al potere del Partito di Azione Nazionale ( PAN) nel primo decennio del secolo, si adottarono in ambito nazionale, alcune priorità dell’agenda internazionale (dettata dall’Occidente ) in merito alle questioni economiche e d’ integrazione in cui si vedeva chiaramente la continuità politica degli anni Ottanta.
L’attacco alle Torri Gemelle negli Stati Uniti dell’undici settembre 2001 fornì la giustificazione della protezione dei propri confini e della necessità di apportare dei cambiamenti nelle strategie di politica estera, in gran parte orientate a cercare e distruggere i nemici responsabili del terrorismo. Contemporaneamente, prese piede l’idea della responsabilità del governo degli Stati Uniti nei confronti delle “nuove minacce del XXI secolo [1]: terrorismo, difesa e promozione dei diritti umani, narcotraffico internazionale, armi di distruzione di massa (ADM), la “Dottrina Bush” con l’idea della guerra preventiva, nonché l’idea di esportare la “libertà” ed i valori occidentali in tutto il mondo.

Durante il periodo del Foxismo vennero ratificati trattati come l’Area di Libero Commercio delle Americhe (ALCA), promossa dagli Stati Uniti, tentativo fallito e criticato in tutta la regione latino-americana; il TLCAN Plus (con una parte significativa per quanto concerne il controllo dell’immigrazione); la Comunità dell’America del Nord (CAN), con il nuovo programma della sicurezza americana, che prese vita dopo gli attacchi “terroristici” negli Stati Uniti, incluse il Messico nel nuovo perimetro di sicurezza del Nord America e sotto il controllo del Comando di Difesa Aerospaziale del Nord America (NORAD); progressivamente nel 2005 si mise in moto un altro meccanismo trilaterale permanente: l’Alleanza per la Sicurezza e la Prosperità dell’America del Nord (ASPAN), il quale contiene un TLC perfezionato.

La guerra dichiarata contro il narcotraffico durante l’amministrazione di Felipe Calderón (2006-2012), l’esplosione prevedibile di numerosi movimenti sociali a causa di una povertà dilagante da decenni e l’illegittimità con cui Calderón arrivò al potere, fece sì che, alle relazioni in materia di politica estera tra i due paesi, si aggiunse la lotta al traffico di droga ed il perseguimento della “stabilità e controllo” della nazione messicana, approfondendo ulteriormente le relazioni bilaterali con il nuovo piano chiamato “Iniziativa Merida” nel 2007, che ufficialmente e dichiaratamente offrì l’aiuto ed il supporto dell'”intelligence statunitense. L’instabilità del Messico spaventò a tal punto Washington che termini come: Stato fallito, narcoterrorismo o narcoguerriglia acquisirono la connotazione di un rischio per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti, i quali dovevano reagire attraverso la “stabilizzazione” del Messico.

Privatizzazioni, aumento delle tasse per le imprese, politiche economiche antisociali, povertà estrema, violazione dei diritti umani e l’attacco indiscutibile delle imprese globali furono argomenti di grande peso nella vita sociale e politica del Messico che si accentuarono con la crisi economica, nonostante un’agenda politica contrassegnata dal tema della sicurezza.
Attualmente, l’interferenza dei sistemi di intelligence come la Drug Enforcement Agency (DEA il suo acronimo in inglese), la Central Intelligence Agency ( CIA) ed il Federal Bureau of Investigation (FBI), nonché i voli aerei senza piloti conosciuti come Droni, grazie alle recenti modifiche del governo di Peña Nieto al Ministero dell’Interno, che li ha inglobati nel Centro di Investigazione e Sicurezza Nazionale ( CISEN), evidenziano l’influenza degli Stati Uniti nel nostro territorio. Non a caso, l’attuale ambasciatore statunitense in Messico, Anthony Wayne, che fu uno dei più alti funzionari statunitensi in Afghanistan, ricopre un ruolo ideale, considerando il peso geo-strategico di quella nazione nell’Asia centrale.

Con tutto ciò, è chiaro che negli ultimi 30 anni si sono riaffermate e sviluppate reti di emergenza, per quanto concerne i piani di controllo ed i meccanismi di intervento conforme agli interessi del vicino settentrionale. Più di 20 anni dopo l’entrata nel TLCAN l’influenza che ha avuto sul Paese è evidente; il neoliberismo e le privatizzazioni hanno snazionalizzato i principali elementi culturali, sociali, economici e politici. Oltretutto, il meccanismo ASPAN non è soggetto ad alcun legislatore, tanto meno “Iniziativa Mérida”, che è stato molto criticato, dato che tra le persone dietro questo ultimo piano si trova John Dimitri Negroponte (direttore della National Intelligence Agency USA 2005-2007) che nel 1991, in qualità di ambasciatore degli Stati Uniti in Messico, in un colloquio riservato, rivelato dalla rivista Proceso, disse: “L’ accordo di libero scambio renderebbe istituzionale l’orientamento nordamericano nelle relazioni internazionali con il Messico”.

Inoltre, una delle istituzioni di ricerca con maggior peso decisionale negli Stati Uniti, il cosiddetto pensatoio Council of Foreign Relations, pubblicò nel 2012 una serie di mappe descrittive che spiegano dove si concentrano le “minacce” (per esempio governi canaglia o minacce legate all’approvvigionamento di risorse strategiche) per gli Stati Uniti, in cui il Messico, in questa speciale classifica, rientra, a causa del traffico di droga, nel “primo livello” [2] insieme, tra gli altri, a Corea del Nord , Iran e Pakistan, La ragione per cui il governo degli Stati Uniti ha firmato i suddetti trattati è dovuta alla complessità del narcotraffico che potrebbe toccare i più alti livelli politici, e con essi accordarsi,

Mappa del sito Estratte : http://www.cfr.org/conflict-prevention/preventive-priorities-survey-2012/p26686

Queste vaste strategie (ideologiche, politiche, economiche e militari) mostrano che nello studio del rapporto tra il Messico e gli Stati Uniti esiste una pianificazione affinché il Messico entri a far parte dello spazio geostrategico del governo degli Stati Uniti, il quale cerca di espandere la sua egemonia, l’attuale sistema economico e mantenere il modello di dominio, sia nell’emisfero occidentale che in altre regioni strategiche. La politica estera messicana è stata il canale principale degli interessi degli Stati Uniti, insieme al controllo e alla gestione delle componenti politiche interne, che a loro volta si allontanano dagli obiettivi prioritari per la propria nazione.
In gran parte, direttamente o indirettamente, sono i movimenti di emancipazione e di lotta sociale che cercano il cambiamento ed il riorientamento del Paese nei confronti delle pratiche egemoniche e imperialiste e, a sua volta, fa sì che l’esercito messicano, guidato da forze militari ed intellettuali statunitensi, scenda in piazza mettendo la resistenze nel mirino del complesso sistema di sicurezza binazionale.

In particolare, la caratteristica accondiscendente e neoliberista nelle relazioni tra il Messico e gli Stati Uniti – il grande problema della sicurezza nazionale- mina e minaccia la sovranità e la nazione su temi come la perdita di autodeterminazione politica, nonché gli indici economici fino al problema della disgregazione sociale.
Le relazioni del Messico con altri Stati sono diventate sempre più precarie a causa dell’evidente sottomissione nei confronti del proprio vicino settentrionale, provocando in tal modo l’isolamento del Messico in molte parti dell’America Latina.
Per tutto ciò, è fondamentale pensare di riprovare a ricostruire e difendere la sovranità nazionale, in quanto si tratta di un tema e di un concetto che detta in gran parte le regole del gioco, motivo per cui il Messico è stato considerato per tre decenni come un Paese di “serie B”, in cui si è perpetrata tacitamente la Dottrina Monroe [3].

NOTE
[1] I diritti umani in una concezione occidentale senza rispettare le cosmovisioni di altri popoli .
[2] http://www.cfr.org/conflict-prevention/preventive-priorities-survey-2012/p26686
[3] “l’America agli americani” la dottrina che James Monre propugnò affinché l’emisfero occidentale, venisse utilizzato a favore degli interessi degli Stati Uniti.

Articolo originale: http://regeneracion.mx/opinion/mexico-ante-el-espacio-geoestrategico-de-los-estados-unidos/

*Gonzalo Ballesteros, Segretario per i Messicani all’Estero e la Politica Internazionale
[Traduzione a cura di Cristiano Procentese]

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L’ACCORDO DI LIBERO SCAMBIO USA-UE: POLITICA – E GEOPOLITICA – DEL “FREE TRADE”.

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1) Cos’è il TTIP

Transatlantic Trade and Investment Partnership”. Non una semplice aggiunta alle costellazione di sigle che riassumono i nomi di organismi e trattati internazionali ma quella dell’accordo per l’istituzione di un’area di libero scambio tra USA ed UE in discussione dal 2013 ed al centro del recente viaggio europeo di Obama. Quali potrebbero essere gli effetti politici e strategici della creazione di questa superarea economica – la cui vicenda si è intrecciata sul tema delle relazioni euro-russe alla luce degli eventi ucraini? “Il partenariato trans-atlantico per il commercio e gli investimenti (TTIP) è un accordo commerciale che è attualmente in corso di negoziato tra l’unione Europea e gli Stati Uniti. Ha l’obiettivo di rimuovere le barriere commerciali in una vasta gamma di settori economici per facilitare l’acquisto e la vendita di beni e servizi tra Europa e Stati Uniti. Oltre a ridurre le tariffe in tutti i settori, l’Unione Europea e gli Stati Uniti vogliono affrontare il problema delle barriere doganali – come le differenze nei regolamenti tecnici, le norme e le procedure di omologazione.”(1) Questa è la definizione del TTIP fornita dal sito della Commissione Europea (http://ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/ttip/about-ttip/index_it.htm).

 

2) Presupposti per un’analisi economica

Gli studi sugli effetti economici del libero commercio mostrano come questo avvantaggi le imprese più internazionalizzate e competitive mentre favorisce l’espulsione dal mercato delle imprese meno efficienti. Gli effetti sull’occupazione dell’internazionalizzazione dei mercati sono noti: le imprese delocalizzano e multilocalizzano attività e sedi a seconda dei vantaggi produttivi, logistici, fiscali, di presidio del mercato e di valore aggiunto che i differenti contesti possono offrire. Sono scelte strategiche a spiegare le decisioni di investimento, superando ed integrando la teoria classica del vantaggio comparato che partiva dalla redditività relativa dei fattori della produzione. Il dibattito sul libero commercio (inteso come semplificazione, armonizzazione e tendenziale abolizione di dazi e burocrazie ostacolo al traffico di capitali e merci) viene spesso affrontato in analisi economiche che non tengono conto delle implicazioni dal lato politico. Gli accordi di libero scambio sono scelte politiche tanto quanto quelle protezionistiche: il libero mercato è una creazione della politica tramite leggi ed istituzioni come spiegava Polanyi, delle culture come sosteneva Weber, dei contesti storici come affermava Braudel e degli interessi delle classi dominati come sottolineava Marx.

 

3) Presupposti ad un’analisi politica

Se analizzata dal lato delle ripercussioni sull’Europa, il piano politico della questione è già a monte di quello economico ed è di metodo prima che di merito: la rappresentanza e la legittimità democratica. Uno dei punti chiave del TTIP è l’istituzione di un Arbitro tramite la “clausola ISDS” ( Investor-to-state dispute settlement mechanism ), Arbitro cui gli operatori economici privati possano rivolgersi per far valere – in potenza anche contro istituti democraticamente eletti – le proprie ragioni particolari. L’arbitro non dovrebbe poter bloccare le leggi delle singole nazioni quando sfavorevoli alle imprese ma imporrebbe in ogni caso il pagamento di indennizzi – come per esempio nel caso di nazionalizzazioni. Il trasferimento di forme di potere da istituzioni democratiche ad istituzioni tecnocratiche che non devono rispondere ai cittadini del loro operato è proprio una delle cause della crisi di un’Unione Europea percepita come sempre più distante dal corpo democratico della società. Anche da qui la frustrazione dei cittadini che si rivolgono in gran parte a movimenti populisti i quali propongono per l’appunto il ripristino di una diretta “sovranità popolare”. E’ il rischio che si corre con questa clausola del trattato?(2)

 

4) Geopolitica: semplice ricaduta?

La politica economica viene condivisa dagli Stati con la cogenza di accordi multilaterali come quelli per l’ingresso nel WTO o nelle istituzioni europee. Laddove gli Stati – e le loro imprese – membri di tali accordi godano di sufficiente forza rispetto alle altre parti contraenti possono far valere la propria strategia politica tramite la forza delle dimensioni in una sorta di strano liberismo che conduce in realtà al mercantilismo: meno regola significa più regola del più forte. E’ l’uso che la Russia vorrebbe fare dell’erigenda Unione Eurasiatica? E’ il rischio che corre l’Europa con l’istituzione di questa – pur meno assertiva – “NATO Commerciale”? Non si tratta di un accordo bilaterale tra Stati, ma di un accordo negoziato tra uno stato forte – gli USA – e le istituzioni europee, deboli perché debole è la loro legittimazione democratica ed il consenso di cui godono e forti solo della debolezza politico-economica dei membri UE – esclusa la Germania.

 

5) Una “NATO economica”: sicurezza dell’egemonia sull’Atlantico per volgersi al Pacifico

Alla geopolitica americana del XXI secolo serve un’Europa abbastanza forte da poter contribuire alla NATO in modo sostanziale e non totalmente dipendente da un costoso ombrello USA – da volgere piuttosto agli alleati dell’area pacifica – ma abbastanza debole da non operare una politica autonoma. E’ in tale chiave che vanno letti i recenti sviluppi della crisi Ucraina. Gli USA hanno investito sulla frattura UE – Russia intervenendo a livello di intelligence e appoggio politico in quella che la Russia considera la propria area di sicurezza strategica – cosa che l’UE non era determinata a fare, almeno non in chiave ostilmente antirussa – proponendosi poi come fornitori di supporto diplomatico all’Ucraina e come sostituti fornitori di gas all’Europa proprio nel contesto dell’accordo TTIP. Ad un’UE autonoma servirebbe una Russia fornitrice di investimenti e materie prime così come alla Russia servirebbe un’Europa come mercato di sbocco energetico e fornitrice di tecnologia: un’UE che sceglie di dialogare solo con gli USA può rimanerne l’eterno fratello minore. Molte conseguenze economiche dirette del TTIP – negative e positive – appartengono dunque al campo delle pur fondatissime ipotesi. Alla certezza appartiene il fatto che le implicazioni di un accordo economico sono anche di tipo politico e strategico. La strategia geopolitica degli USA mira da un lato a saldarsi definitivamente all’Europa – approfittando di un momento di oggettiva debolezza del Vecchio Continente, ad alleggerire l’impegno strategico nel Medio Oriente e a concentrarsi sul Pacifico, nel quale è in cantiere un’altra area di libero scambio con le principali potenze economiche filo-americane ( o se non proprio anti-cinesi per lo meno “sino-scettiche” ) dell’area, dall’Australia al Messico passando per Vietnam, Canada ed ovviamente Giappone. A tale articolata strategia non mancano gli ostacoli: in Europa, una Germania interessata a collaborare con la Russia – e che non manca di porsi in aperto contrasto con gli USA come ai tempi dello scandalo NSA. A causa della rigida assertività tedesca verso gli altri paesi dell’UE non si capisce come questi possano non vedere – a torto o a ragione – nel gioco di sponda con gli USA una valvola di sfogo dallo strapotere di Angela Merkel. In Medio Oriente l’ostacolo sono Arabia Saudita e Israele che vedono come il fumo negli occhi le aperture all’Iran di cui gli USA hanno bisogno per stabilizzare l’area – qui il gioco tra l’altro si complica: la stessa Russia non vuole il gas iraniano in Europa ma sostiene il governo siriano unitamente all’Iran. Eppure l’edificanda indipendenza energetica americana potrebbe permettere un seppur contenuto ridimensionamento strategico USA nell’area. E’ di questi giorni la conferma che la Turchia avrebbe voluto provocare l’intervento Americano in Siria attribuendo ad Assad l’uso di armi chimiche compiuto dai ribelli qaedisti – cui le avrebbe fornite lei stessa! – alcuni mesi fa: segno che le potenze sunnite spingono per un maggior coinvolgimento USA e non per un loro allontanamento. La Russia è e resta un ostacolo da chiudere oltre una nuova Cortina di Ferro. L’appoggio alla ribellione siriana e a quella Ucraina – fenomeni emersi nella loro chiarezza come strategie occidentali che si sono nutriti dell’ingenuità degli idealisti e di molti giovani locali presto sostituiti da fantocci, estremisti nazionalisti sui generis e jihadisti – confermano questa analisi.

 

6) Conclusioni: a chi giova?

Senza la presunzione di dare risposte definitive e certe in uno scenario così drammaticamente dinamico vale appunto la pena di porre degli interrogativi. Giova agli USA continuare a provocare la Russia, cercare di aggredirne lo spazio geopolitico? Relegarla in Asia riducendola a dialogare solo con Cina, India – Iran e Corea del Nord? Per la Russia l’Asia Centrale, il Caucaso e l’Ucraina sono fascia di sicurezza. Avere la forza militare NATO ad una distanza relativamente contenuta dal Caucaso e da altri centri nevralgici come le due capitali storiche contraddice l’idea russa di difesa in profondità che si fonda sui vasti spazi. Avere il Jihad nel Caucaso, in Kazakistan e geograficamente presente tra i propri cittadini musulmani per la Russia, Nazione-Eurasia per eccellenza, risulterebbe esiziale. Giova alla Russia ed al progetto di Unione Eurasiatica questa massiccia assertività? Giova all’Occidente lo “schema afghano”, cioè l’uso dei jihadisti come grimaldello militare? Molti – urge dirlo: non tutti – vecchi regimi arabi erano orami privi di credibilità verso le proprie stesse popolazioni: il processo di regime change è stato guidato con saggezza? Giova all’Europa un futuro atlantista senza se e senza ma, senza autonomia diplomatica – anzi, con una diplomazia europea caratterizzata da un’imbarazzante debolezza – senza una politica comune ed efficiente di difesa?

 

Note:

(1) Questa è la definizione del TTIP fornita dal sito della Commissione Europea (http://ec.europa.eu/trade/policy/in-focus/ttip/about-ttip/index_it.htm).
(2) Le informazioni relative al TTIP – incluso un questionario in cui i cittadini possono esprimere un loro parere – sono disponibili al link http://europa.eu/rapid/press-release_MEMO-14-206_it.htm.

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STORIA DEI RAPPORTI AFRICA-UE: DALLE CONVENZIONI DI LAOMÉ AL VERTICE DI BRUXELLES

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Il vertice tra l’ Unione europea e i partner africani, che si è tenuto il 2 e 3 aprile scorsi a Bruxelles, ha rappresentato un passo importante nell’azione esterna dell’Unione Europea. Per comprendere la situazione attuale dei rapporti UE-Africa è però necessario sottolineare le differenze tra le politiche di cooperazione dell’Unione Europea nel tempo e l’evoluzione delle relazioni che la legano ai paesi africani. Analizzando le radici storiche di questa relazione è importante ricordare che molti paesi africani hanno con l’Unione Europea (ai tempi Comunità Europea) un rapporto privilegiato sin dal 1975, anno della prima Convenzione di Lomé. Le convenzioni di Lomé si sono poi susseguite nel tempo ed hanno portato al libero accesso al mercato europeo della quasi totalità dei beni prodotti dei paesi ACP (Africa, Caribbean, and Pacific Group of States).

Uno spartiacque determinante nell’evoluzione delle relazioni UE-Africa è stato l’accordo di Cotonou del 2000, che ha avuto il compito di innovare le precedenti convenzioni di Lomé e che ha posto le basi per le relazioni attuali tra l’UE e i 79 paesi parte dell’accordo. La convenzione ha l’obiettivo di integrare in maniera maggiore i paesi ACP nell’economia globale, non limitandosi più come in passato a prendere in considerazione aspetti prettamente economici ma garantendo un supporto anche per questioni come il rispetto della democrazia, dei diritti umani, e lo sviluppo di una buona politica governativa, che assicuri una maggiore autonomia dei paesi coinvolti nel trattato. La convenzione di Cotonou ha una validità di 20 anni ed è stata già oggetto di due riesami che hanno portato al riconoscimento della giurisdizione della Corte penale internazionale. L’accordo, sottoscritto da ben 48 stati africani, è sostenuto finanziariamente dal Fondo Europeo di Sviluppo (FES), che supporta i patti in materia politica, economica e sociale, prevalentemente legati alla cooperazione per lo sviluppo di questi paesi.

Per valutare l’operato dell’Unione Europea nel processo di cooperazione è importante sottolineare che le politiche europee nei confronti dei paesi terzi si basavano precedentemente su un approccio meramente legato a preferenze commerciali e ad accordi di tipo economico, mentre negli ultimi anni, specialmente per quello che riguarda il continente africano, temi come la tutela dei diritti umani, dello stato di diritto, pace e sicurezza hanno assunto una rilevanza primaria nell’approccio dell’ UE.

Nell’analisi globale dei rapporti tra Unione Europea e paesi africani è essenziale ricordare inoltre il vertice del 2000 al Cairo, che ha determinato l’inizio di riunioni periodiche tra rappresentati e ministri, inaugurando una nuova era nelle relazioni UE-Africa. L’anno successivo fu creato il Nuovo Partenariato per lo Sviluppo dell’ Africa (NEPAD) e nel 2002 si ebbe l’ istituzione dell’ Unione Africana, di cui oggi fanno parte ben 54 paesi. Il passo successivo, nel 2005, fu la creazione della Strategia dell’ Unione Europea per l’Africa, innovata appena due anni più tardi dalla Strategia Congiunta UE-Africa, che mira a determinare un maggior coordinamento tra le politiche della Commissione Europea, gli stati membri e i governi dei paesi africani.

Dal vertice di Lisbona del 2007, inoltre, l’Unione Africana è stata riconosciuta come interlocutore dell’Unione Europea in Africa, avviando così una essenziale cooperazione strategica tra le due organizzazioni internazionali. L’obiettivo primario del vertice di Lisbona, ancora attuale, è di andare al di là delle questioni prettamente africane, affrontando in maniera efficace le sfide globali come la migrazione, i cambiamenti climatici, la pace e la sicurezza. La volontà espressa da ambo le parti è anche quella di sviluppare un partenariato incentrato sulle persone, provvedendo a rafforzare la partecipazione dei cittadini africani ed europei. Dal 2008 al 2013 la strategia congiunta è stata portata avanti con incontri annuali e piani d’azione, che sono serviti anche a preparare il vertice che si è tenuto nei giorni scorsi a Bruxelles.

Dopo aver analizzato l’insieme degli incontri e dei vertici che hanno plasmato le relazioni tra UE e paesi africani è indispensabile un riferimento più concreto a questa relazione. Lo strumento fondamentale di cooperazione economica è rappresentato dagli Accordi di Partenariato Economico (APE), che dopo essere stati istituiti nel 2000 avrebbero dovuto essere ultimati nel 2008. Tutt’ora invece nessuna delle cinque macroregioni del continente africano hanno definito in maniera completa il suo APE e si sono avuti una serie di accordi bilaterali e plurilaterali che hanno visto partecipare solamente 18 paesi. L’Unione Europea, vista la situazione, si è imposta di fissare al primo ottobre prossimo il termine ultimo per la stipula di APE provvisori: alla scadenza di questo termine i paesi africani perderanno la possibilità di fruire dell’ attuale trattamento privilegiato da parte dell’ UE.
Bisogna tuttavia soffermarsi sulle motivazioni di questo scarso successo degli APE: alcuni esperti ritengono, infatti, che, nonostante le ripetute dichiarazioni sull’uguaglianza tra le parti degli accordi, vi sia una innegabile e fondamentale posizione di supremazia negoziale della Commissione Europea. Molto rilevante, secondo questa visione, sarebbe anche il ruolo nelle negoziazioni che fin qui è stato attribuito dall’UE alla Direzione Generale per il Commercio (DG Trade) e alla Direzione Generale per lo Sviluppo e la Cooperazione (Europeaid). Il primo organismo opera in un ottica liberale, solamente vincolata ai principi del libero mercato, mentre il secondo si occupa della distribuzione di aiuti allo sviluppo e della cooperazione. Molti, a riguardo, ritengono che un ruolo fondamentale sia stato giocato dalla DG Trade, limitando Europaid ad azioni secondarie, anteponendo quindi la liberalizzazione economica all’effettivo supporto nello sviluppo dei paesi coinvolti.

Un altro fattore del parziale fallimento degli APE che si è avuto fino ad oggi è presumibilmente dovuto al complesso sistema di elaborazione politica dell’UE, che si articola tra competenze della Commissione, del Consiglio o materie ancora legate agli stati membri. Lo scontro sempre acceso nell’UE tra interessi comuni e quelli dei singoli stati membri, unito al persistere del metodo intergovernativo in molti ambiti, è ovviamente un freno importante nel rapporto con l’Africa così come in tutte le relazioni esterne dell’ Unione.
Un ulteriore elemento negativo nei rapporti tra UE ed Africa degli ultimi anni è certamente derivato dal ridimensionamento, dettato anche dall’ avvento della crisi economica, dei fondi destinati ai progetti di cooperazione per lo sviluppo dei paesi africani. Nel summit di Bruxelles si è discusso proprio di rilanciare molti di questi progetti, con un impegno maggiore da parte dell’UE, che sarà chiamata a dimostrare di tenere in primaria considerazione il suo rapporto con gli interlocutori africani.

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IL LEVIATANO – RASSEGNA DELLA STAMPA ATLANTICA (13 – 20 APRILE)

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L’inserimento dei musulmani di Crimea nella Federazione (1) non dovrebbe portare sconvolgimenti particolari. Benché la comunità tatara storicamente si sia trovata su fronti contrapposti alla Russia fin dal XV secolo, divenendo anche un importante punto di riferimento per l’Impero Ottomano sul Mar Nero nel conflitto che lo vide opposto alla Russia, oggi a prevalere è la paura per la stessa comunità di vedersi sopraffatta dagli elementi radicali wahabiti sostenuti dalla monarchia saudita. Certo, per la popolazione tatara non è facile dimenticare le deportazioni subite all’epoca di Stalin e, in privato, molti hanno dubbi e paure su quello che potrebbe comportare per loro l’annessione alla Federazione Russa. Occorre tuttavia considerare che per Putin il pilastro islamico è molto importante, specie geopoliticamente, per mantenere solide relazioni con Siria ed Iran: ciò spiega le sue aperture verso i tatari, il riconoscimento della loro lingua come lingua ufficiale della Crimea accanto al russo, e della loro comunità come comunità indigena a tutti gli effetti.

Altro punto(2) dolente è quello rappresentato dall’efficacia delle sanzioni adottate dall’Amministrazione Obama. Si fa presente con molto orgoglio che la determinazione presidenziale lascia ampio margine di discrezionalità al Segretario di Stato, di concerto con quello del Tesoro, di eseguire tutte le misure ritorsive necessarie nel campo petrolifero, metallifero e minerario. Ma davvero è una vittoria? Gli USA ad oggi, col blocco degli oleodotti canadesi, importano 400 mila barili di petrolio al giorno senza esportarne alcuno. Nei metalli la situazione è ancora più critica: solo adesso il Pentagono si accorge che la Russia è il massimo esportatore mondiale di metalli quali zinco, antimonio, zinconio e palladio il cui blocco avrebbe serissime conseguenze per l’industria statunitense in modo particolare per le applicazioni militari. Non solo stupidamente, gli USA non hanno calcolato gli effetti del nuovo accordo fra Russia e Cina denominato in petrorubli grazie al quale la Cina acquista forniture di gas russo ottenendo appoggio per le sue questioni territoriali nel Mar Cinese Meridionale, ed in cambio offrendo copertura all’annessione della Crimea e ad altri interventi che Mosca giudicasse necessari a protezione delle comunità russofone. Forse, e l’autore ha molti dubbi a proposito, gli USA potranno essere sicuramente competitivi con la Russia non prima del 2021: fino ad allora ogni sanzione sarà solo un incentivo per la Russia a proseguire la sua politica espansiva.
In attesa di vedere come si evolva di ora in ora la situazione in Ucraina, al fine di riportare le analisi del Leviatano, mi è gradita l’occasione di porgere ai lettori della rubrica i miei personali auguri di Buona Pasqua.

NOTE
(1) http://www.foreignaffairs.com/articles/141105/robert-d-crews/putins-khanate?sp_mid=45599540&sp_rid=Y29ycmFkby5mb250YW5ldG9AZ21haWwuY29tS0
(2) http://www.realclearworld.com/articles/2014/04/16/sanctioning_russian_resources_may_hurt_us_more.html

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SIRIA E UCRAINA: SCHIZOFRENIE MEDIATICHE A CONFRONTO

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Ascoltando le ultime (contraffatte) notizie provenienti dall’Ucraina riferite dai media occidentali, non si può non fare mente locale a quanto accade in Siria da tre anni. Nello specifico, a come essi hanno presentato le parti in gioco nel paese arabo mediorientale, valutando il livello di patente contraddizione nel quale sono caduti adesso che, in Ucraina, il governo nuovo di zecca emerso dal recente “golpe” fronteggia l’azione dei filo-russi e degli altri ucraini che non hanno accettato il colpo di mano.

Al governo siriano, sin dall’inizio, è stata negata ogni legittimità, ogni diritto alla difesa dello Stato, con tutta la simpatia e le ragioni attribuite a senso unico alla parte dei “ribelli”. I quali – sempre i soliti media ce l’assicurano – non sarebbero altro che il logico e consequenziale sviluppo degli ex “pacifici manifestanti” oggetto della repressione del “regime” e, perciò, “radicalizzatisi” ed armatisi fino ai denti per difendersi da quello.
Per comprendere il due e pesi e due misure nel modo di trattare gli ultimissimi fatti ucraini quando l’Occidente si scandalizza per la longa manus russa, è opportuno ricordare che tra le fila dei “ribelli siriani” si contano non pochi stranieri, provenienti dai più svariati paesi arabi fornitori di “jihadisti” alla bisogna. E non mancano naturalmente agenti mercenari (“contractors”) ed “istruttori militari” di varie potenze occidentali, col beneplacito dei rispettivi governi. Un fatto ormai acclarato ed ammesso dai medesimi diretti interessati alla sovversione del governo siriano.
Nessuno, tranne quest’ultimo ed i suoi importanti alleati e protettori internazionali (Russia, Cina, Iran), s’è permesso di chiamare “terroristi” gli insorti che dal 2010 hanno ridotto il paese alla pressoché totale rovina. Anzi, tutte le colpe e le nefandezze sono state attribuite a Bashar al-Asad ed ai suoi collaboratori: infanticidi, uso di gas, bombardamenti indiscriminati, “violazioni dei diritti umani” eccetera.

Ma che cosa vogliono i “ribelli siriani”? Solo la caduta del regime?
Non pare così, effettivamente, perché se l’Iraq – nel quale scorazzano milizie “islamiste” d’ogni tipo – rappresenta un istruttivo precedente, c’è da ritenere che dell’unità del territorio della Repubblica Araba di Siria ai loro omologhi “siriani” non interessi assolutamente nulla. Ma per la “secessione” e la subitanea unione alla Russia della Crimea si sono sentite elevare alte grida e lamentazioni in nome della “sovranità” violata dell’Ucraina.
Dunque, ricapitoliamo. In Siria, abbiamo un’insurrezione violenta, appoggiata dall’esterno (petromonarchi e occidentali), che non disdegna di dividere il paese secondo “cantoni” etnico-confessionali (operazione, questa, già tentata alla metà degli anni Venti del secolo scorso e gradita ad Israele da almeno una trentina d’anni). Ma il “mostro” è solo e sempre il governo, peraltro legittimo perché riconfermato anche nelle ultime tornate elettorali che le televisioni ed i giornali americani ed europei (si fa per dire) giudicano farsesche mentre non battono ciglio quando a Kiev o altrove riescono ad insediare, con raggiri e violenze, uomini fedeli agli interessi occidentali.

Che cosa sia il “nuovo governo ucraino” è presto detto: il risultato di una manovra di palazzo, architettata dall’esterno e supportata dalla messinscena barricadiera di Maydan. Un’accolita di prezzolati appoggiati in piazza da energumeni professionisti al cui confronto il “presidente” georgiano che già tentò nel 2008 una spericolata provocazione contro la Russia fa la figura del sincero e disinteressato patriota del suo paese.
Adesso, questo “nuovo governo”, che ha immediatamente ricevuto l’investitura dei “mercati” e delle cancellerie europee, oltre che l’incondizionato sostegno dell’America e di Israele, afferma di combattere il “terrorismo” nelle regioni orientali dell’Ucraina, legate alla Russia per ragioni storiche, culturali ed economiche.
A dire il vero, è l’intera Ucraina ad essere dipendente dalla Russia dal punto di vista economico, a meno che i suoi attuali “dirigenti” pensino che l’Unione Europea – che non riesce più a convincere i suoi stessi sudd… ops, cittadini, di avere una qualche ragion d’essere – sia capace di sostenere gli ucraini, garantendo loro pace e benessere (cioè: l’euro, il pareggio di bilancio, il Fiscal Compact e il MES, le “riforme strutturali” più varie ed eventuali, tra cui un “debito pubblico” inestinguibile ed il “commissariamento” dell’Unione sine die).

Così, in quest’orgia di mistificazione, non stupisce che i media-pappagallo occidentali ripetano che Kiev sta inviando truppe contro i “terroristi”, quando i veri terroristi erano quelli di Maydan che lanciavano molotov alla polizia senza che nessun “autorevole commentatore” di casa nostra, aduso a scandalizzarsi per un corteo di “No-Tav”, si scomponesse più di tanto.
Oltre a ciò, la propaganda imbeccata dall’America sostiene che la Russia ed il suo “zar”, Vladimir Putin (sempre più paragonato a Hitler: che novità!), sono i veri responsabili dei disordini che stanno montando in Ucraina. Si tratta – è bene ricordarlo – degli stessi “organi d’informazione” che non hanno mai trovato nulla da eccepire nell’invio di armi e soldi, da parte degli Stati del Golfo e dei loro mentori occidentali, alle bande che combattono il governo siriano e che hanno ricevuto ogni tipo d’onore nelle varie sedi internazionali e diplomatiche, mentre i legittimi rappresentanti della Siria ne venivano esclusi in quanto “colpevoli” – loro e solo loro – d’ogni sorta di violenza.
Come se tutto ciò non bastasse, c’è un altro fondamentale elemento che viene escluso dalle analisi (!?) dei giornalisti occidentali tutti intenti ad additare la Russia quale “minaccia alla pace e alla sicurezza in Europa” (sta minacciando i tedeschi, i francesi, gli italiani? l’Ucraina è forse già nell’UE?).

Per Mosca, l’Ucraina rientra nel “cortile di casa”. Non può tollerare, al di là della presenza di componenti russofone e cristiano ortodosse nella sua popolazione, che in un paese così a ridosso delle sue frontiere s’insedi un governo ostile, fonte di problemi e provocazioni. Eppure anche questo fatto non viene minimamente, e volutamente, preso in conto.
Ma la cosa più sbalorditiva è che mentre alla Russia si addossa ogni responsabilità stigmatizzandone le “ingerenze” negli affari di un altro Stato, nessun “grande opinionista” si pone il dubbio su che cosa c’entrino l’America ed i suoi “alleati” nelle faccende interne dell’Afghanistan, dell’Iraq, della Libia e della Siria… La risposta è tuttavia implicita e scontata: gli Occidentali hanno il diritto d’intervenire dappertutto, per il semplice fatto che essi sono i paladini della “libertà” e dei “diritti umani”, con la sacrosanta missione di difenderli e ristabilirli ovunque essi siano “minacciati”, anche a migliaia di chilometri di distanza. Si sono arrogati, in un vero delirio d’onnipotenza, una sorta di “giurisdizione universale”.

In questa disamina delle clamorose contraddizioni tra le “questioni di principio” sbandierate dall’Occidente e la sua effettiva condotta non possiamo inoltre omettere la benevolenza dimostrata verso movimenti e partiti di “estrema destra” e “fondamentalisti islamici” (solitamente additati in casa propria a “pericolo numero uno” in quanto “nemici della democrazia” e dei suoi “valori”) una volta che questi si sono prestati ottimamente alla sovversione, riuscita o meno, dei governi ucraino e siriano. Costoro, di punto in bianco, sono diventati immacolati e disinteressati “patrioti”, “combattenti per la libertà” e, naturalmente, difensori dei “diritti umani” calpestati dal “regime”.
I filo-russi e gli altri ucraini che si oppongono ai golpisti sono, al contrario, presentati come “armati”, “miliziani” contro i quali i “nuovi governanti” ucraini hanno il diritto d’intervenire con qualsiasi mezzo in nome della “guerra al terrorismo”. Diritto che, curiosamente, è stato negato fin dall’inizio sia al governo di Damasco che a quello deposto di Kiev, coi morti veri o presunti (si legga alla voce “cecchini della Nato”) addebitati alle dirigenze siriana ed ucraina e sbattuti in prima pagina per mostrare al mondo la “ferocia” di chi merita solo di essere deposto al più presto.

Ma se i carri armati vengono spediti dal “nuovo governo” di Kiev per fronteggiare la secessione delle regioni orientali, l’azione di forza diventa “legittima” e “comprensibile”…
Cosicché si giunge alla madre di tutte le frottole del mondo uscito dalla fase bipolare: a quella “secessione del Kossovo” per la quale gli occidentali si sono spesi con ogni mezzo, demonizzando i serbi e la ex Jugoslavia, che come avrebbe fatto qualsiasi altro Stato aveva cercato d’impedire la perdita di una sua regione per mano d’insorti armati sostenuti dall’esterno. Una regione che godeva oltretutto di una sua autonomia all’interno della Federazione e che, una volta staccatasi, non ha né coerentemente proceduto all’unificazione con l’Albania come ha fatto la Crimea con la Russia, né ha mostrato tutto questo gran rispetto per la minoranza serba (gli occidentali, è noto, “tutelano” le minoranze). Lo scopo era chiaro: la creazione di uno Stato-mafia e l’edificazione della più grande base della Nato in Europa.

La lezione da trarre da tutto ciò è che le “questioni di principio” non esistono, essendo lo specchietto per le allodole di chi crede alle “notizie” e alle “opinioni” di coloro che sono preposti a fabbricarle. Quando la stessa identica cosa viene fatta per favorire gli interessi occidentali o quelli avversi, scatta alternativamente il plauso o la condanna. E questo è quanto, anche questa volta.

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IL KATECHON RUSSO

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«La punizione dei criminali di guerra avrebbe dovuto essere un atto di giustizia e non la prosecuzione delle ostilità in forme solo apparentemente giudiziarie, in realtà ispirate da un desiderio di vendetta. Anche gli Stati vittoriosi avrebbero dovuto accettare che i propri cittadini, ritenuti responsabili di crimini di guerra, venissero processati da una corte internazionale. E questa avrebbe dovuto essere un’assise imparziale e con una giurisdizione ampia e non un tribunale di occupazione militare con una competenza fortemente selettiva» (1). Benché possa sembrare strano, questo giudizio sui processi di Norimberga e di Tokyo non è di Carl Schmitt ma del filosofo e teorico del diritto Hans Kelsen. Come Benedetto Croce, o altri pensatori liberali non ancora così intellettualmente “corrotti” e disonesti come quelli che oggi sono al servizio dei “mercati” e del circo mediatico occidentale, Kelsen si rendeva perfettamente conto che usare il diritto come uno strumento bellico per punire i vinti legittimava qualsiasi azione commessa dai vincitori (o dai più forti) ed equivaleva a creare una nuova barbarie, indipendentemente dalla questione della “giusta condanna” dei crimini commessi dai nazionalsocialisti o dai giapponesi durante la Seconda guerra mondiale. Lo stesso Kelsen al riguardo non esitò a sostenere: «Se i principi applicati nella sentenza di Norimberga dovessero diventare un precedente, allora al termine della prossima guerra i governi degli Stati vittoriosi giudicherebbero i membri degli Stati sconfitti per aver commesso delitti definiti tali unilateralmente e con forza retroattiva dai vincitori. C’è dunque da sperare che questo non avvenga» (2).

In effetti, fino agli anni Settanta del secolo scorso – ossia quando ancora (pur in presenza di una lotta politica caratterizzata da forti e radicati pregiudizi ideologici) non vi era il totalitarismo mentale del politicamente corretto – era naturale ritenere che i processi internazionali del dopoguerra fossero stati utilizzati dai vincitori a fini propagandistici e per nascondere i propri crimini (3). Nondimeno, la “patologia” normativa e giudiziaria che era alla base di quei processi, si è riproposta con l’istituzione della Corte penale internazionale e dei Tribunali ad hoc per il Ruanda e la Jugoslavia, che ovviamente hanno dato pessima prova di sé (né potevano non darla tenendo presente il giudizio di Kelsen sui tribunali internazionali del dopoguerra). Non ci si può meravigliare quindi per la vergognosa assoluzione di noti criminali di guerra croati e bosniaci da parte dei giudici del Tribunale ad hoc per la Iugoslavia o per il grottesco comportamento del procuratore della Corte penale internazionale, Moreno Ocampo, un imbelle agli ordini dell’oligarchia occidentale, pronto ad accusare Gheddafi di crimini contro l’umanità, benché non vi sia «concetto più vago e sfuggente della stessa nozione di “crimini contro l’umanità”», mentre com’è noto nessun Tribunale ad hoc viene istituito contro gli Stati Uniti per i «crimini infami che hanno commesso ad Abu Graib, a Bagram, a Guantánamo e continuano a commettere in Afghanistan» (4).

Del resto, le aggressioni compiute dal Paese nordamericano e dai suoi principali alleati dopo la scomparsa dell’Unione Sovietica sono così numerose e così gravi da non lasciare alcun dubbio su quel che l’Occidente ormai intende per diritto internazionale. Non solo gli Usa hanno aggredito dei Paesi senza l’autorizzazione dell’Onu (Serbia e Iraq) o sono andati ben oltre l’uso “legittimo” della forza sia in Iraq che in Afghanistan (violando quindi sia lo ius ad bellum – il diritto di muovere guerra – che lo jus in bello – le norme da rispettare in guerra) (5), ma addirittura insieme ad altri Paesi della Nato hanno utilizzato la risoluzione 1973 del Consiglio di Sicurezza (6) non per difendere il popolo libico ma per aggredire e rovesciare la Giamahiria, bombardare paesi e villaggi in cui vi erano dei sostenitori di Gheddafi e supportare con l’aviazione bande di fanatici e terroristi, finanziate e appoggiate dal Qatar (infischiandone pertanto della cosiddetta “no fly zone” che era solo un pretesto per invadere la Libia e “liquidare” Gheddafi). Ma all’aggressione contro la Libia si deve aggiungere pure il sostegno degli Usa all’aggressione contro la Siria di Assad da parte delle bande islamiste e dei terroristi al soldo dell’Arabia Saudita e del Qatar (due Paesi tra i più illiberali e autoritari che vi siano oggi sulla faccia della terra). Né si può passare sotto silenzio l’ignominioso tentativo degli Usa e dei cosiddetti “ribelli” di addossare al governo siriano la responsabilità di aver usato delle armi chimiche, che sono state invece impiegate, con ogni probabilità, dai “ribelli” stessi per giustificare un intervento degli Usa, dato che. le due petromonarchie del Golfo non sono in grado di raggiungere i propri (ignobili) scopi in Siria, soprattutto per l’eccezionale resistenza opposta dall’esercito siriano.

D’altronde, si sa che gli Stati Uniti, tramite numerosi agenti strategici (Ong, fondazioni, istituzioni internazionali, gruppi finanziari e così via), fanno il possibile per rovesciare regimi a loro non graditi. Basti pensare alle nefandezze commesse dagli Usa in America latina (in cui non si conta il numero delle violazioni del diritto internazionale che hanno compiuto gli statunitensi) o al ruolo che Washington ha svolto nelle cosiddette “rivoluzioni colorate”, avvalendosi degli insegnamenti di Gene Sharp, ma applicandoli secondo i parametri della Cia e “integrandoli” con altre “lezioni”, come quelle del famigerato colonnello Robert Helvey, membro dell’Albert Einstein Institution (l’istituto fondato da Sharp ed integrato nel dispositivo della rete Stay-behind nei Paesi alleati dal generale Edward B. Atkeson, quando era distaccato dall’esercito statunitense presso la Cia) e probabilmente presente pure a Kiev durante la “rivoluzione” arancione, nel novembre del 2004 (7). Né meno significativo è il fatto che, malgrado lo scioglimento del Patto di Varsavia sia avvenuto nel 1991, la Nato non solo abbia ridefinito la sua funzione politico-militare in chiave spiccatamente offensiva ma, a partire dagli anni Novanta, abbia cominciato una lunga marcia verso est, una sorta di Drang nach Osten, creando così anche le condizioni perché gruppi di estremisti nazionalisti e addirittura neonazisti potessero rovesciare con la violenza il legittimo governo ucraino (certo corrotto e inetto, benché non più di tanti regimi liberal-democratici occidentali, a cominciare da quello italiano).

A tale proposito, perfino un analista “moderato” come Gianandrea Gaiani ha riconosciuto che «i programmi politici formulati apertamente da questi movimenti non sarebbero legali in Europa ma evidentemente nell’ambito del progetto di sottrarre l’Ucraina all’orbita russa e assestare un duro colpo strategico ed economico a Mosca anche i nazisti possono diventare utili alleati da difendere mobilitando le forze della Nato» (8). E’ evidente allora qual è l’obiettivo geostrategico che i circoli occidentali perseguono in Ucraina: colpire il nemico principale del mondialismo made in Usa, ovvero la Russia di Putin nonché il suo progetto di Unione Eurasiatica, che rischia di mandare all’aria parecchi piani dell’oligarchia occidentale. In effetti, è l’intera strategia Nato di questi ultimi anni che è in gioco a Kiev. Si tratta cioè di completare lo schieramento di forze aeree (F-16, F-15 e Awacs) in Polonia e negli Stati baltici con l’installazione di uno scudo antimissile, di radar e sensori vari. E tutto questo alle porte di Mosca, cercando di prendere pure la base navale di Sebastopoli, perché la possa utilizzare la Sesta Flotta Usa, che da un pezzo scorrazza avanti e indietro anche nel Mar Nero, oltre che nel Mediterraneo.

Indicativo della tracotanza dell’Occidente è pure il fatto che questa volta i circoli euro-atlantisti abbiano voluto e potuto giocare a carte scoperte, tanto erano sicuri di farla franca, dato che il fariseismo in Occidente ha messo così salde radici che gli Usa possono permettersi di compiere qualsiasi soperchieria certi di non suscitare la condanna e la riprovazione da parte di un’opinione pubblica europea, ormai talmente condizionata dai media mainstream che pare perfino disinteressata all’impoverimento e alla deindustrializzazione di buona parte del Vecchio Continente. Non meraviglia allora la presenza in piazza Maidan di personaggi come McCain e di altri noti “vip” occidentali (tra cui l’onnipresente demagogo “liberal-sionista” Bernard Henry Levy), né quella di “misteriosi” cecchini che sparavano sia sui manifestanti che sui poliziotti (una tecnica di provocazione ormai tristemente nota, poiché impiegata anche altrove, Siria inclusa). Né sorprende che la Nuland abbia ammesso che gli Usa hanno speso cinque miliardi dollari per allineare l’Ucraina agli interessi di Washington o che si sia arrogata il diritto di scegliere, insieme all’ambasciatore degli Usa in Ucraina, il governo da installare a Kiev, in seguito al colpo di Stato.

Tuttavia, in Ucraina, come in Siria, gli statunitensi sembrano aver fatto i conti senza l’oste. Oste che non è tanto (o solo) la Russia di Putin quanto piuttosto quella parte del popolo ucraino che al gioco (sporco) della Nato e dei circoli euro-atlantisti non ci vuole proprio stare. Infatti, anche a prescindere dalla questione del golpe e dell’azione “allo scoperto” degli “agenti” di Washington e della stessa Ue, è indubbio che in Ucraina orientale e in Crimea il popolo (quello “vero”), appoggi la causa della Russia contro la protervia dell’Occidente. Non si spiegherebbe altrimenti «il 97 per cento dei voti a favore del distacco da Kiev o il fatto che 16 mila dei 18 mila soldati ucraini presenti in Crimea hanno cambiato uniforme e oggi operano agli ordini di Mosca» (9). Inoltre, nonostante le menzogne dei principali media occidentali – non a caso allineati con quelli del Qatar, proprio come accadde per la cosiddetta “primavera” araba – nei giorni caldi dell’“insurrezione popolare” a pochi isolati da piazza Maidan non vi erano disordini e anche il resto del Paese era tranquillo; ragion per cui sarebbe da ingenui, come scrive lo stesso Gaiani, «credere alla sollevazione di massa degli ucraini contro il governo filo russo di Viktor Yanukovic». (10)

Ma le vicende dell’Ucraina insegnano pure che la storia non la si può ignorare o “manipolare” facilmente. La Russia non ha dimenticato né l’aggressione di Carlo XII di Svezia., le cui ambizioni finirono a Poltava nel 1709, né quella di Napoleone, che in Russia perse quasi 500.000 soldati (200.000 prigionieri e probabilmente 270.000 morti in combattimento o durante la ritirata), né naturalmente quella di Hitler. E gli attuali confini dell’Ucraina sono stati tracciati, in sostanza, dai soldati dell’Armata Rossa, che proprio nell’Ucraina orientale nell’agosto del 1943 inflissero ai tedeschi una sconfitta decisiva con l’operazione Polkovodets Rumyantsev (10) – forse l’operazione più importante di tutta la Seconda guerra mondiale, poiché con essa i russi stapparono l’iniziativa strategica ai tedeschi. E anche la Crimea (ceduta all’Ucraina nel 1954) è intrisa del sangue dei soldati dell’Armata Rossa: Sebastopoli solo dopo lunghi mesi d’assedio venne conquistata da von Manstein (nel giugno del 1942), e i tedeschi dovettero impiegare tutta la loro superiore potenza di fuoco per aver ragione della resistenza russa (compresi dei giganteschi pezzi d’artiglieria, tra cui il Dora, un cannone da 800 mm). Nel 1944 però la Crimea riconquistata dall’Armata Rossa, che liberò anche i territori di tutta l’Ucraina, anche se in tale operazione trovò la morte il generale Vatutin (uno degli artefici della vittoria russa a Stalingrado), ucciso proprio da nazionalisti ucraini.

Vi è allora ragione di ritenere che il “grande gioco occidentale” in Eurasia, che confonde l’arbitrio, l’arroganza e la menzogna con il diritto internazionale, non darà agli americani e agli euro-atlantisti frutti migliori di quelli che poterono raccogliere Carlo XII, Napoleone o Hitler. Il che però non significa che non ci si debba preoccupare. Ha scritto Paul Craig Roberts: «Ottenere il cambio di regime in Ucraina con soli 5 miliardi di dollari sarebbe un affare, in confronto alle enormi somme sperperate in Iraq (3.000 miliardi), Afghanistan (3.000 miliardi), Somalia e Libia, o al denaro che Washington sta sprecando per assassinare persone tramite i droni in Pakistan e Yemen, o che ha speso per supportare Al Qaeda in Siria, o alle somme enormi che Washington ha sprecato per circondare l’Iran con 40 basi militari e numerose flotte nel Golfo Persico, nello sforzo di sottomettere l’Iran con il terrore» (11). Di fatto, è da tempo che gli Stati Uniti fanno questo tipo di “guerra asimmetrica”, dacché costa di meno e può rendere molto di più di quella “tradizionale”, benché, naturalmente, vi sia sempre la possibilità di impiegare, se necessario, altri mezzi (dai caccia alle navi da guerra, dai carri armati ai cannoni). In ogni caso, è innegabile che il sistema occidentale “americanocentrico”, per raggiungere i propri scopi, sappia usare i “mercati”, i media, le Ong e perfino lo stesso diritto internazionale piegandolo alla propria “volontà di potenza”. La Russia sembra però non solo averlo compreso ma essere pure disposta a mettere un freno alla prepotenza dell’Occidente proprio in terra d’Ucraina. Un siffatto nuovo corso (geo)politico sarebbe certo positivo, giacché, se non si vuole finire nel tritacarne del “mercato globale” made in Usa, si devono appoggiare e promuovere tutte quelle azioni che possono frustrare i disegni di egemonia globale degli Stati Uniti, anche se ciò non comporta che non vi sia il rischio che la nuova “guerra fredda” si trasformi in una “guerra calda”. Ma di questo si dovrebbe essere consapevoli senza lasciarsi ingannare dalle ciance del circo mediatico sulla questione della violazione del diritto internazionale.

Comunque sia, dovrebbe essere chiaro che non occorre essere degli “esperti” per rendersi conto della strumentalizzazione del diritto internazionale che viene fatta dagli Stati Uniti, né per comprendere che le ragioni (geo)politiche prevarranno sempre su quelle del diritto, almeno finché gli Stati Uniti non rinunceranno a dominare il mondo. Leggere allora il conflitto tra potenze a lume di geopolitica, anziché con il metro del diritto internazionale (che certo è indispensabile), è necessario se si vuol comprendere la realtà per quel che effettivamente è, invece di dare per scontato che essa sia come dovrebbe essere, o meglio come si pensa che debba essere. Anche sotto questo aspetto, quindi, la questione dell’Ucraina ha molto da insegnare, tanto più che il nuovo corso della (geo)politica di Putin pare riservare alla Russia il ruolo del katechon sul piano mondiale, ossia quella funzione che è condizione necessaria per mettere “in forma” la guerra, fredda o calda che sia; vale a dire che è condicio sine qua non perché le “regole del gioco” siano veramente rispettate da tutti i “giocatori”.

NOTE

1. Citato in Danilo Zolo, La giustizia dei vincitori. Da Norimberga a Baghdad, Laterza, Roma-Bari, 2006, p. 144.

2. H. Kelsen, Will the Judgment in the Nuremberg Trial Constitute a Precedent in International Law?, “The International Law Quarterly”, 1 (1947), 2, p. 171.

3. Al riguardo Zolo ricorda anche il noto saggio di B.V.A. Röling, The Nuremberg and the Tokyo Trials in Retrospect, in C. Bassiouni, U.P. Nanda (a cura di), A Treatise on International Criminal Law, Charles C. Thomas, Springfield, 1973. (vedi Danilo Zolo, Il doppio binario della giustizia penale internazionale, “Jura Gentium”, http:// www. Juragentium. org/topics/wlgo/it/double.htm).

4. Libia, “Chi dice umanità”, intervista a Danilo Zolo (vedi http:// www.ariannaeditrice. it/articolo.php?id_articolo=37973).

5. Sulla illegittimità delle guerre del Golfo (1991), del Kosovo e dell’Afghanistan vedi Tecla Mazzarese, Guerra e diritto. Note a margine di una tesi kelseniana, “Jura Gentium” (http: //www.juragentium.org/topics/wlgo/it/guerra.htm). Tecla Mazzarese osserva giustamente : «L’eventuale titolo di legittimazione di una guerra viene meno […] se le forme e i modi in cui essa viene combattuta violino i principi del diritto umanitario (i canoni del jus in bello); in particolare, se ed in quanto violino il principio di proporzionalità (dei danni inflitti rispetto al male subito) e il principio di discriminazione (tra combattenti e non combattenti)».

6. Risoluzione illegale sia perché «nessuna disposizione del presente Statuto autorizza le Nazioni Unite a intervenire in questioni che appartengano alla competenza interna di uno Stato», sia perché «nessuno può pensare che la guerra civile in atto in Libia [poteva] essere una minaccia internazionale contro la pace», Libia, “Chi dice umanità”, cit.

7. Thierry Meyssan, L’Albert Einstein Institution: la non-violence version CIA (http: //www. voltairenet.org/ L-Albert-Einstein-Institution-la).

8. Gianandrea Gaiani, Quei nazisti che piacciono tanto a Ue e Nato, “Analisi Difesa ( http:// www. Analisidifesa. it/2014/03/quei-nazisti-che-piacciono-tanto-a-ue-e-nato/).

9. Ibidem. Ma gli occidentali – che pure hanno sostenuto la secessione della Croazia (pur sapendo che cosa avrebbe comportato), quella del Kosovo (appoggiando l’Uck, ossia un gruppo di terroristi) per insediarvi un base militare degli Usa, e quella del Sud Sudan (ricco di petrolio) contro la penetrazione cinese in Africa – ritengono evidentemente che gli abitanti “russofoni” della Crimea non abbiano altri diritti se non quelli che riconosce loro la comunità internazionale, ossia gli Usa e i loro principali alleati.

10. Gianandrea Gaiani, Attacco alla Russia, (http://www.analisidifesa.it/2014/03/attacco-alla-russia/).

11. Al riguardo mi permetto di rimandare a Seconda guerra mondale: geopolitica e terra bruciata (http://www.eurasia-rivista.org/seconda-guerra-mondiale-geopolitica-e-terra-bruciata/6507/).

12. Paul Craig Roberts, Di nuovo sonnambuli (vedi http:// www. Arianna editrice. it/articolo.php?id_articolo=47639).

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ALEKSANDR DUGHIN: TEORIA LUMII MULTIPOLARE (9)

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CAPITOLUL 2.

BAZELE TEORETICE ALE LUMII MULTIPOLARE

Urmare din numărul precedent

Diplomaţia: antropologia şi tradiţionalismul

Doar la periferia ştiinţei şi filozofiei occidentale pot fi găsite unele metode şi teorii ce ar putea servi drept suport conceptual substanţial pentru educarea unor participanţi profesionişti în dialogul civilizaţiilor. În primul rând, este vorba despre antropologia culturală şi socială1, ai căror exponenţi au elaborat metodologiile de studiere a societăţilor arhaice, propunându-şi drept scop să renunţe din capul locului la proiecţia teoriilor occidento-centriste asupra obiectelor sociale de studiu. Antropologii au elaborat un sistem de reguli ce permite apropierea maximă de lumea societăţilor nonoccidentale, limpezirea structurilor reprezentărilor simbolice şi mitologice ale acestora, clarificarea taxonomiilor complexe ce nu stau la suprafaţă (care deseori contrastează în mod izbitor cu sistematizările familiare omului occidental). În cadrul ştiinţei occidentale, metodele antropologice sunt utilizate aproape exclusiv faţă de culturile ce nu cunosc scrisul, lăsând analiza unor societăţi mai complexe (a civilizaţiilor, de fapt) pe seama disciplinelor clasice, cum sunt filozofia, istoria, sociologia, studierea religiilor etc.

În contextul lumii multipolare, o astfel de abordare antropologică poate fi aplicată cu succes pentru cercetarea civilizaţiilor. Şi dacă vor fi respectate cu stricteţe regulile, avem şansa să formăm specialişti şi intelectuali cu adevărat independenţi faţă de hegemonia epistemologică a Occidentului, capabili să pătrundă profund în codurile civilizaţionale, ce diferă de cele proprii, să întreprindă deconstrucţia identităţilor şi a complexelor de identităţi caracteristice acestora.

În cadrul TLM, diplomaţia trebuie să fie conjugată strâns cu antropologia, iar competenţa diplomatică trebuie să se întemeieze pe cunoaşterea profundă a deprinderilor de bază ale practicii antropologice.

Cea de-a doua metodă de sistematizare a diplomaţiei intercivilizaţionale în condiţiile lumii multipolare rezidă în filozofia tradiţionalistă2. Majoritatea civilizaţiilor existente la ora actuală reprezintă versiuni ale societăţilor tradiţionale cu un grad de modernizare mai mult sau mai puţin de suprafaţă. Aşa cum se cunoaşte, în societatea tradiţională religia, sacralitatea, simbolul, ritualul şi mitul au un rol decisiv. Religii diferite se întemeiază pe propriile construcţii teologice, care nu pot fi reduse la alte construcţii, iar dacă se încearcă o astfel de operaţiune, ea suferă exagerări enorme, ce deformează sensul iniţial. Tentativele de a construi modele sincretice care să faciliteze dialogul interconfesional nu vor conduce nicăieri, deoarece se vor ciocni de ortodoxia conservatoare, provocând doar valuri de proteste în cadrul civilizaţiilor. Iată de ce, nici temelia seculară, nici sincretismul religios nu pot fi luate ca bază a practicii diplomatice în domeniul comunicării interconfesionale, la care se vor reduce într-o măsură considerabilă cele mai importante aspecte ale dialogului dintre civilizaţii.

Într-o asemenea situaţie există doar o singură soluţie: să se ia drept bază filozofia tradiţionalismului (R. Guenon, J. Evola, M. Eliade etc.), care reprezintă un proiect de detecţie a hărţii semantice, comune pentru societatea tradiţională ca atare, în special în opoziţie cu societatea seculară, occidentală din epoca Modernităţii3. Însăşi societatea secularizată a Occidentului este analizată de către tradiţionalişti de pe poziţiile societăţii tradiţionale4, ceea ce face ca această metodă să fie una optimă pentru majoritatea civilizaţiilor.

Un dialog intercivilizaţional temeinic şi corect sub aspect semantic poate fi construit doar în baza filozofiei tradiţionaliste.

Evidenţiind direcţiile principale ale diplomaţiei multipolare, obţinem bazele teoretice pentru constituirea acesteia. Fireşte, celelalte competenţe (cunoaşterea condiţiilor tehnologice ale altei civilizaţii, a aspectelor tehnico-militare şi strategice, a demografiei, ecologiei, a problemelor sociale şi migraţiei etc.) fac parte din condiţiile obligatorii de pregătire a diplomaţilor profesionişti. Însă un dialog al civilizaţiilor presupune, în primul rând, stabilirea canalului de transmitere corectă a sensurilor. În absența acestui canal, întregul complex al cunoştinţelor tehnice va fi lipsit de o bază solidă şi va reprezenta o construcţie inutilă sau deformată. Nu problemele păcii sau ale războiului, ale comerţului sau ale blocadei, ale migraţiei sau ale securităţii, ale sancţiunilor economice sau ale volumului de schimburi comerciale trebuie să primeze în diplomaţia multipolarităţii, ci chestiunea sensului filozofiei, a circulaţiei ideilor (în accepţia platonică). Iată de ce diplomaţia trebuie să se transforme într-o anume profesie sacrală.

 

Economia

În conformitate cu discursul actual, nicio teorie şi niciun proiect nu se pot lipsi de un program teoretic şi de calculele corespunzătoare acestuia. Astfel, se iscă întrebarea: pe ce model economic se va baza multipolaritatea?

În cazul lumii unipolare sau globale avem un răspuns definit în mod univoc: economia mondială contemporană reprezintă sistemul capitalist, urmând ca în viitor toate proiectele să fie edificate pe această temelie. În plus, la modul practic a devenit axiomatic faptul că la ora actuală, capitalismul a intrat în cea de-a treia fază de dezvoltare5 (economia postindustrială, societatea informaţională, economia cunoaşterii, turbocapitalismul după Nicolae Edward Luttwak etc.), care are următoarele caracteristici:

· dominarea calitativă a sectorului financiar asupra celui de producţie şi agrar;

· creşterea disproporţionată a ponderii pieţelor de capital, a fondurilor hedge şi a altor instituţii pur financiare;

· volatilitatea înaltă a pieţelor;

· dezvoltarea reţelelor transnaţionale;

· absorbţia de către sectorul terţiar (cel al serviciilor) a sectorului secund (producţia) şi a celui primar (agricultura);

· transferarea producţiei din ţările „Nordului bogat” în ţările „Sudului sărac”;

· diviziunea globală a muncii şi creşterea influenţei corporaţiilor transnaţionale;

· progresul rapid al tehnologiilor înalte;

· creşterea importanţei spaţiului virtual în dezvoltarea proceselor economice şi financiare (bursele electronice etc.).

Aşa arată tabloul economiei mondiale în momentul de faţă, iar dacă totul se va derula conform unui scenariu inerţial, şi a viitorului apropiat. Însă un astfel de model al economiei este incompatibil cu multipolaritatea, deoarece la baza lui stă ideea implementării codurilor occidentale de organizare economică la scară planetară, omogenizarea practicilor economice a tuturor societăţilor, ştergerea diferenţelor civilizaţionale, prin urmare, anihilarea civilizaţiilor în cadrul unui sistem cosmopolit unic, ce funcţionează potrivit unor reguli şi protocoale universale, formulate şi aplicate iniţial de către Occidentul capitalist în interes propriu. Actuala economie globală constituie un fenomen hegemonic. Acest lucru este descris în mod convingător de către neomarxişti în cadrul RI, dar este recunoscut în mare atât de realişti, cât şi de liberali. Împotriva acestei tendinţe sunt orientate într-o măsură considerabilă teoriile postpozitiviste (teoria critică şi postmodernismul). Păstrarea unui astfel de sistem economic este incompatibilă cu realizarea proiectului multipolar. Iată de ce TLM trebuie să apeleze la teoriile economice de alternativă.

În acest sens este util să fie cercetată critica marxistă şi neomarxistă a sistemului capitalist şi analiza contradicţiilor ce stau la baza lui, precum şi să fie scoasă în vileag şi prognozată natura inevitabilelor crize6. Marxiştii invocă deseori caracterul sistemic al falimentului capitalismului, văzându-i manifestările în valurile crizei economice ce a zguduit umanitatea începând cu 2008, după ce s-a produs falimentul sistemului ipotecar american. Deşi înşişi marxiştii consideră că ultima criză a capitalismului trebuie să sosească doar după internaţionalizarea lumii ca sistem şi a celor două clase globale (burghezia mondială şi proletariatul mondial), interpretarea crizelor şi prognozarea intensificării acestora sunt în cazul lor destul de realiste. Dar spre deosebire de marxişti, adepţii TLM nu trebuie să amâne multipolaritatea pentru momentul ce va urma după acordul final al globalizării. Este foarte posibil ca apropiatele crize să dea o lovitură fatală sistemului capitalist mondial, fără a aştepta încheierea globalizării şi a cosmopolitizării claselor. Aşa ceva ar putea determina un al Treilea război mondial. Însă în orice caz este foarte posibil ca modelul economic mondial existent la ora actuală să se confrunte cu o criză fundamentală şi ireversibilă. Şi, probabil, va înceta să mai existe; cel puţin, în formula de azi. Ultimele frontiere ale expansiunii economiei noi şi a organizării postindustriale se pot vedea deja astăzi, prin urmare, este uşor de presupus că, posibil, peste câţiva paşi acest sistem va suferi un colaps.

Ce ar putea oferi TLM în domeniul economiei modelului postindustrial?

Drept puncte de reper în această chestiune trebuie să apară următoarele:

· detronarea hegemoniei economice a Occidentului;

· respingerea pretenţiilor economiei liberale şi a modelului de piaţă la universalitate şi la calitatea de normă globală de la sine înţeles şi, prin urmare,

· pluralismul economic.

Economia multipolară trebuie să se întemeieze pe recunoaşterea unor poluri diferite şi pe harta economică a lumii.

Căutarea alternativelor economice trebuie efectuată în câmpul filozofic, ce respinge sau cel puţin relativizează factorul material, hedonist. Recunoaşterea lumii materiale drept cea mai importantă şi unică, iar a bunăstării materiale – drept valoarea socială, culturală şi spirituală supremă ne vor aduce inevitabil la capitalism şi liberalism, adică la acceptarea legitimităţii hegemoniei economice a Occidentului. Chiar dacă ţările non-occidentale vor dori să întoarcă procesele economice în favoarea lor şi să surpe monopolul Occidentului asupra controlului economiei de piaţă la scară globală, mai devreme sau mai târziu logica capitalului va impune ţărilor nonoccidentale şi civilizaţiilor respective aceleaşi norme care există la ora actuală. Aici marxiştii au dreptate: capitalul dispune de propria logică, iar din moment ce va fi acceptată, ea va conduce sistemul social şi politic spre modelul burghez, absolut identic celui occidental. Iată de ce a te pronunţa împotriva hegemoniei „Nordului bogat” şi, în acelaşi timp, a exprima fidelitate sistemului capitalist, înseamnă a te afla într-o profundă contradicţie şi a fi în faţa unui obstacol conceptual fundamental în calea edificării unei multipolarităţi autentice.

Sociologul american P. Sorokin vedea în mod clar limitele civilizaţiei materialiste occidentale, pe care o numea un sistem sociocultural „senzual”. Potrivit lui, societatea economo-centristă, bazată pe hedonism, individualism, consumism şi confort, este condamnată la o dispariţie rapidă. Aceasta va fi înlocuită de o societate ideatică (eurasianiştii o numeau „ideocratică”), ce plasează în capul unghiului în mod radical valorile spirituale şi parţial antimateriale. Această prognoză ar putea servi drept fir călăuzitor pentru TLM în atitudinea ei faţă de economie în ansamblu. Dacă vedem în multipolaritate anume ziua de mâine, nu continuarea celei de azi, atunci trebuie să urmăm această intuiţie a marelui sociolog.

Astăzi, majoritatea economiştilor, atât occidentali, cât şi nonoccidentali, au convingerea că economia de piaţă nu are alternativă. O astfel de convingere este egală cu convingerea că toate societăţile sunt ghidate de atracţia resimţită faţă de confortul material şi consumism, prin urmare, despre multipolaritate nici vorbă nu poate fi. Este suficient să recunoaştem că economia este însăşi soarta şi vom recunoaşte în mod automat că economia liberală este însăşi soarta, iar în acest caz, hegemonia economică a „Nordului bogat” devine una firească, justificată şi legitimă. Celorlalte ţări nu le rămâne decât să accepte o dezvoltare de „ajungere din urmă”, care va conduce la globalizare, divizare de clasă şi ştergerea graniţelor dintre civilizaţii.

De aici reiese o concluzie logică: modelul economic al lumii multipolare trebuie să fie edificată pe respingerea economo-centrismului şi la pasarea factorilor economici dedesubtul celor sociali, culturali, religioşi şi politici. Nu materia, ci ideea este însăşi soarta, deci, nu economia trebuie să dicteze ce să se facă în sfera politică, ci sfera politică trebuie să domine asupra motivaţiilor şi structurilor de ordin economic. Fără relativizarea economiei, fără subordonarea sferei materiale celei spirituale, fără transformarea domeniului economiei într-o dimensiune subordonată şi secundară a civilizaţiei în ansamblu, multipolaritatea este irealizabilă.

Prin urmare, TLM trebuie să respingă toate tipurile de concepţii economo-centriste, atât cele liberale, cât şi cele marxiste (asta pentru că în marxism, economia este, de asemenea, văzută ca un fatum istoric). Anticapitalismul şi, mai ales, antiliberalismul trebuie să devină vectorii de bază ai devenirii TLM.

În calitate de puncte de reper pozitive trebuie să fie preluat spectrul larg al concepţiilor de alternativă, ce rămâneau a fi până la ora actuală unele marginale printre teoriile economice clasice.

Un prim pas spre deconstrucţia sistemului economic mondial, aşa cum se prezintă acesta la ora actuală, ar putea fi apelul la teoria „autarhiei spaţiilor mari” (F. List), ceea ce presupune crearea unor zone economice închise pe teritoriile ce ţin de o civilizaţie comună. De-a lungul perimetrului acestor teritorii se presupune crearea unor bariere vamale, care sunt organizate astfel încât să stimuleze producerea minimului de mărfuri şi servicii în cadrul acelei civilizaţii, necesare pentru asigurarea necesităţilor populaţiei şi dezvoltarea potenţialului de producţie intern. Comerţul exterior între „spaţiile mari” se păstrează, însă este organizat astfel încât niciunul dintre „spaţiile mari” să nu devină dependent de furnizările din exterior. Asta garantează întregului sistem economic în cadrul fiecărei civilizaţii, în conformitate cu particularităţile regionale şi cerinţele pieţei interne. Întrucât civilizaţiile reprezintă prin definiţie nişte zone demografice solide, în perspectivă această piaţă va fi suficientă pentru o dezvoltare intensă.

În paralel cu aceste procese, este necesar să se pună problema creării unor sisteme valutare regionale şi renunţării la dolar în calitate de valută a rezervelor mondiale. Fiecare civilizaţie trebuie să emită propria valută independentă, care să fie asigurată de potenţialul economic al respectivului „spaţiu mare”. În acest caz, policentrismul instanţelor de emisie va deveni expresia directă a multipolarităţii economice. În acelaşi timp, este necesar să se renunţe la orice etalon universal în achitările intercivilizaţionale: cursul valutelor trebuie să fie determinat de structura de calitate a comerţului exterior între două sau câteva civilizaţii.

În capul unghiului trebuie să stea economia reală, corelată cu volumul concret al mărfurilor şi serviciilor.

Adoptarea acestor reguli va crea premisele diversificării ulterioare a modelelor economice ale fiecărei civilizaţii. Ieşind din spaţiul capitalismului liberal global şi organizând „spaţiile mari” în conformitate cu particularităţile civilizaţionale (încă în baza relaţiilor de piaţă), ulterior civilizaţiile vor putea să-şi organizeze de sine stătător modelul economic, în funcţie de tradiţiile lor cultural-istorice. În cadrul civilizaţiei islamice, probabil, e nevoie să se instituie un moratoriu asupra procentului bancar. În cadrul altor civilizaţii sunt posibile apelurile la practicile socialiste de redistribuire a produsului suplimentar după o schemă sau alta (prin intermediul sistemului de impozitare, potrivit teoriei economistului francez Sismondi, sau prin intermediul altor instrumente, până la introducerea economiei planificate şi a metodelor dirijiste).

Pluralismul economic al civilizaţiilor urmează a fi constituit în mod etapizat, fără niciun fel de prescripţii de ordin universalist. Societăţi diferite pot crea modele economice diferite, atât de piaţă, cât şi mixte sau planificate, atât în baza practicilor economice ale societăţii tradiţionale, cât şi în temeiul unor tehnologii postindustriale noi. Important e să fie distrus dogmatismul liberal, hegemonia ortodoxiei capitaliste şi să fie surpată funcţia globală a „Nordului bogat” în calitatea lui de principal beneficiar în diviziunea planetară a muncii. Diviziunea muncii trebuie să se desfăşoare doar în interiorul „spaţiilor mari”; în caz contrar, civilizaţiile se vor pomeni a fi dependente una de alta, ceea ce poate produce noi hegemonii.

 

Mijloacele de informare în masă

În actuala structură a relaţiilor internaţionale, mijloacele de informare în masă joacă un rol esenţial. Ele creează un mediu informaţional planetar unic, ce exercită o influenţă crescândă asupra proceselor internaţionale. Mijloacele de informare în masă devin globale, contribuind prin intermediul resurselor media la procesele globalizării (în favoarea intereselor Occidentului). Media globale constituie instrumentul de bază al Occidentului de formare a opiniei publice, fiind, în esenţă, un instrument al exercitării unei conduceri globale. În vederea edificării unei lumi multipolare, este necesar să înceapă o luptă frontală cu structurile media globaliste.

Într-o societate tradiţională, rolul mass-media este unul destul de limitat. Creşterea influenţei acesteia este direct legată de Modernitate, democraţia burgheză şi societatea civilă. Mass-media reprezintă un element constitutiv al democraţiei şi pretind să reprezinte o dimensiune suplimentară, intermediară între putere şi societate, elită şi societate. În spaţiul mediacraţiei se formează un nou model al eşantionului normativ, ce influenţează masele ca un ordin voalat, ce instituie o anume ontologie a societăţii democratice (cea despre ce vorbeşte mass-media, există; ceea despre ce mass-media evită să vorbească, nu există). Iar pentru putere, mass-media substituie opinia publică, adică reprezintă un surogat al masei. Astfel, în teorie spaţiul mass-media trebuie să elimine tensiunea între „vârfurile” şi „baza” societăţii, deplasând relaţiile lor ierarhice în dimensiunea orizontală a ecranelor TV (a paginii de ziar, a calculatorului, a telefonului mobil etc.). Spaţiul media constituie un simulacru dublu: simulacrul puterii şi simulacrul societăţii7.

Globalizarea extinde acest principiu asupra întregii umanităţi, transformând-o într-un simulacru global. În mass-media găsim proiectată pe suprafaţa plată realitatea guvernului mondial şi realitatea societăţii planetare, prezentate printr-o proiecţie analogică (doar că de jos). Asta creează o lume virtuală aparte, care întruchipează constructul hegemonic global, proiectat de către capital şi Occident. Independenţa mass-media faţă de statele naţionale îl transformă într-o zonă privilegiată a structurilor postmoderniste disipative. Iată de ce în acest domeniu trecerea de la Modernitate la Postmodernitate este cea mai vizibilă, iar virtualul substituie realul cât se poate de palpabil.

În civilizaţiile nonoccidentale, structurile media globale creează modele pentru mass-media naţionale, ajustându-le la proiectul virtual general. Şi pe măsură ce rolul mass-media creşte, structurile societăţii tradiţionale se pomenesc fie într-o zonă oarbă, fie sunt supuse unor atacuri metodice şi sistematice, orientate spre slăbirea şi dizolvarea lor.

Structurile mass-media sunt burgheze prin însăşi natura lor şi poartă pecetea culturii occidentale. Iată de ce în vederea edificării lumii multipolare este necesar să fie revăzut rolul lor în societate. În acest sens putem evidenţia două etape.

Prima etapă constă în crearea reţelei de instituţii media civilizaţionale, care ar servi drept purtătoare de cuvânt ale proceselor integraţioniste şi ar contribui la fortificarea identităţii civilizaţionale. În acest caz, mass-media civilizaţionale ar putea surpa monopolul celor globale (supuse intereselor Occidentului) şi crea premise pentru consolidarea grupurilor socioculturale în jurul axei civilizaţiei comune.

Cea de-a doua etapă va consta în readucerea mass-media în contextul structurilor acelei societăţi, care va fi edificată pe bază civilizaţională, luându-se în considerare codul cultural specific al acesteia. Nu putem exclude nici faptul că, în anumite civilizaţii, mass-media poate fi în general anihilată ca fenomen, deoarece nu vor mai rămâne norme universale în această chestiune, iar alegerea modului de organizare a relaţiilor între putere şi societate, elite şi mase, va avea loc în temeiul unor căutări civilizaţionale libere. Unele civilizaţii ar putea păstra acest spaţiu al „simulacrului democratic” şi a dublurii virtuale a realităţii, dar tot atât de posibil e ca altele să renunţe la el.

Din cartea lui Aleksandr Dughin „Teoria lumii multipolare”, în traducerea lui Iurie Roşca

____________________
1 Дугин А. Этносоциология. М.: Академический проект, 2011.

2 Rene Guenon. Orient şi Occident; Marea triadă.

3 Rene Guenon, Criza lumii moderne. Bucureşti, ed. Humanitas, 2008.

4 Domnia cantităţii şi semnele vremurilor. Bucureşti, ed. Humanitas, 1995.

5 Дугин А. Конец экономики. СПб: Амфора, 2009.

6 Wallerstein I. Decline of American Power: The U.S. in a Chaotic World. NY: New Press, 2003.

7 Vezi: Дугин А. Поп-культура и знаки времени. СПб: Амфора, 2005.

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LA CRISI RUSSO-UCRAINA. VINCENZO MUNGO (RADIO RAI ESTERI) INTERVISTA STEFANO VERNOLE (VICEDIRETTORE DI EURASIA)

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Intervista di Vincenzo Mungo (Radio RAI esteri) a Stefano Vernole, Vicedirettore di “Eurasia”

D. Mungo: Ritiene che gli Accordi di Ginevra raggiunti tra Occidente e Federazione Russa siano provvisori o possano “tenere”?

R. Vernole: Ritengo che l’azione russa in Crimea, logica conseguenza del colpo di Stato favorito dall’Occidente a Kiev, sia stata solo una mossa del Cremlino per poi trattare con Stati Uniti ed Unione Europea da una posizione di forza. L’accordo raggiunto a Ginevra, peraltro maldigerito dalla popolazione russofona dell’Ucraina sud-orientale, è soltanto provvisorio, si aprirà ora una fase in cui la Russia dovrà decidere se accettare il ruolo minore di potenza regionale assegnatole dall’Occidente o rilanciare la sua tradizionale aspirazione geopolitica per tornare ad essere una grande potenza in alleanza con i Paesi del BRICS.

D. Mungo: Qualche crepa sembra affiorare anche nella posizione occidentale. Crede che l’accordo tra Stati Uniti ed Unione Europea sulla crisi ucraina reggerà?

R. Vernole: E’ evidente che gli strategici e sinergici rapporti economici russo-europei siano stati incrinati dalla crisi russo-ucraina, così come voleva Washington. Ma è ovvio che forze economiche e politiche importanti, soprattutto in Germania, spingono per riappacificarsi subito con la Federazione Russa. Come auspicato dal Presidente Putin, toccherà proprio all’Italia – che guiderà il prossimo semestre di Presidenza dell’Unione Europea – svolgere un ruolo diplomatico determinante per riavvicinare Russia ed Europa.

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L’EUROPA NELLE SPIRE DI NYLONKONG

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La piccola Europa, ancor più piccola nella sua versione d’Occidente, assiste ora distratta, ora semplice spettatrice impotente al sorgere possente del Nuovo Medioevo preconizzato nel lontano 1923 dal filosofo russo Nikolaj Aleksandrovič Berdjaev. Un evo frenetico, in cui “tutti gli aspetti della vita andranno a collocarsi sotto il segno della lotta religiosa ed esprimeranno principi religiosi estremi”, come ebbe a scrivere.
Tutto ciò contemplando, affascinata e ormai sedotta, l’Europa d’Occidente non riesce a riconoscere il “principio religioso estremo” che anima l’intero discorso economico contemporaneo, nella sua declinazione – sostanzialmente totalitaria – che ha preso il nome di capitalismo. Tantomeno riesce a individuare nel suo dipanarsi la fisionomia dell’Impero di questo Medioevo. Discetta al contrario di astrazioni giuridiche e principi altrettanto astratti che però hanno un concretissimo costo che le esauste casse pubbliche non possono più sopportare.
Eppure basterebbe alzare lo sguardo, oppure scrutare la profondità degli oceani.
Sopra le nostre teste di europei stanchi e vecchi viaggiano ogni giorno oltre 12 trilioni di dollari di investimenti di portafoglio dell’Impero, ossia le armate della contemporanea forma del dominio, che le capitali imperiali amministrano con cerimoniosa compostezza, garantendosi con tale sfoggio di potenza rispetto reverente e timoroso.
Sotto i nostri piedi intanto decine di migliaia di chilometri di cavi sottomarini, gestiti e posseduti da sconosciute compagnie di telecomunicazioni, intrecciano i binari lungo i quali i treni carichi d’oro dell’Impero viaggiano alla velocità del pensiero: smaterializzati.
Le capitali dell’Impero, dunque. Una a Occidente e una a Oriente, come all’epoca romana.
A Occidente New York, ovviamente, con la sua succursale europea di Londra. Mentre a Oriente, chi meglio di Hong Kong? La nuova Costantinopoli cinese, già provincia dell’ex impero britannico.
Se uniamo le tre capitali arriviamo a conoscere la vera capitale dell’impero: Nylonkong.
Tale fortunata riduzione giornalista si deve a “Time”, che nel 2008 notò il viluppo di legami, culturali e storici prima ancora che finanziari, che legano le tre capitali dell’Impero in una sola. Città sicuramente virtuale, nel senso che oggi la tecnologia dà a questa parola, e quindi tutt’altro che immaginaria. Al contrario: terribilmente concreta. Con la sua teoria di grattacieli dorati e di vicoli maleodoranti miseria, di Pil pro capite fra i più elevati al mondo grazie al settore finanziario, la città virtuale appartiene a una geografia che poco o nulla ha a che vedere con quella del planisfero, ma semmai con quella del potere.
L’Europa, divisa nelle due anime d’Oriente e d’Occidente, è terra di passaggio e di attraversamento delle correnti imperiali e quindi non vi resiste. Troppo forte è la seduzione religiosa della ricchezza, che ha fatto strame della natura europea, che fu spirituale. Ma ancor più forte è l’educazione sentimentale che gli Stati Uniti hanno scritto e narrato al resto del mondo, celando il loro costante ricorrere a un’economia di guerra col travestimento del diritto alla felicità.
Tale narrazione, che è il vero collante dell’Impero, e della sua terra di mezzo – l’Europa – omette di approfondire la sua costituente, perdendosi infine nella notte dei tempi l’origine dell’agire economico contemporaneo, perciò ignoto a moltissimi, se non a tutti.
O peggio: tutti conoscono il New Deal di Roosevelt, ma pochi ricordano più dell’aneddotica. Il famoso scavar le buche per riempirle, volgarizzazione della spesa pubblica in deficit per creare occupazione che ha segnato la storia economica degli ultimi 80 anni, al lordo della sue semplificazioni. Concetto facile, che tutti potevano capire e i politici amministrare, e quindi sommamente retorico.
Quel che si dovrebbe sapere, o ricordare, del New Deal, tuttavia è altro: che fu economia di guerra, appunto, e che non è mai terminato.
Molti si stupiranno nello scoprire che pressoché tutto ciò di cui parliamo, quando parliamo di economia, è invenzione angloamericana.
Il Pil, ad esempio, quel Prodotto interno lordo che abbiamo messo a denominatore comune di ogni nostra fortuna (o disgrazia). Inventato negli anni ’30 da Kuznets, un oggi dimenticato economista ebreo russo emigrato in giovane età negli Stati Uniti e poi reclutato dal dipartimento di commercio, alla disperata ricerca di un indicatore onnicomprensivo che sostanziasse gli sforzi di Roosevelt in visibili effetti delle sue politiche keynesiane. E quindi inserire la spesa pubblica nel conteggio del prodotto, che fu la trovata geniale che disegnò le sorti dell’economia a venire.
E più tardi, il Pil, adottato da economisti inglesi, ormai nel dopoguerra, e da lì fatalmente, in tutti i manuali di statistica economica che le organizzazioni internazionali hanno imposto agli stati, peraltro ben lieti di adottarle.
Oppure: lo shadow banking: quanto se ne parla oggi, come se fosse l’ennesima deriva della creatività distruttrice dei nostri banchieri. Anche qui: una semplice ricognizione nella storia basterebbe a scoprire che anche questa, come il Pil, è uno degli stratagemmi meglio riusciti del New Deal per creare un mercato che ancora non c’era negli Usa: quello immobiliare. Dare credito alle famiglie americane per inseguire il sogno americano, che come ricorda Frank Capra, prevede anche una piccola ma confortevole casa di proprietà. Erano gli anni Trenta, negli Usa, e già andava forte il Monopoli, gioco da tavolo che addestrerà milioni di cercatori d’oro alla ricerca della fortuna nell’uso sapiente del mattone e della rendita.
In tal senso creare strumenti di cartolarizzazione del credito, quelli che i tecnicismi oggi chiamano MBS o ABS, con la garanzia di un’agenzia pubblica (Fannie Mae o Freddie Mac) e poi fare circolare questa carta scambiandola con mattone.
Tutto ciò che nel 2008 ha condotto alla crisi dei subprime affonda le sue radici in quegli anni. Che certo non sono trascorsi invano. Nel frattempo questa finanza è diventata patrimonio comune. Lo shadow banking, che di tali pratiche si nutre, ormai ha trovato casa pure in Cina, e segnatamente a Hong Kong, dove si stima alligni almeno il 20% del settore bancario ombra cinese, preoccupando non poco il Fondo Monetario internazionale, che ha dedicato alla questione anche un pregevole capitolo nel suo ultimo rapporto sulla stabilità finanziaria globale.
Non a caso. L’ombra delle banche cinesi, stanziate nella Costantinopoli d’Oriente, è un preoccupante veicolo di potenziale infezione per il corpo ancora convalescente del sistema finanziario internazionale.
Ma più di ogni altra cosa, l’egemonia americana trova nella sua Banca centrale lo strumento principe. La cornucopia alla quale attingono senza sosta gli oltre 8.000 miliardi di investimenti di portafoglio che il Ragno americano tesse con prodiga generosità alle sue province. Miliardi che erano poco più di 2.000 nel 2001. La stessa Fed che nel 1917, quando l’America decise la sua entrata in guerra, ideò, creandolo, il mercato dei repo, che oggi è lo strumento principe della politica monetaria di tutte le banche centrali.
Ma moltiplicare la ricchezza finanziaria per quattro volte in un decennio, senza un corrispondente aumento del prodotto, è stato il capolavoro recente della capitale occidentale dell’Impero. Lo strumento attraverso il quale si assicura fedeltà e rispetto mutuando i cugini inglesi, che hanno alle spalle una robusta tradizione di finanza imperiale fondata prima sulle rapine dei corsari e poi sulle rendite della City. E ormai lo fanno anche i cinesi, che saranno pure comunisti, ma hanno interiorizzato la lezione principale dell’agire contemporaneo: la potenza dell’economia. Innanzitutto quale veicolo per la conquista della terra proibita: quella dell’immaginazione.
La forza di Nylonkong è la seduzione, d’altronde. Non la paura della forza, ma il desiderio della debolezza. L’esser ignavi ricettori di stimoli indotti dai potenti mercati, grazie allo strumento della pubblicità, e quindi monadi sterili nell’utero confortevole della rete. Saziando ogni appetito, con la stimolazione parossistica del desiderio, Nylonkong onnubila le coscienze e conquista il dominio, rimanendo persino invisibile. Non servono armate o gendarmi. Basta erogare denaro. E a questa pratica il fiat money della banca centrale giova egregiamente.
Cosa può l’Europa di fronte a questo spiegamento di denaro? Poco o nulla. Le sue popolazioni, cresciute a pane e diritti, faranno volentieri a meno dei secondi per garantirsi il primo. Senza che nessuno, peraltro, abbia spirito a sufficienza per rifiutare la promessa di felicità in terra, che l’Impero propina ad ogni seguace, in barba ad ogni autentica economia, che dovrebbe esser sobria e consapevole della finitezza delle risorse, a cominciare da quella più preziosa: il tempo.
Rimangono alcune battaglie di retrovia, confinate però in un sapere specialistico assai astruso e lontano dai cuori delle popolazioni.
Il luogo di questa debole forma di resistenza, per uno strano accanirsi della storia, è ancora una volta la Germania. La banca centrale tedesca sta conducendo una battaglia solitaria per affermare nella coscienza corrotta dei finanzieri di professione un principio ormai dimenticato: quello della responsabilità.
Un esempio: la battaglia per il bail in, ossia la fine della socializzazione delle perdite finanziarie e della privatizzazione dei guadagni, che così tante fortune di carta ha generato negli ultimi decenni è una di queste. I banchieri tedeschi dicono, e ci ricordano, che bisogna essere responsabili delle nostre azioni. E che quindi sia giusto che a pagare il fallimento di una banca non siano gli stati, ossia tutti i cittadini, ma chi quella banca la possiede o l’ha finanziata.
I malevoli osservano che la battaglia tedesca nasconde personalissimi interessi di bottega, e forse è così. E d’altronde altri atti della Germania, che non sfugge alla tela del ragno americano essendo a sua volta destinataria di centinaia di miliardi l’anno di investimenti di portafoglio in dollari, non testimoniano in alcun modo che tali affermazioni di responsabilità sostanzino il tentativo di affermare una diversa Weltanschauung. Piuttosto un timido tentativo di frenare la corsa dell’Impero al solo fine di farlo durare di più. Una raffinata forma di collaborazionismo.
Se servissero esempi, basti notare l’acquiescenza delle élites tedesche al progetto di area di scambio con gli Usa. Oppure la costante opera di seduzione verso la Cina, ossia il lato orientale dell’Impero, essendo fra le altre cose divenuta Francoforte la seconda piazza dopo Londra dove circolano gi ambiti renminbi.
La Germania, perciò, poco può o vuole fare.
Quale sarà, dunque, l’altro “principio religioso estremo”, per concludere con le parole profetiche di Berdjaev che andrà a contrapporsi a quello di Nylonkong?
Nessuno conosce la risposta, ma si può tentare una visione.
Il denaro, con la sua ansia di calcolo a interesse composto, parla esclusivamente alla testa. A sentire gli antichi rimangono altri due luoghi, nei quali si annida la vita: il cuore e lo stomaco.
Non abbiamo molta scelta quindi.
L’altro principio religioso estremo sarà l’amore. Quindi una forma di economia cooperativa che riconduca il discorso economico alle sue origini, anteriori a quelle che Polanyi chiamò la Grande Trasformazione.
O la fame.
Ossia la guerra.

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ALEKSANDR DUGHIN: TEORIA LUMII MULTIPOLARE (10)

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Partea 2. GEOPOLITICA LUMII MULTIPOLARE

Capitolul 1.

Multipolaritatea ca proiect deschis

Multipolaritatea şi „civilizaţia Uscatului” (Land Power)

În acest compartiment ne vom referi la globalizare dintr-o perspectivă imposibil de adoptat din interiorul „civilizaţiei Mării”, adică din interiorul a ceea ce reprezintă nominal „lumea globală”. O astfel de optică nu este luată în seamă nici în cazul antiglobalismului, nici în cel al alterglobalismului, deoarece el renunţă la cele mai profunde baze filozofice şi ideologice ale eurocentrismului.

O optică de acest fel respinge credinţa:

· în universalitatea valorilor occidentale, în faptul că societăţile occidentale au parcurs de-a lungul istoriei lor singura cale posibilă, pe care urmează să o parcurgă toate celelalte ţări;

· în progresul văzut ca desfăşurare indiscutabilă a dezvoltării istorice şi sociale;

· în faptul că dezvoltarea tehnică, economică şi materială nelimitată constituie singurul răspuns la cele mai stringente necesităţi ale întregii omeniri;

· în faptul că oamenii din toate culturile, religiile, civilizaţiile şi etniile sunt, în principiu, la fel cu cei din Occident şi se conduc de aceleaşi motivaţii antropologice;

· în superioritatea indiscutabilă a capitalismului în raport cu celelalte sisteme social-politice;

· în lipsa de alternativă pentru economia de piaţă;

· în faptul că democraţia liberală reprezintă singura formă acceptabilă de organizare politică a societăţii;

· în libertatea individuală şi identitatea individuală ca valoare supremă a existenţei umane;

· în liberalism ca ideologie inevitabilă din punct de vedere istoric, prioritară şi optimă.

Altfel zis, ne deplasăm pe poziţiile „civilizaţiei Uscatului” şi examinăm momentul actual al istoriei mondiale din punctul ei de vedere sau din perspectivă „telurocratică”, văzut doar ca episod al „marelui război al continentelor”, nu ca încheiere a acestuia.

Desigur, este greu să conteşti faptul că momentul actual al dezvoltării istorice demonstrează un şir de trăsături unice, care, dacă există dorinţă, pot fi interpretate ca o victorie a Mării asupra Uscatului, a Cartaginei asupra Romei, a Leviatanului asupra Behemotului. Într-adevăr, niciodată în istorie „civilizaţia Mării” n-a mai atins succese atât de mari şi nu şi-a mai extins forţa şi influenţa propriei paradigme la o astfel de scară. Bineînţeles, „geopolitica Uscatului” recunoaşte acest fapt şi urmările pe care le comportă. Însă ea realizează în mod clar faptul că globalizarea poate fi interpretată şi altfel, şi anume ca o serie de victorii în lupte şi confruntări, însă nu ca o biruinţă finală în acest război.

Aici e necesară o analogie istorică: atunci când în 1941 trupele germane se apropiau de Moscova, se putea crede că totul este pierdut şi sfârşitul URSS este prestabilit. Propaganda nazistă comenta anume astfel mersul războiului: pe teritoriile ocupate este creată o „nouă ordine”, funcţionează organe ale puterii, sunt create structuri economice şi politice, este organizată viaţa socială. Însă poporul sovietic a continuat să reziste cu îndârjire, atât pe toate fronturile, cât şi în spatele frontului inamic, înaintând în mod consecvent spre scopul şi victoria sa.

În confruntarea geopolitică dintre Mare şi Uscat, la ora actuală este anume un astfel de moment. În interiorul „civilizaţiei Mării”, politica informaţională este construită astfel încât să nu apară nicio îndoială că globalismul este un fapt împlinit, iar societatea globală, în linii mari, s-a constituit că de acum încolo toate obstacolele poartă doar un caracter tehnic. Însă, fiind privite din perspectiva anumitor poziţii conceptuale, filozofice, sociologice şi geopolitice, toate acestea pot fi contestate, fiind propusă o viziune cu totul diferită asupra acestei situaţii. Totul ţine de interpretare. Fără o interpretare, faptele istorice în sine nu au niciun sens. În geopolitică, lucrurile stau la fel: orice stare de lucruri din domeniul geopoliticii are sens doar în funcţie de o interpretare sau alta. La ora actuală, globalismul este interpretat aproape exclusiv într-o cheie atlantistă. În felul acesta, el este investit cu un sens „maritim”. O privire de pe poziţia Uscatului schimbă nu starea de lucruri, ci sensul ei. Iar asta deseori are o importanţă decisivă.

Vom prezenta în continuare o privire asupra globalizării din unghiul de vedere al Uscatului, geopolitic, sociologic, filozofic şi strategic.

 

Temeiurile pentru existenţa unei „geopolitici a Uscatului” într-o lume globală

Cum am putea fundamenta însăşi posibilitatea unei optici a Uscatului asupra globalizării, în condiţiile în care, aşa cum am arătat, structura lumii globale presupune marginalizarea şi fragmentarea Uscatului?

Există câteva temeiuri pentru o astfel de abordare.

Spiritul uman (conştiinţa, voinţa, credinţa) este mereu în stare să-şi formuleze propria atitudine faţă de orice fenomen existent. Şi chiar dacă acest fenomen pare a fi ireversibil, atotcuprinzător, „obiectiv”, el poate fi acceptat sau respins, justificat sau condamnat. Anume în asta constă demnitatea supremă a omului şi deosebirea lui faţă de speciile animale. Şi dacă omul respinge şi condamnă ceva anume, el este în drept să elaboreze strategii de depăşire în orice condiţii şi stări, chiar şi în cele mai grele şi insurmontabile. Ofensiva societăţii globale poate fi acceptată şi aprobată, dar poate fi şi respinsă, şi condamnată. În primul caz, noi plutim în voia valurilor istoriei, în cel de-al doilea caz, căutăm puncte de sprijin pentru a opri acest proces. Istoria este făcută de oameni, iar aici un rol central îi revine spiritului. Prin urmare, există şansa creării unei teorii, radical opuse acelor viziuni, care sunt bazate pe „civilizaţia Mării” şi acceptă paradigmele de bază ale opticii occidentale asupra lucrurilor, mersului istoriei, logicii succesiunii sistemelor social-politice.

Metoda geopolitică permite interpretarea globalizării ca pe un proces subiectiv, legat de succesul uneia dintre cele două forţe globale. Oricât de marginalizat şi fragmentat ar fi Uscatul, el posedă temeiuri istorice solide, tradiţii, experienţă, premise sociologice şi civilizaţionale. Geopolitica Uscatului nu este creată pe un teren viran: ea reprezintă tradiţie, geografie şi tendinţe strategice. Tocmai din acest motiv, chiar şi la nivel teoretic aprecierea globalizării din perspectiva „geopoliticii Uscatului” este absolut legitimă.

La fel cum în centrul globalizării se află „subiectul” ei (mondialismul şi structurile lui), civilizaţia Uscatului îşi are propria întruchipare a subiectului. În pofida dimensiunilor gigantice şi formele impresionante ale polemicii istorice dintre civilizaţii, avem de a face, întâi de toate, cu confruntarea între minţi, idei, concepţii, teorii, şi doar după asta cu ciocnirea lucrurilor materiale, aparatelor, tehnologiilor, finanţelor, armamentului etc.

Procesul de desuveranizare a statelor naţionale încă n-a devenit unul ireversibil, iar elementele sistemului de la Westfalia încă se mai păstrează parţial. Prin urmare, un şir de state naţionale, în virtutea anumitor raţiuni, încă mai poate să mizeze pe promovarea unei strategii a Uscatului, adică poate să respingă în totalitate sau parţial globalizarea şi paradigma „civilizaţiei Mării”. Un exemplu în acest sens este China, care practică un echilibru între globalizare şi propria identitate terestră, urmărind cu stricteţe păstrarea unei balanţe generale, împrumutând din strategiile globale doar ceea ce întăreşte China în calitatea ei de formaţiune geopolitică suverană. Acelaşi lucru s-ar putea spune şi despre statele pe care SUA le-au trecut în categoria „axei răului” (Iran, Cuba, Coreea de Nord, Venezuela, Siria etc.). Desigur, riscul unei intervenţii directe a SUA atârnă ca sabia lui Damocles deasupra acestor ţări (după modelul Irakului sau Afganistanului), ele fiind supuse din interior unor subtile atacuri de reţea. Însă în momentul de faţă, suveranitatea lor se păstrează, ceea ce le transformă în zone privilegiate pentru dezvoltarea civilizaţiei Uscatului. Aceleiaşi categorii i-am putea atribui şi o serie de ţări oscilante, cum ar fi India, Turcia etc., care, fiind atrase în mod substanţial în orbita globalizării, îşi păstrează trăsăturile sociologice originale, care intră în contradicţie cu postulatele oficiale ale regimurilor guvernante. O astfel de situaţie le este proprie multor societăţi asiatice, latino-americane şi africane.

Şi, în fine, aspectul cel mai important – starea actuală a Heartlandului. Aşa cum cunoaştem, anume de el depinde dominaţia asupra lumii, realitatea sau efemeritatea globalizării unipolare. În anii 1980-90, Heartlandul şi-a redus în mod substanţial zona sa de influenţă. Din aceasta s-au desprins succesiv două centuri geopolitice, Europa de Est (ţările ce au făcut parte din „lagărul socialist”, „Tratatul de la Varşovia” CAER etc.) şi republicile unionale ale URSS. Către mijlocul anilor 1990, în Cecenia s-a declanşat testarea sângeroasă a posibilităţii de a continua divizarea Rusiei în „republici naţionale”. Această fragmentare a Heartlandului, până la crearea unui mozaic de state-marionetă în locul Rusiei, ar fi trebuit să se constituie într-un acord final al construcţiei lumii globale şi al „sfârşitului istoriei”, după care a mai vorbi despre Uscat şi despre „geopolitica Uscatului” ar fi fost mult mai dificil. Heartland joacă un rol central în posibila consolidare strategică a întregii Eurasii, şi, prin urmare, a „civilizaţiei Uscatului”. Dacă procesele ce aveau loc în Rusia în anii 1990 şi-ar fi urmat cursul, iar dezmembrarea ei ar fi continuat, ar fi fost mult mai dificil să se pună la îndoială globalizarea. Însă către sfârşitul anilor nouăzeci – începutul anilor 2000 s-a produs o schimbare bruscă a situaţiei, iar dezintegrarea a fost stopată; autorităţile federale au restabilit controlul asupra Ceceniei rebele. V. Putin a efectuat o reformă a subiecţilor federaţiei (eliminarea articolului despre „suveranitate”, numirea guvernatorilor etc.), care a fortificat verticala puterii în întreaga Rusie. Procesele integraţioniste în cadrul CSI au început să ia turaţii. În august 2008, pe parcursul conflictului militar de cinci zile cu Georgia, Rusia a stabilit un control strategic asupra unor teritorii ce se aflau în afara graniţelor ei (Ostia de Sud şi Abhazia) şi a recunoscut independenţa lor, în pofida unei susţineri masive a Georgiei din partea SUA şi a ţărilor NATO şi a presiunilor din partea opiniei publice mondiale. În ansamblu, Rusia, ca Heartland, a stopat, începând cu anii 2000, procesele de dezintegrare, a fortificat sectorul energetic, a reglementat chestiunile de livrare a resurselor energetice peste hotare, a renunţat la practica dezarmării unilaterale, păstrându-şi potenţialul nuclear. Concomitent, influenţa reţelei agenturii geopolitice a atlantismului şi a mondialismului asupra puterii politice şi a adoptării deciziilor de ordin strategic a slăbit în mod considerabil, iar fortificarea suveranităţii a fost înţeleasă ca sarcină de prim ordin, integrarea Rusiei într-o serie de structuri globaliste, ce ameninţau independenţa ei, a fost stopată. Într-un cuvânt, Heartland continuă a fi temelia Eurasiei, „nucleul” ei (core), unul slăbit, ce a suferit pierderi majore, şi totuşi unul existent, independent, suveran, capabil să-şi promoveze politica, dacă nu la scară globală, atunci cel puţin la cea regională. Pe parcursul istoriei sale, Rusia căzuse de câteva ori şi mai jos: răzleţirea pe cnezate la începutul sec. XIII, timpurile tulburărilor, evenimentele din 1917-1918 ne prezintă Heartlandul într-o stare şi mai deplorabilă şi slăbită. Dar de fiecare dată, peste o perioadă anume, Rusia renăştea şi revenea pe orbita istoriei sale geopolitice. Am putea aprecia cu greu starea Rusiei de azi ca fiind una strălucită sau chiar satisfăcătoare din punct de vedere geopolitic (eurasianist). Important însă e faptul că Heartland există, el este relativ independent, iar prin urmare, dispunem de o bază teoretică şi practică pentru a reuni toate premisele pentru elaborarea unui răspuns din partea Uscatului în faţa fenomenului globalizării unipolare şi pentru a le transpune în practică.

Un astfel de răspuns al Uscatului la provocarea globalizării (în calitate de triumf al „civilizaţiei Mării”) este reprezentat de multipolaritate în calitatea ei de teorie, filozofie, strategie, politică şi practică.

 

Multipolaritatea ca proiect al ordinii mondiale din perspectiva Uscatului

Multipolaritatea reprezintă un rezumat al „geopoliticilor Uscatului” în condiţiile actuale de desfăşurare a proceselor globale.

Multipolaritatea se constituie într-o antiteză reală a unipolarităţii în toate manifestările acesteia: dură (imperialism, neoconi, dominaţia directă a SUA), blândă (multilateralitate), critică (alterglobalism, postmodernism, neomarxism).

Versiunea dură a unipolarităţii (imperialismul american radical) se întemeiază pe faptul că SUA se proclamă ca fiind ultimul bastion al ordinii mondiale, al prosperităţii, al confortului, al securităţii şi al dezvoltării, care e înconjurat de haosul unor societăţi subdezvoltate. Multipolaritatea afirmă o poziţie diametral opusă: SUA este unul dintre statele naţionale existente ale căror valori sunt îndoielnice (sau cel puţin relative), pretenţiile – disproporţionate, apetiturile – exagerate, metodele politicii externe – inacceptabile, iar mesianismul tehnologic este unul fatal pentru cultura şi ecologia întregii lumi. În acest sens, proiectul multipolar este o antiteză dură a SUA ca instanţă ce construieşte metodic lumea unipolară, fiind orientat în mod categoric spre neadmiterea, zădărnicirea şi prevenirea acestei construcţii.

Versiunea blândă a unipolarităţii se declară că ar acţiona nu doar în numele SUA, ci în numele „umanităţii”, înţelegându-se prin asta, în mod exclusiv, Occidentul şi acele societăţi care sunt de acord cu universalitatea valorilor occidentale. „Unipolaritatea blândă” îndeamnă să nu se recurgă la impuneri prin forţă, ci să se apeleze la metoda convingerii, să nu se uzeze constrângerile, ci să se explice avantajele pe care le vor obţine ţările în urma intrării în globalizare. Aici, în calitate de pol, apare nu doar un stat naţional (SUA), ci civilizaţia occidentală în ansamblu, în calitate de chintesenţă a întregii umanităţi.

O astfel de unipolaritate „multilaterală” este respinsă de către multipolaritate, care consideră că cultura şi valorile occidentale reprezintă doar unul dintre seturile valorice printre multe altele, o cultură printre alte culturi diverse, că culturile şi sistemele de valori create pe principii total diferite au tot dreptul la existenţă. Tocmai din aceste motive, Occidentul n-are niciun temei să insiste asupra caracterului universal al democraţiei, al drepturilor omului, pieţei, individualismului, libertăţii personale, secularismului etc. şi să edifice în baza acestor norme societatea globală.

Împotriva alterglobalismului şi antiglobalismului postmodernist, multipolaritatea formulează teza potrivit căreia faza capitalistă de dezvoltare şi crearea unui capitalism la scară mondială nu reprezintă o fază obligatorie a dezvoltării societăţii. O astfel de afirmaţie în sine reprezintă o samavolnicie şi o tendinţă de a impune unor societăţi diverse un singur scenariu al istoriei. În acelaşi timp, amestecarea omenirii într-un singur proletariat mondial reprezintă nu o cale spre un viitor mai bun, ci un efect colateral şi absolut negativ al capitalismului global, care nu deschide nicio perspectivă nouă, ci conduce doar la degradarea culturilor, a societăţilor şi a tradiţiilor.

Multipolaritatea reprezintă o cu totul altă viziune asupra spaţiului terestru decât bipolaritatea.

Multipolaritatea este o privire normativă şi imperativă asupra situaţiei actuale din lume, din perspectiva Uscatului, şi se deosebeşte în mod substanţial de modelul ce predomina în sistemul Păcii de la Ialta şi al „războiului rece”.

Lumea bipolară s-a constituit pe principii ideologice, unde în calitate de poluri apăreau două ideologii, socialismul şi capitalismul. Socialismul ca ideologie nu punea la îndoială universalismul culturii occidentale şi reprezenta o tradiţie socioculturală şi politică, ce îşi avea rădăcinile în Iluminismul european. Într-un anumit sens, capitalismul şi socialismul concurau între ei ca două versiuni ale Iluminismului, două versiuni ale progresului, două versiuni ale universalismului, două versiuni ale gândirii social-politice occidentale.

Socialismul şi marxismul au rezonat cu anumiţi parametri ai „civilizaţiei Uscatului” şi tocmai de aceea au şi învins nu acolo unde presupunea Marx, ci tocmai acolo unde el însuşi excludea o astfel de posibilitate, într-o ţară agrară, cu un mod de organizare preponderent tradiţional al societăţii şi cu o structură imperială a spaţiului politic. Celălalt caz al victoriei socialismului, China, reprezenta, de asemenea, o societate agrară, tradiţională.

Multipolaritatea i se opune unipolarităţii nu de pe poziţiile unei ideologii care ar putea să pretindă a fi cel de-al doilea pol, ci de pe poziţia mai multor ideologii, mai multor culturi, viziuni asupra lumii şi religii, care (din motive de fiece dată diferite) nu am nimic în comun cu capitalismul liberal occidental. În condiţiile în care Marea are o singură expresie ideologică, în timp ce Uscatul nu dispune de aşa ceva, reprezentând câteva ansambluri de viziuni şi civilizaţionale diverse, multipolaritatea propune crearea frontului unic al Uscatului contra Mării.

Multipolaritatea diferă şi faţă de proiectul conservator de păstrare şi fortificare a statelor naţionale. Pe de o parte, statele naţionale din epocile colonială şi postcolonială reflectă în structurile lor concepţia occidentală a normelor de organizare politică (ce ignoră particularităţile religioase, sociale, etnice, culturale ale acestor societăţi), adică naţiunile însele sunt în parte produse ale globalizării. Iar pe de altă parte, din cele două sute cincizeci şi şase de ţări, care figurează oficial în lista ONU, doar o mică parte este în stare să-şi apere, în caz de necesitate, în mod independent suveranitatea, fără a se alia cu alte ţări. Adică, nu fiece stat existent în mod nominal poate fi considerat drept pol, deoarece în cazul majorităţii absolute a ţărilor, nivelul de libertate strategică este unul minuscul. Tocmai de aceea, multipolaritatea nu-şi propune să fortifice sistemul de la Westfalia, care mai există la modul inerţial la ora actuală.

Fiind un antipod al unipolarităţii, multipolaritatea nu îndeamnă nici spre revenirea la o lume bipolară pe baze ideologice, nici spre întărirea ordinii statelor naţionale, nici la simpla păstrare a statu quo-ului. Toate aceste strategii doar vor face jocul centrelor globalizării şi unipolarităţii, deoarece acestea dispun de un proiect, un plan, un scop şi o rută raţională de mişcare spre viitor, în timp ce toate scenariile enumerate mai sus, în cel mai bun caz, reprezintă nişte apeluri la încetinirea procesului globalizării, iar în cel mai rău (ca, de pildă, proiectul restabilirii bipolarităţii pe baze ideologice), arată ca nişte simple nostalgii sau fantezii iresponsabile.

Multipolaritatea este vectorul geopoliticii Uscatului, orientat spre viitor. El se întemeiază pe o paradigmă sociologică, a cărei consistenţă este demonstrată de trecut, ţine cont în mod realist de starea de lucruri ce s-a creat în lumea modernă, precum şi de tendinţele de bază şi liniile de forţă ale unor posibile transformări ale acesteia. Multipolaritatea se organizează ca un proiect, ca un plan al acelei ordini mondiale, care încă urmează să fie creată.

Din cartea lui Aleksandr DUGHIN „Teoria lumii multipolare”, în traducerea lui Iurie ROŞCA

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ALEKSANDR DUGHIN: TEORIA LUMII MULTIPOLARE (11)

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Partea 2. GEOPOLITICA LUMII MULTIPOLARE

Capitolul 1. Multipolaritatea ca proiect deschis
Urmare din numărul precedent

Multipolaritatea şi înţelegerea ei teoretică

Deşi în ultima vreme termenul „multipolaritate” este utilizat destul de frecvent în cadrul discuţiilor politice şi internaţionale, sensul ei este destul de diluat. Diverse cercuri politice şi analişti aparte îi atribuie sensuri diferite. Cauza acestei situaţii este clară: înşişi parametrii discursului politic şi ideologic normativ la ora actuală sunt conturaţi la nivel global de către SUA şi ţările occidentale, iar în baza acestor reguli se poate discuta orice, însă nu şi cele mai stringente şi dureroase probleme.

Ar fi fost logic să presupunem că teoria multipolarităţii se va constitui în acele ţări care îşi declară deschis orientarea spre o lume multipolară ca vector de bază a politicii lor externe (Rusia, China, India şi altele câteva). În plus, apelul la multipolaritate poate fi întâlnit şi în unele texte ale personalităţilor politice europene (de exemplu, ex-ministrul de Externe al Franţei, Hubert Verdine). Însă la ora actuală este puţin probabil să descoperim ceva mai mult decât materialele unor simpozioane şi conferinţe ce conţin formulări destul de vagi.

 

Multipolaritatea: geopolitică şi metaideologie

Să creionăm acum sursele teoretice în baza cărora trebuie să fie construită o teorie solidă a multipolarităţii.

În condiţiile actuale, temelia acestei teorii poate fi doar geopolitica. Nicio ideologie religioasă, economică, politică, socială, culturală nu este în stare să consolideze la ora actuală o masă critică de ţări şi societăţi, care ţin de „civilizaţia Uscatului”, într-un front planetar unic, necesar pentru crearea unei antiteze solide şi eficiente globalismului şi lumii unipolare. Anume în asta şi constă specificul momentului istoric („momentul unipolarităţii”): ideologia dominantă (liberalismul/postliberalismul global) nu are o opoziţie simetrică de acelaşi nivel. Iată de ce este necesar să se facă apel direct la geopolitică, adoptându-se principiul Uscatului (Land Power) în locul ideologiei de opoziţie. Aşa ceva este posibil doar în cazul în care vor fi conştientizate în întregime dimensiunile sociologice, filozofice şi civilizaţionale ale geopoliticii.

Pentru fundamentarea acestei afirmaţii ne va servi „civilizaţia Mării”. Am văzut că matricea acestei civilizaţii poate fi găsită nu doar în Modernitate, ci şi în imperiile talasocratice din vechime, ca, de exemplu, în Cartagina, Atena antică sau în republica veneţiană. În cadrul lumii moderne, atlantismul şi liberalismul capătă o superioritate totală asupra altor tendinţe nu de la bun început. Am putea urmări o anumită consecutivitate conceptuală: cum anume „civilizaţia Mării” (în calitate de categorie geopolitică) se mişcă prin istorie, printr-o serie de formaţiuni sociale, căpătând diverse forme, până când îşi găseşte expresia cea mai împlinită şi perfectă în ideea lumii globale, unde postulatele ei interne devin dominante la nivel planetar. Ideologia mondialismului contemporan reprezintă doar o formă istorică a unei paradigme geopolitice mult mai largi. Între această formă (posibil, cea mai evoluată) şi matricea ei geopolitică există o legătură directă.

În cazul „civilizaţiei Uscatului” nu există o simetrie analogică. Ideologia comunismului a avut doar o rezonanţă parţială (pe seama eroismului, colectivismului şi antiliberalismului) cu principiile societăţii „terestre”, şi doar în cazul URSS-ului eurasiatic şi, într-o măsură mai mică, al Chinei, deoarece alte aspecte ale acestei ideologii (progresismul, tehnica, materialismul) se înscriau nereuşit în structura valorilor „civilizaţiei Uscatului”. Iar astăzi comunismul nu poate să îndeplinească nici la nivel teoretic acea funcţie ideologică pe care o exercita în sec. XX la scară planetară. Din punct de vedere teoretic, Uscatul este efectiv spart în fragmente şi este prea puţin probabil să ne aşteptăm ca în timpul apropiat să apară o nouă ideologie, ce ar fi în stare să reziste în mod simetric globalismului liberal.

Dar însuşi principiul geopolitic al Uscatului nu pierde nimic din structura lui paradigmatică. Anume acesta trebuie luat drept bază pentru construcţia teoriei multipolarităţii. Această teorie trebuie să apeleze direct la geopolitică, să extragă din ea principii, idei, metode şi termeni. Asta va permite să fie privit cu totul altfel şi spectrul larg al ideologiilor, religiilor, culturilor şi curentelor sociale nonglobaliste şi antiglobaliste. Acestea nu trebuie să se transforme în mod obligatoriu în ceva unic şi sistematizat. Ele pot rămânea foarte bine locale sau regionale, dar să fie integrate într-un front comun al opoziţiei faţă de globalizare şi dominarea „civilizaţiei Occidentului” la un nivel metaideologic, la nivelul paradigmei „geopoliticii Uscatului”. Acest aspect al multitudinii ideologiilor stă la însăşi temelia termenului multipolaritate, şi nu doar în cadrul spaţiului strategic, ci şi în sfera ideologică, culturală, religioasă, socială şi economică.

Multipolaritatea nu este altceva decât extinderea „geopoliticii Uscatului” într-un mediu nou, marcat de ofensiva globalismului (atlantismului) la un nivel calitativ nou şi în proporţii calitativ noi. Multipolaritatea, pur şi simplu, nu poate avea alt sens.

 

Multipolaritatea şi neoeurasianismul

Cel mai apropiat de teoria multipolarităţii este neoeurasianismul. Această orientare îşi are rădăcinile în geopolitică şi operează cu precădere cu formula „Rusia-Eurasia” (ca Heartland), dar elaborează, în acelaşi timp, un spectru larg de curente filozofice, sociologice şi politologice, şi nu se limitează doar la geostrategie şi analiza aplicată.

Conţinutul termenului „neoeurasianism” poate fi ilustrat prin citarea unor fragmente din Manifestul „Mişcării Eurasianiste” Internaţionale, „Misiunea eurasianistă” . Autorii lui scot în evidenţă cinci niveluri ale neoeurasianismului, care permit ca acesta să fie tratat în mod diferit în funcţie de contextul concret.

 

Nivelul întâi: eurasianismul este o viziune asupra lumii

Potrivit autorilor Manifestului, termenul „eurasianism” se aplică faţă de o anumită viziune, o anume filozofie politică, ce îmbină de o manieră originală Tradiţia, Modernitatea şi chiar elementele Postmodernităţii. Filozofia eurasianismului porneşte de la prioritatea valorii societăţii tradiţionale, recunoaşte imperativul modernizării tehnice şi sociale (dar fără ruperea de rădăcinile culturale) şi tinde să-şi adapteze programul ideologic la situaţia societăţii postindustriale, informaţionale, numite „Postmodernitate”.

În cadrul Postmodernităţii este eliminată opoziţia între tradiţie şi modernitate. Însă postmodernismul de tip atlantist le egalează de pe poziţiile indiferenţei şi ale irosirii conţinutului. Postmodernitatea Eurasianistă, dimpotrivă, consideră posibilă o alianţă între tradiţie şi modernitate ca un impus constructiv, optimist şi energic, care dă un imbold creaţiei şi dezvoltării.

În filozofia eurasianistă, un loc legitim le revine realităţilor marginalizate de epoca Iluminismului: religia, imperiul, cultul, predania etc. Concomitent, din Modernitate este preluat saltul tehnologic, dezvoltarea economică, echitatea socială, eliberarea muncii etc. Contrariile sunt depăşite, contopindu-se într-o teorie unică, armonioasă şi originală, ce dă viaţă unor idei proaspete şi noi soluţii pentru problemele eterne ale umanităţii (…).

Filozofia eurasianismului este una deschisă, fiindu-i străină orice formă a dogmatismului. Ea se poate îmbogăţi cu cele mai diverse curente: istoria religiilor, descoperiri de ordin sociologic şi etnologic, geopolitica, economia, culturologia, cele mai diverse tipuri de cercetări strategice şi politologice etc. Mai mult decât atât, eurasianismul ca filozofie presupune o dezvoltare originală în fiecare context cultural şi lingvistic concret: eurasianismul ruşilor se va deosebi în mod inevitabil de eurasianismul francezilor sau al germanilor, eurasianismul turcilor – de eurasianismul iranienilor, eurasianismul arabilor – de cel al chinezilor etc. În acelaşi timp, liniile de forţă ale acestei filozofii se vor păstra neschimbate (…).

Principalele puncte de reper ale filozofiei eurasianiste ar fi următoarele:

• diferenţialismul, pluralismul sistemelor de valori împotriva dominaţiei obligatorii a unei anume ideologii (în cazul nostru, în primul rând al liberal-democraţiei americane);

• tradiţionalismul împotriva nimicirii culturilor, dogmelor şi riturilor societăţilor tradiţionale;

• „statul-lume”, „statul-continent” împotriva atât a statelor naţionale burgheze, cât şi a „guvernului mondial”;

• „drepturile popoarelor” contra atotputerniciei „miliardului de aur” şi hegemonismului neocolonialist al „Nordului bogat”;

• etnia ca valoare şi subiect al istoriei contra depersonalizării popoarelor şi înstrăinarea lor în cadrul unor construcţii social-politice artificiale;

• echitatea socială şi solidaritatea oamenilor muncii contra exploatării, logicii înavuţirii rapace şi înjosirea omului de către om.

 

Neoeurasianismul ca trend planetar

La cel de-al doilea nivel: neoeurasianismul este un trend planetar. Autorii proiectului explică:

Eurasianismul la nivelul unui trend planetar reprezintă un concept global, revoluţionar, civilizaţional, care, şlefuindu-se pe parcurs, este chemat să devină o nouă platformă de viziune pentru înţelegerea reciprocă şi colaborarea unui spectru larg de forţe, state, popoare, culturi şi confesiuni, ce resping globalizarea atlantistă.

E suficient să fie citite cu atenţie declaraţiile celor mai diverse forţe din întreaga lume – politicieni, filozofi, intelectuali – pentru a ne convinge că eurasianiştii constituie o majoritate absolută. Mentalitatea multor popoare, societăţi, confesiuni şi state, chiar dacă ele nu bănuiesc acest lucru, este una eurasianistă.

Eurasianismul însumează toate obstacolele naturale şi artificiale, obiective şi subiective în calea globalizării unipolare, ridicate de la simpla negare la un proiect pozitiv, la o alternativă creatoare. Atât timp cât aceste obstacole sunt răzleţite şi haotice, globaliştii le fac faţă fiecăruia în mod separat. Dar e suficient ca ele să fie integrate, să fie unite într-o viziune unică şi consecventă de anvergură planetară, şi atunci şansele de victorie ale eurasianismului din întreaga lume vor deveni deosebit de mari.

Neoeurasianismul ca proiect integraţionist
La următorul nivel, eurasianismul este tratat ca proiect al integrării strategice a continentului eurasiatic:

Noţiunea de „Lumea Veche”, care, de obicei, i se atribuie Europei, poate fi privită mult mai larg. Este vorba de un spaţiu multicivilizaţional gigantic, populat de către popoare, state, culturi, etnii şi confesiuni, legate între ele din punct de vedere istoric şi spaţial, de comunitatea destinului lor dialectic. Lumea Veche este produsul dezvoltării organice a istoriei omenirii.

Lumea Veche este contrapusă, de regulă, Lumii Noi, continentului american, descoperit de către europeni şi devenit o platformă pentru construcţia unei civilizaţii artificiale, în care s-au întruchipat proiectele europene ale Modernităţii, epocii Luminilor. (…)

În sec. XX, Europa şi-a conştientizat esenţa originală, înaintând treptat spre integrarea tuturor ţărilor europene într-o singură Uniune, capabilă să-i asigure acestui spaţiu în întregime suveranitatea, independenţa, securitatea şi libertatea.

Crearea Uniunii Europene a constituit un jalon major în cauza reîntoarcerii Europei în istorie. Acesta a fost un răspuns al Lumii Vechi la pretenţiile exagerate ale Lumii Noi. Dacă privim alianţa SUA şi a Europei Occidentale (cu dominarea Americii) ca pe un vector atlantist al dezvoltării europene, atunci integrarea însăşi a ţărilor europene cu predominarea ţărilor continentale (Franţa-Germania) poate fi considerată una de natură eurasianistă.

Acest lucru devine şi mai evident, dacă e să ţinem cont de teoriile potrivit cărora, sub aspect geopolitic, Europa se întinde de la Atlantic şi până la Ural (Ch. de Gaulle) sau până la Vladivostok. Altfel zis, nemărginitele spaţii ale Rusiei sunt incluse la fel de legitim în câmpul Lumii Vechi, ce urmează să se integreze.

(…) În acest context, eurasianismul poate fi definit ca un proiect de integrare strategică, geopolitică, economică a nordului continentului eurasiatic, înţeles ca leagăn al istoriei europene, ca matrice a popoarelor şi culturilor, strâns împletite între ele.

Iar întrucât însăşi Rusia (ca, de altfel, şi strămoşii multor europeni) este legată într-o măsură considerabilă cu lumea turcică, mongolă, cu popoarele caucaziene, prin Rusia şi, în paralel, prin Turcia, o Europă ce se integrează ca Lume Veche capătă pe deplin dimensiunea eurasiatică, de această dată nu doar în sens simbolic, ci şi în cel geografic. Aici am putea identifica în mod sinonimic eurasianismul cu continentalismul.

Aceste trei definiţii cele mai generale ale neoeurasianismului arată că aici avem de a face cu baza prealabilă pentru construirea teoriei multipolarităţii. Este vorba despre o optică terestră asupra celor mai acute provocări ale momentului actual şi o încercare de a le da un răspuns precis, care ţine cont de legităţile geopolitice, civilizaţionale, sociologice, istorice şi filozofice.

Din cartea lui Aleksandr DUGHIN „Teoria lumii multipolare”, în traducerea lui Iurie ROŞCA

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LEVIATANO – RASSEGNA DELLA STAMPA ATLANTICA (21 APRILE – 27 APRILE)

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Editoriali e saggi si concentrano questa settimana su tre interrogativi.

Il primo è di carattere militare, ovvero quale sia, in uno scenario di scontro militare, la capacità d’urto della NATO. La risposta non è molto incoraggiante date le forti tensioni fra i membri dell’Alleanza Atlantica. Da una parte quelli storici che prediligono mantenere rapporti economici stretti con la Russia (a cominciare dalla Germania); dall’altra, i partner orientali e baltici che non si sentono affatto rassicurati dalla NATO e dal suo modo, per troppi anni, soft, di rapportarsi alla Russia. Solo dopo i fatti occorsi in Georgia, i vertici militari atlantici hanno cominciato ad allertare quelli politici sulla necessità di rimpolpare il budget destinato alla difesa. La situazione però non sembra aver raggiunto ancora alcun punto di equilibrio, stante la riluttanza di molti governi ad impegnare una spesa superiore al 2% dell’intero budget.

Il secondo quesito attiene agli scenari territoriali possibili a prodursi in Ucraina. Nel primo, l’Est dell’Ucraina viene annesso alla Federazione Russa o, salvando in parte le apparenze, vengono a determinarsi regioni con una larghissima autonomia in grado di sviluppare autonomi rapporti con Mosca. A parte la Crimea (col 58%), le minoranze filorusse si concentrano massimamente nelle città e rappresentano un’aliquota fra il 22% ed il 38% della popolazione: da un punto di vista demografico, la maggioranza della popolazione è concentrata nelle campagne dove, al contrario, è forte il sentimento ucraino di appartenenza. La strategia intelligente della Russia è stata quella di aprire non solo a coloro che fossero russi di origine ma anche ai russofoni così da ampliare l’interesse russo fino ai confini di Moldavia e Romania. Il problema però è che i russi si basano su una rappresentazione geografica dell ’ Ucraina risalente al 2001, quando la russificazione continuava a dispiegare gli effetti dei decenni precedenti, mentre oggi però non è più così.
Il secondo scenario prevede la stessa frammentazione completa del paese (con la repubblica di Donetsk nell’Est; la Crimea, una Nuova Repubblica Russa nel Sud (Odessa, Mykolayiv, Kherson, e la metà occidentale di Dnipropetrovsk; la repubblica di Dnipropetrovsk-Slobdzhansk Republic nel Centro Nord con Kharkiv, Poltava, Chernihiv, Sumy, e le parti occidentali di Dnipropetrovsk, Cherkasy, e distretti kievani) ma con Kiev destinata a diventare la Berlino del XXI secolo divisa fra una parte russa ed una ucraina.

Il terzo scenario è la ricostituzione di una Nuova Russia risalente all’epoca di Caterina la Grande. La domanda è se Putin voglia veramente spingersi nei fatti, oltreché nelle parole, verso tale direzione.
Qui si entra nel terzo interrogativo, ovvero se Putin lanci questa idea di Novorossiya come provocazione o vero disegno geostrategico. Nel primo caso, saremmo di fronte ad un frammento di una complessa trattativa diplomatica che consenta – anche tenuto conto delle imminenti scadenze elettorali europee – di verificare quale rappresentanza politica potrà emergere a Bruxelles e a Kiev. Nel secondo caso, ovviamente, lo scenario, per quanto sopra illustrato per la parte militare, sarebbe ben più preoccupante
Al momento in cui stiamo scrivendo la rubrica, la tensione fra Kiev e Mosca sta salendo oltre i normali livelli di guardia. Il tentativo del governo ucraino di riprendere militarmente il controllo di Slovyansk e, in generale, dell’area orientale del paese, sta provocando le reazioni russe al confine con ammassamenti di truppe a cui fanno da controcanto dichiarazioni infuocate da parte di Putin e Lavrov

http://www.nytimes.com/2014/04/24/world/europe/eastern-europe-frets-about-natos-ability-to-curb-russia.html?_r=0

http://www.foreignaffairs.com/articles/141311/alina-polyakova/ukrainian-long-division

http://www.cfr.org/ukraine/ukraine-long-road-rupture/p32814?cid=rss-analysisbriefbackgroundersexp-is_ukraine_on_a_long_road_to_r-042214

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PRESENTAZIONE DI “EURASIA” 1/2014 A MILANO: “RIFONDARE L’UNIONE EUROPEA?”

IL LEVIATANO – RASSEGNA DELLA STAMPA ATLANTICA (28 APRILE – 4 MAGGIO)

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Un saggio di Walter Russell Mead a proposito del “ritorno della geopolitica” sul nuovo numero di “Foreign Affairs”.
Gli USA trovano fastidioso che la Russia rivendichi in modo così determinato la Crimea, che la Cina voglia mantenere un controllo così ferreo sulle proprie acque territoriali, che l’Iran intenda assumere un ruolo di guida nel Vicino Oriente. Essi vorrebbero dettare l’agenda geopolitica con temi quali la liberalizzazione dei commerci, la non proliferazione nucleare, i diritti umani, il cambiamento climatico, lo stato di diritto e così via. La situazione odierna sembra precipitare verso il brutale realismo dei secoli scorsi, piuttosto che evolversi verso strategie partecipate e condivise. La verità è che, contrariamente alle illusioni prodottesi agli inizi degli anni ’90, la fine della Guerra Fredda non ha decretato la vittoria di un ordine perpetuo bensì l’apertura di nuove faglie scosse da attori (Russia, Cina e Iran) che cercano un proprio spazio combattendo l’Ordine Occidentale non in quanto tale ma se ed in quanto ostacolo all’affermazione della loro realtà. Esaminati da vicino questi paesi tutto rappresentano fuorché un unitario e compatto asse del Male: Russia e Iran fanno leva sulle esportazioni rispettive di gas e petrolio e condividono un’aspettativa di prezzi alti; la Cina è il più grande paese consumatore ed al contrario necessita di prezzi bassi : ciò che lega questi paesi sarebbe dunque la volontà di rovesciare l’ordine esistente per riaffermare lo spazio geopolitico sovietico (la Russia), per assumere una leadership nell’Asia (la Cina) e scalzare la potenza saudita nel Medio oriente (l’Iran) . Gli USA sono l’ostacolo a questi loro disegni. Oggi l’attività diplomatica di questi paesi sembra aver segnato punti a loro favore (es. la Russia nel Medio Oriente) ma il paradosso è rappresentato dal fatto che il raggiungimento dei loro obiettivi porterebbe inevitabilmente a far riemergere, al loro interno, tutti quei problemi di ordine economico sociale che l’attuale fase sembra aver aiutato loro accantonare. D’altro canto, l’Amministrazione USA, succube di quella mentalità da “fine della Storia”, per usare l’espressione di Fukuyama, non appare in grado di rilanciare alcun disegno strategico valido sul piano geopolitico: ciò si combina con una pubblica opinione più ripiegata sui problemi interni (occupazione ed assistenza sanitaria) che su questioni relative ad un ordine internazionale percepito come fonte di problemi piuttosto che di benefici. Eppure, conclude l’autore, la Storia non è giunta al suo capolinea semmai al crepuscolo. Essa non si ridurrà mai ad una gestione routinaria affidata ad un esercito di burocrati e lobbisti capaci di garantire alle masse di consumare pacificamente i propri beni essenziali e, soprattutto, voluttuari che siano: già Hegel, nel 1806 di fronte all’avanzata trionfante delle armate napoleoniche scriveva della fine di un mondo che, con le armate rivoluzionarie francesi, non sarebbe stato più quello di prima, e a poco valsero i tentativi di Restaurazione per illudersi che nulla fosse cambiato.
Per quanto possano apparire all’Occidente rozzi e retrogradi, esistono paesi che hanno visioni e priorità diverse per le quali combattere e la difesa di quelli che sono ritenuti i valori della civiltà occidentale passa dal guidare istituzioni che si conformino al capitalismo industriale e digitale: se non si è (più?) in grado di affrontare questa partita, anche con una prospettiva che coinvolga problemi di ordine militare che sembravano superati e propri di epoche date per finite, si è destinati a soccombere.

http://www.foreignaffairs.com/articles/141211/walter-russell-mead/the-return-of-geopolitics

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LO SPETTRO POPULISTA SULLE ELEZIONI EUROPEE

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I cinquecento milioni di cittadini europei chiamati al voto per il rinnovo del Parlamento Europeo che si svolgerà nel maggio 2014 stanno attraversando una delle più gravi crisi economiche dal dopoguerra, che ha portato alla disillusione verso i partiti tradizionali, colpevoli di non aver adottato le giuste misure per arginarla. L’ondata populista che in questo momento attraversa la quasi totalità’ dei paesi europei ha messo in allarme i politologi che temono che il Parlamento cada in mano dei partiti e dei movimenti antieuropeisti.
Il successo dei movimenti di matrice populista sta aumentando in maniera esponenziale e questi trovano terreno fertile in tutti i settori popolari, specie in quelli poco interessati alla vita politica democratica e con un basso livello di istruzione. Viene poi tracciata una mappa sintetica della geografia dell’antieuropeismo, attraverso i dati delle elezioni locali e nazionali dei maggiori Paesi europei come l’Ungheria, l’Austria, la Francia, il Regno Unito, l’Italia, la Grecia ed infine Germania, Polonia e Grecia.

L’ultima settimana del maggio 2014 i cittadini dell’Unione Europea saranno chiamati ad eleggere i propri rappresentanti al Parlamento Europeo. La ripartizione dei seggi, definita nei trattati europei sulla base del principio di proporzionalità degressiva, prevede l’assegnazione di un numero maggiore di seggi ai paesi con un maggior numero di abitanti rispetti ai paesi di dimensioni minori, nonostante questi ultimi ottengano un numero di seggi superiore a quello che avrebbero ottenuto sotto il profilo strettamente proporzionale. Per queste elezioni il trattato di Lisbona prevede quindi, per ogni paese, un numero di deputati per il Parlamento europeo che varia da un minimo di 6 per paesi come Malta, Lussemburgo, Cipro e Estonia fino a 96 per la Germania.
Il ricorso a una forma di rappresentanza proporzionale, elemento comune ai diversi sistemi elettorali presenti all’interno dell’Unione Europea, fa in modo che tutti i partiti politici abbiano la possibilità di vedere eletti un numero di rappresentanti in funzione del successo elettorale riscosso. I deputati che verranno eletti al Parlamento europeo avranno la possibilità di aggregarsi a gruppi politici transnazionali, il più forte dei quali avrà di conseguenza un peso determinante sulle decisioni che saranno adottate nel corso della nuova legislatura. Il Consiglio Europeo dovrà, infatti, tener conto dei risultati elettorali quando dovrà procedere alla designazione di un candidato alla carica di Presidente della Commissione Europea, organo esecutivo dell’UE.
Sulla scia di questa premessa occorre sottolineare come gli oltre 500 milioni di europei che saranno chiamati alle urne in maggio stiano vivendo una delle più drammatiche crisi economiche del dopoguerra, caratterizzata dalla disillusione verso i partiti tradizionali, dimostratisi incapaci di arginare l’ondata populista che in questo momento sta attraversando la quasi totalità dei paesi europei.

 

La minaccia populista ed euroscettica

Dalle più fosche previsioni dei politologi europei si evince il timore di un Parlamento europeo in mano ai partiti anti-europei. Tra i leader nazionali serpeggia la paura del concretizzarsi di questa eventualità: l’ex capo del governo italiano Enrico Letta, in un’intervista al New York Times rilasciata nel mese di ottobre, è stato tra i primi a dare voce a questi timori (1), rilevando come l’ascesa del populismo, definito come il principale problema sociale e politico europeo, minacci la stabilità sul continente, minando gli sforzi che si stanno compiendo per rafforzare le istituzioni politiche e finanziarie dell’eurozona. Letta aveva posto l’accento sull’ingestibilità della prossima assemblea continentale qualora gli euroscettici ottengano più del 25% dei seggi; nel fare questo, ha richiamato i colleghi europei all’impegno affinché si eviti quella che si preannuncia come «una legislatura da incubo» (2).
Nel caso specifico dell’Italia occorre rilevare come in diversi momenti del dopoguerra siano state presenti campagne contro la classe politica, le istituzioni e i partiti politici (3). Si tratta di battaglie contro la partitocrazia condotte da formazioni politiche diverse tra loro, come l’Uomo Qualunque di Giannini o il Partito Radicale di Pannella, le quali, nonostante un successo iniziale, non hanno modificato in maniera significativa il sistema dei partiti e la cultura politica degli italiani (4).
La mobilitazione dell’antipolitica che si sviluppa a partire dagli anni Novanta del secolo scorso ha avuto, infatti, un ruolo decisivo nella crisi della cosiddetta Prima Repubblica, dando inizio ad un nuovo sistema dei partiti e all’affermazione di nuovi stili di comunicazione politica (5). All’interno di tale ragionamento, sarebbe necessario chiedersi come mai la mobilitazione populista di questi anni in Italia non sia stata condotta da un partito della destra tradizionale come il Movimento Sociale Italiano, vicino al francese Front National per storia e tradizione ideologica, bensì abbia fatto emergere partiti come la Lega Nord (6) e successivamente Forza Italia (7).
Occorre però sottolineare che sia in Italia, che negli altri paesi europei, la proposta politica delle formazioni populiste ha ruotato intorno a tre cardini fondamentali:
– la delegittimazione dei partiti e della vecchia classe politica, che si estende alle istituzioni della democrazia rappresentativa e sostiene la valorizzazione delle forme di democrazia diretta e plebiscitaria affidano a un leader il compito di interpretare la volontà popolare. Nel caso italiano l’ascesa del Movimento Cinque Stelle e la carismatica e onnipresente figura del leader Beppe Grillo ne possono essere un esempio tanto lampante quanto inquietante.
– un’idea di una massa costituita da gente comune, incline ad impegnarsi politicamente e fortemente diffidente dalle idee proposte attraverso le élite economiche, politiche ed intellettuali e i paesi di appartenenza.
– il collegamento tra la crisi economica e le trasformazioni sociali indotte da questa alla presenza dei numerosi migranti provenienti dal Nord Africa ai quali vengono imputate responsabilità come l’aumento della criminalità, l’inefficienza dei servizi sociali e il degrado delle aree urbane (8).
Da quanto detto emerge come il percorso verso una via autenticamente democratica incontri difficoltà crescenti a causa della globalizzazione dell’economia e della comunicazione, dell’indebolimento degli Stati nazionali, della crescente influenza, rivelatasi spesso dannosa, del sistema dei media nella vita politica e in generale della crisi del ruolo di mediazione dei partiti di massa (9).
Il populismo, in quest’ottica, si manifesta come un fenomeno transitorio, sia che caratterizzi un movimento sociale o un regime politico, e si incarna in forme di transizione che possono essere pacifiche o caotiche, costituendo un organismo sociopolitico instabile, dal significato indeterminato (10).
Il populismo ha, inoltre, la caratteristica di identificarsi come un “contenitore trasversale” per movimenti politici di vario tipo (di destra come di sinistra, reazionari e progressisti, e via dicendo) che trovano un punto di incontro sulla retorica del rifiuto delle oligarchie politiche ed economiche e nell’esaltazione delle virtù naturali del popolo, massa socio-culturalmente indefinibile, quali la saggezza, l’operosità e la pazienza.
È pertanto matematico l’aumento esponenziale del successo dei movimenti di matrice populista nei momenti di crisi profonda e sfiducia nella classe dirigente al potere, quando cioè il patto tra classe dirigente e popolo viene disatteso e quest’ultimo cerca una soluzione opposta che percorre una nuova via politica che nasce dall’antipolitica. Un esempio calzante è certamente l’affermazione di fenomeni come il grillismo in Italia, prima mediatici e solamente in seconda battuta rappresentativo-istituzionali. Il grillismo del Movimento 5 stelle, rappresenta in effetti un’ulteriore evoluzione di populismo mediatico, che ha saputo fare della rete di internet il principale canale di comunicazione e diffusione delle proprie battaglie, dando vita a una realtà che una volta raggiunta la ribalta nazionale e istituzionale, cavalcando il grave malcontento generato dalla crisi, non è però riuscita a palesare il suo peso decisionale e programmatico nel governo del paese (11).
Per avere una dimensione di quanto gli orientamenti e gli atteggiamenti populisti siano penetrati nel nostro paese e di quanto si siano legati alle posizioni politiche e alle tradizioni culturali che lo caratterizzano, occorre tenere conto di una serie di indicatori fondamentali. Si pensi, ad esempio, all’ampiezza della mobilitazione dell’antipolitica, basata sul risentimento nato dalla sensazione di essere stati espropriati della sovranità popolare e di tradimento dell’idea del popolo sovrano (12). Si dovrà valutare inoltre la dimensione della mobilitazione dell’ostilità nei confronti degli immigrati extracomunitari, di come i poteri politici siano criticati per la mancanza di tutela delle caratteristiche etnoculturali del popolo e per il tradimento dell’idea di popolo-nazione (13). Il principio di rappresentanza, che era stato proposto per primo dal Front National, è stato adottato infatti da tutte le formazioni populiste, che sostengono la priorità nazionale per la titolarità dei diritti e l’accesso alle risorse locali. Anche in questo caso l’esempio italiano può essere preso come riferimento: basti pensare alle polemiche scoppiate all’indomani del gravissimo naufragio di decine di immigrati dell’ottobre 2013 a Lampedusa, evento drammatico che ha portato sotto gli occhi di tutti il fallimento delle politiche italiane ed europee in tema di accoglienza.
Dovrà essere considerata infine la necessità di una figura autorevole carismatica, che trova espressione nel particolare ruolo attribuito ai leader populisti: in quest’ottica le regole e le procedure della democrazia formale non sono ritenute all’altezza per esprimere l’autentica volontà popolare, che può essere gestita esclusivamente da un leader forte (14).
Dalle analisi statistiche effettuate (15), emerge poi come la diffusione delle idee populiste sia stata maggiore in quei settori della popolazione poco interessati allo svolgimento della vita politica democratica, e come questa diffusione sia stata più ampia nei settori della popolazione con un livello di istruzione più basso. In generale è stato possibile osservare come la penetrazione delle diverse dimensioni degli orientamenti populisti, individuate nell’etnocentrismo, nell’antipolitica e nella domanda di autorità, sia stata rilevante in tutti i settori popolari: operai, lavoratori autonomi, disoccupati, casalinghe e pensionati. Tali segmenti sociali sono stati in molti casi raggiunti e parzialmente coinvolti dalle formazioni politiche populiste, per le quali il sistema dei media ha svolto la funzione di cassa di risonanza nelle diffusione delle tematiche e delle idee tipiche di questi movimenti di protesta (16).

 

Una geografia dell’antieuropeismo

Una volta compiuta questa premessa, occorre prendere atto del fatto che tutti i partiti populisti stanno riscuotendo inaspettati successi nelle elezioni locali e nazionali in quasi tutti i paesi europei: Ungheria, Austria, Francia, Regno Unito, Italia, Paesi Bassi, Grecia, Germania, Polonia e Belgio. Nulla vieta di pensare che alla chiamata alle urne del maggio 2014 gli elettori europei potrebbero rispondere riversando i loro consensi su tali formazioni, arrecando un grave danno alla stabilità continentale per come si è espressa in tutti questi anni. Nonostante la geografia dell’anti-europeismo sia molto varia e spesso contraddittoria, cosi come le fortune elettorali e demoscopiche di nazionalisti, populisti ed estremisti non sono stabili, ma cicliche, per i motivi sopra elencati, possiamo tentare un’analisi dei diversi movimenti euroscettici presenti nelle varie nazioni dell’Unione Europea e cercare di prevedere quale sarà il loro atteggiamento all’indomani dell’esito elettorale europeo.

 

L’Ungheria di Viktor Orban

L’ Ungheria, storicamente divisa tra le grandi potenze d’Occidente e dell’Oriente per gran parte della sua storia, si trova oggi tra una Unione Europea in declino e una Russia apparentemente più forte e assertiva. Qui il Fidesz-KDNP ha ottenuto alle elezioni del 2010 la schiacciante maggioranza del 52,73%, conquistando due terzi dei seggi in parlamento, che gli sono stati sufficienti a modificare la costituzione nel 2011. La linea politica del leader Viktor Orban suscita di volta in volta speranza o indignazione negli osservatori internazionali, i quali fanno fatica a comprenderne l’enigmaticità, ed è spesso rivolta a mostrare il fallimento del modello europeo post-nazionale che non ha saputo garantire le stabilità economica e politica prospettate all’inizio. Le sue politiche più discusse vanno dalla nazionalizzazione dei fondi pensionistici privati e delle attività energetiche strategiche al tentativo di neutralizzare il settore giudiziario. L’intento è chiaro: concentrare il potere nelle mani dello Stato e migliorare la posizione di Budapest per l’apertura verso la Russia, che Orban giudica inevitabile. La linea politica adottata da Orban e dal Fidesz si scontra con gli ideali liberisti di Bruxelles e l’accanimento dell’Europa contro i suoi metodi non fa che alimentare il suo consenso interno. Nonostante queste premesse è molto improbabile che l’Ungheria possa scegliere di uscire dall’Unione Europea, con la quale sussistono strettissimi rapporti economici, dai quali dipende la quasi totalità dell’apparato produttivo nazionale.

 

L’Austria di Heinz Christian Strache

In Austria, l’ultranazionalista Freiheitliche Partei Österreichs fondato da Georg Haider ha recentemente conquistato oltre il 20% dei voti nelle elezioni nazionali. Heinz Christian Strache, leader del partito di ultradestra Fpoe, sbandiera sicuro il suo euroscetticismo e si dice convinto che gli europei non vogliano una Ue centralista, bensì più libertà e sovranità nazionale. Cresce sempre più forte il desiderio di un’Europa delle Patrie, e non di un’Europa che ordina e decide tutto dall’alto, lontana dalle persone che ci vivono come quella attuale.
Heinz Christian Strache assume il francese De Gaulle ad esempio e denuncia la pericolosa tendenza centralista dell’Unione Europea. Egli sostiene che i Trattati di Maastricht e Lisbona, insieme al Patto di stabilità, siano stati violati in disprezzo del diritto internazionale e che l’idea di assumersi debiti di altri paesi vada contro ogni concetto di diritto. Una tendenza che ha perso ogni credibilità e che viene vista in antitesi al suo concetto di Europa, che vive e ha sempre vissuto della molteplicità di culture lingue e popoli.
Il politico austriaco auspica un’unione delle destre patriottiche europee, si dichiara apertamente contro una presunta islamizzazione dell’Austria e dell’Europa in rispetto dei valori cristiani e occidentali, nonché contro la moneta unica europea, che reputa essere un esperimento fallito e un pozzo senza fondo tra responsabilità comune dei debiti, tassi bassi e rischio inflazione e alta disoccupazione. Secondo la sua visione la presenza di valute diverse creerebbe uno sviluppo europeo molto più pacifico per i paesi deboli, i quali potrebbero svalutare, e per i ricchi, che a loro volta potrebbero rivalutare.

 

La Francia di Marine Le Pen

Secondo i sondaggi più recenti il Front National di Marine Le Pen sarebbe oggi il primo partito in Francia, al 24 %, posizione confermata al ballottaggio delle elezioni cantonali di Brignoles, dove il candidato del Front National ha battuto quello dell’Ump. In molti in Francia iniziano ora a chiedersi se alle elezioni locali ed europee di quest’anno il Front National amplierà ulteriormente i suoi consensi, che gli permetterebbero di porre in atto le premesse per una clamorosa vittoria nella corsa per l’Eliseo del 2017. Anche in questo caso occorre fermarsi un attimo a riflettere sulle motivazioni che stanno alla base del grande favore incontrato dalla destra di Le Pen figlia che ci permetteranno di trovare i punti in comune con gli altri movimenti nazionalisti e populisti europei.
Il Front National ha certamente cavalcato l’onda di risentimento popolare che accomuna i diversi Paesi europei, capace di mischiare sapientemente elementi di euro-scetticismo a una forte componente nazionalistica. Ha fatto della critica contro le caste politico-industriali corrotte il suo cavallo di battaglia, e attraverso posizioni autarchiche e protezionistiche, che contemplano l’uscita dall’euro, vuole riappropriarsi della sovranità perduta (17).
La Francia si caratterizza per un panorama politico a suo modo peculiare, quella Quinta Repubblica figlia di De Gaulle dove sembra non esserci spazio per posizioni politiche che invochino un minor peso dello Stato nell’economia e dove Hollande ha fatto portare al 75% l’aliquota marginale dell’imposta sui redditi, poi dichiarata illegittima, prima dal Consiglio Costituzionale e poi dal Consiglio di Stato nel marzo 2013.
Mentre la popolarità di Hollande scende ai minimi storici, Marine Le Pen tenta il sorpasso con il suo partito che acquista una nuova spendibilità attraverso l’abbandono dei riferimenti storici e politici del vecchio neofascismo e la conquista delle fasce medie e medio-basse dei salariati e delle imprese individuali, piccole o medie a basso valore aggiunto.

 

Il Regno Unito e l’United Kingdom Independence Party di Nigel Farage

Nigel Farage è l’elemento di spicco del britannico Ukip: ricopre le cariche di deputato europeo e di presidente di Europe of Freedom and Democracy. All’inizio della sua carriera politica Farage nasceva come conservatore, ma se ne allontanò quando i Tories nel 1992 riconobbero il Trattato di Maastricht, sicché nel 1993 sarà tra i fondatori dello Ukip. Il partito conquista nove seggi su settantatre a disposizione dei sudditi di Sua Maestà nel Parlamento Europeo e fa dell’indipendenza del proprio paese dall’Unione il suo principale obiettivo, ponendosi come il maggiore movimento euro-scettico britannico, confluendo a Bruxelles nel gruppo “Europa della Libertà e della Democrazia”, di cui fa parte pure l’italiana Lega Nord. Anche l’Independence Party si pone come obiettivo principale quello di preservare la sovranità nazionale inglese, minata dai progetti di centralizzazione del Consiglio Europeo.
Proprio il Presidente del Consiglio Europeo, Herman Van Rompuy, è stato accusato da Farage di essere la causa del ribaltamento del governo greco e di essere stato il responsabile dell’insediamento di Mario Monti in Italia, in accordo con i dettami della tedesca Merkel, altra grandissima nemica dell’Ukip che fa della battaglia alle strategie economiche tedesche la sua punta di diamante.

 

L’Italia del Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo

Dei movimenti populisti in Italia si è già parlato in questa sede. Vale la pena soffermarsi sull’affinità di propositi e intenti è rilevabile tra il britannico Nigel Farage il pentastellato Beppe Grillo: l’Europa di burocrati da combattere, il dominio delle banche da contrastare, la fine della sottomissione all’area tedesca e dell’intromissione della BCE nell’organizzazione sociale e statale di ogni paese. In ultimo la battaglia delle battaglie: la netta opposizione alla moneta unica europea.
Il politico inglese si è speso in diverse occasioni nell’elogiare l’operato del leader del M5S, al quale riconosce il merito di aver svegliato un’intera nazione dal torpore che la vedeva schiava dei suoi apparati politici. Un’intesa che potrebbe rapidamente trasformarsi in alleanza all’indomani delle elezioni per il parlamento europeo del 2014.

 

La Grecia di Alba Dorata e Syriza

Secondo un sondaggio condotto dal portale ellenico Zougla.gr su un campione di 1437 persone dall’11 al 14 novembre 2013, se si fosse andati a votare l’indomani i neonazisti di Alba dorata e gli anti-europeisti di Syriza – insieme – avrebbero raccolto la maggioranza assoluta dei voti. A determinare il malcontento che sta alla base di questi risultati possiamo certamente collocare gli ingenti tagli dovuti alle misure imposte ad Atene da Bce, Fmi e Ue, che avrebbero dovuto ridurre il debito pubblico e che in molti casi hanno messo in ginocchio e affamato i cittadini con le drammatiche immagini alle quali i media ci hanno abituato in questi mesi. Se poi aggiungiamo a questo clima di tensione esasperata lo sgombero dell’ex sede occupata dell’Ert, unitamente alla possibilità di nuove riduzioni di stipendi e pensioni e, limitatamente a quanto riguarda i dati di Alba Dorata, l’attentato che il primo novembre scorso ha portato alla morte di due militanti della destra estrema di 22 e 27 anni, riusciamo a comprendere appieno le motivazioni che stanno alla base dei risultati di questo sondaggio.
Nello statuto di Alba Dorata troviamo tutti gli elementi che caratterizzano i movimenti nazionalisti e populisti ai quali abbiamo già accennato. Il nazionalismo, visto come «unica e vera rivoluzione», l’avversione verso la «partitocrazia tradizionale», la ferma condanna della plutocrazia delle banche e della finanza internazionale uniti a un forte statalismo. Infine viene sottolineata, tra gli obiettivi del partito, l’uscita dall’Unione Europea e la lotta serrata ai «poteri occulti internazionali che opprimono il popolo greco» (18).

 

Alternative für Deutschland, Sprawiedliwość, Vlaams Belang

L’ascesa degli estremisti antieuropei non risparmia neanche Germania, Polonia e Belgio, ove troviamo rispettivamente i movimenti Alternative für Deutschland, Sprawiedliwość e Vlaams Belang, che in poco si differenziano da tutti i movimenti elencati in precedenza, ai quali sono accomunati dall’obiettivo di portare i Paesi di appartenenza fuori dalla moneta unica europea. A questi potremo aggiungere a buon diritto lo xenofobo Partij voor de Vrijheid di Geert Wilders, attualmente in testa nei Paesi Bassi. Quest’ultimo ha definito l’Unione Europea uno «Stato nazista», sottolineando la necessità per il suo popolo di liberarsi dal gioco mostruoso di Bruxelles, e ha avviato con Marine Le Pen la costruzione di un’alleanza in chiave anti-europea per le elezioni del maggio prossimo. I due, che si sono incontrati a l’Aja, hanno dichiarato in una conferenza stampa di voler riunire all’interno dello stesso gruppo parlamentare europeo tutti i movimenti schierati contro l’Unione.

 

Conclusioni

Analizzate le premesse, è facile prevedere nella tornata elettorale per il rinnovo del Parlamento Europeo un balzo in avanti significativo della destra populista, nazionalista e anti-europea.
Le conseguenze di questa avanzata si possono già esaminare a livello locale, dove i partiti di centrodestra guardano all’uscita dall’Unione Europea con crescente trasporto. Il Regno Unito, ad esempio si prepara a votare per uscire dall’Unione europea con un referendum. Una svolta storica che risponde alle richieste degli euroscettici del partito conservatore guidato da David Cameron, che ha ottenuto, con 304 voti a favore, il via libera per il referendum che si terrà entro il 2017. Il provvedimento per la consultazione referendaria, tuttavia, non è vincolante e il prossimo governo, qualora non fosse guidato da Cameron, potrebbe revocarne la disposizione. Il risultato raggiunto dal partito conservatore di David Cameron genera un precedente al quale gli altri governi europei si dovranno loro malgrado adattare.
In questa particolare congiuntura economico-sociale, caratterizzata dalla crisi e dalla forte pressione sulle istituzioni europee, potrebbe scatenarsi un’eco che da Londra arriva a Parigi, a Lisbona e magari a Roma, dove l’insofferenza per le strategie economiche delle Merkel non si limitano ai grillini ma si estendono a tutti i partiti di centrodestra.
Possiamo comprendere quindi per quali motivi da Bruxelles si guardi alle elezioni del maggio 2014 con tanta preoccupazione, in un momento nel quale il gradimento per l’Europa ha toccato i minimi storici e i partiti populisti anti-euro e anti-Unione Europea non erano mai sembrati cosi forti. Tutti i partiti e i movimenti dei quali abbiamo parlato, dall’Italia alla Germania, dall’Ungheria alla Polonia, guadagnano consensi nei sondaggi e nelle elezioni locali. Il rischio che il Parlamento europeo si riempia di euroscettici, pronti a far guerra a ogni proposta e a paralizzare l’assemblea che spesso vota a maggioranza qualificata non è un timore infondato, ma si poggia al contrario sulla concretezza dei dati raccolti.
Se questi partiti riusciranno a mobilitare una fetta significativa dell’elettorato attraverso la protesta, vincendo così il nemico rappresentato dall’astensionismo, potrebbero rappresentare la novità delle prossime elezioni e dare corpo al peggiore incubo di molti governanti europei. Tutto dipenderà inoltre dalla loro capacità di formare una coalizione pre, ma soprattutto post elettorale, costituendo un gruppo unico nell’Europarlamento. Elemento non trascurabile dato che tra queste diverse formazioni politiche sono presenti marcate differenze: mentre alcune si collocano su posizioni più conservatrici, altre hanno inclinazioni nazionaliste e xenofobe.
Non sarà certo semplice mettere d’accordo movimenti apertamente anti-clericali come Syriza con altri che sono invece ultra-cattolici, come ad esempio Prawo i Sprawiedliwość. Un altro tema scottante è quello delle unioni omosessuali che trovano il consenso di Partij voor de Vrijheid, ma si scontrano con la ferma opposizione della Lega Nord. Sarà ancora più difficile infine mettere d’accordo i filo-israeliani del Partij voor de Vrijheid con i filo-palestinesi del Front National.
In conclusione, ci avviamo verso l’ingovernabilità del Parlamento Europeo, qualora i partiti euroscettici riescano veramente a capitalizzare la maggioranza dei 751 seggi in palio alle prossime elezioni, con conseguenze che non devono essere sottovalutate in quanto minerebbero l’assetto interno di tutti i Paesi interessati.

Margherita Sulas (Oristano 1982) ha conseguito il Dottorato di ricerca in Storia Contemporanea presso il Dipartimento di Storia, Beni Culturali e Territorio dell’Università di Cagliari, ove è Assegnista di Ricerca; socia Sissco dal 2010, collabora con il Comando Regionale della Guardia di Finanza in Sardegna e il Museo Storico della GdF di Roma per l’allestimento di mostre e convegni.

NOTE:
1. Jim Yardley, Letta, Italy’s Premier, Says His Goal Is to Move ‘From Austerity to Growth’, transcript of an interview with Prime Minister Enrico Letta of Italy in Rome on Oct. 14, 2013, as recorded by The New York Times, pubblicata integralmente il 15 ottobre 2013 http://www.nytimes.com/2013/10/15/world/europe/letta-italys-premier-says-his-goal-is-to-move-from-austerity-to-growth
2. J. Yardley, Italian Prime Minister Calls Populism a Threat to Stability in Europe, in The New York Times – New York edition, 15 ottobre 2013, p. 12
3. Alfio Mastropaolo, Antipolitica. All’origine della crisi italiana, L’Ancora, Napoli 2000; Salvatore Lupo, Antipartiti. Il mito della nuova politica nella storia della Repubblica (prima, seconda e terza), Donzelli, Roma 2013
4. Marco Tarchi, L’ Italia populista. Dal qualunquismo ai girotondi, Il Mulino, Bologna 2003
5. Simona Colarizi, Marco Gervasoni, La tela di Penelope. Storia della seconda Repubblica, Laterza, Roma-Bari 2012
6. Andrea Sarubbi, La Lega qualunque. Dal populismo di Giannini a quello di Bossi, Roma, Armando 1995
7. Roberto Biorcio, La Padania promessa. La storia, le idee e la logica d’azione della Lega Nord, Il Saggiatore, Milano 1997
8. R. Biorcio, Democrazia e populismo nella Seconda Repubblica, in Marco Maraffi (a cura di), Gli italiani e la politica, Il Mulino, Bologna 2007
9. Yves Mény – Yves Surel , Populismo e democrazia, Il Mulino, Bologna 2001
10. Pierre-André Taguieff, L’illusione populista, Mondadori, Milano 2003; Loris Zanatta, Il populismo, Carocci, Roma 2013
11. Sul Movimento Cinque Stelle si rimanda a Piergiorgio Corbetta, Elisabetta Gualmini (a cura di), Il Partito di Grillo, Il Mulino, Bologna 2013 e Roberto Biorcio, Paolo Natale, Politica a 5 stelle. Idee, storia e strategie del movimento di Grillo, Feltrinelli, Milano 2013. Un’analisi articolata del successo grillino alle elezioni politiche del febbraio 2013 in Fabio Bordignon, Luigi Ceccarini, «Tsunami» a 5 stelle, in Ilvo Diamanti, Un salto nel voto. Ritratto politico dell’Italia di oggi, Laterza, Roma-Bari 2013, pp. 60-71
12. Y. Mény – Y. Surel , Populismo e democrazia, cit., pp. 173-180
13. ivi, pp. 187-196
14. R. Biorcio, Gli imprenditori dell’intolleranza, in Il Manifesto, 25 febbraio 2002
15. Sondaggi Itanes 2003 e 2004
16. R. Biorcio, The Lega Nord and the Italian Media System, in Gianpietro Mazzoleni, Julianne Stewart e Bruce Horsfield (a cura di), The Media and Neo-populism. A Contemporary Comparative Analysis, Praeger, Westport 2003, pp. 71-94
17. Sara Gentile, Il populismo nelle democrazie contemporanee. Il caso del Front National di Jean Marie Le Pen, Franco Angeli, Milano 2008
18. Dimitris Dalakoglou, Neo-Nazism and neoliberalism: A Few Comments on Violence in Athens At the Time of Crisis, in “Working USA: The Journal of Labor and Society”, volume 16, giugno 2013, pp. 283–292

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MULTIPOLARISMO GLOBALISMO, LE DUE COSMOVISIONI GEOPOLITICHE E IL LORO RETROTERRA SPIRITUALE

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Durante la cosiddetta Guerra Fredda, abbiamo vissuto in un mondo bipolare. Almeno questo era ciò che la maggior parte della gente pensava. Ma quanto bipolare era veramente? C’erano due superpotenze (gli USA e l’Unione Sovietica), con le loro rispettive aree geopolitiche di influenza (occidentale e orientale), che cercavano di controllare le risorse e la popolazione mondiale, in competizione l’una con l’altra.

In realtà, questo sistema bipolare era un esperimento. L’Occidente (“americano”) e l’Est (“sovietico”) non erano (dopo la morte di Stalin) in realtà veri nemici ma, piuttosto, due sistemi che operavano come strumenti al servizio degli stessi padroni. I globalisti, infatti, li controllavano entrambi, cercando di capire quale dei due sistemi funzionasse “meglio” (meglio per loro, ovviamente) al fine di raggiungere il loro obiettivo finale; la dominazione totale mondiale dopo la distruzione di un mondo multipolare naturale e un ordine pluriculturale (di nazioni sovrane), basato su comunità organiche.
Essendo a conoscenza di ciò, non sorprende vedere come molti degli attuali e più importanti globalisti (Wolfowitz, Podhoretz, ecc), che agiscono come guerrafondai per l’imperialismo di Washington, sono ex comunisti provenienti dal ramo trotskista.
Entrambi i sistemi sono stati messi in opera durante quattro decenni. Entrambi sono internazionalisti. Il comunismo marxista addirittura si definisce internazionalista, e il capitalismo finanziario, basato sul potere del denaro, è senza dubbio internazionale, dato che i capitalisti non conoscono confini… e perché il denaro non ha patria.
Gli Stati in cui è entrata la piovra liberale del capitalismo fornivano (e forniscono) ai cittadini l’illusione della “democrazia” (il potere del popolo), l’illusione che realmente i cittadini stanno scegliendo i propri rappresentanti. La maggior parte delle persone che vivono nel “Primo Mondo” ancora credono a ciò, mentre tutto sta diventando sempre più orwelliano e i nostri cosiddetti politici democratici stanno mostrando la loro vera natura di marionette. Ma nel sistema capitalistico, dove a causa dell’usura dei banchieri il denaro può essere creato dal nulla, il potere non è nelle mani del popolo, ma nelle mani di chi controlla il denaro… e il denaro non è democratico.
D’altro lato, in molti paesi comunisti è avvenuto qualche fenomeno abbastanza interessante: il marxismo comunista ortodosso, divenenuto anti-tradizionale e ateo; così come globalista e internazionalista (avendo la stessa tentacolare e materialista natura come il capitalismo), è iniziato a svilupparsi in modi diversi in ogni paese, fondendo il sistema economico socialista con il carattere di ogni nazione, di comunità organica in cui ha preso il potere . (Questo non è accaduto nei paesi capitalisti, che sono stati e ancora sono tutt’ora sotto estremo lavaggio del cervello e sotto un enorme imperialismo culturale e sociale proveniente dagli Stati Uniti: con elementi sovversivi come Hollywood, mezzi di comunicazione di massa, distruzione della propria lingua, del propria patrimonio, ecc).

Questa è stata una cosa molto naturale: il comunismo si è adattato in ogni paese, il comunismo è stato assorbito in ogni paese, e non l’ opposto, come originariamente previsto dai globalisti, che volevano implementare un freddo, anti – naturale e senza radici sistema dittatoriale sul mondo.
La spaccatura interna del comunismo iniziò già con la lotta tra Stalin, orientato nazionalmente, e Trotsky – che predicava un comunismo globalista senza confini con la sua “rivoluzione permanente”. Così, ad esempio, in Corea del Nord il comunismo si è fuso con le antiche tradizioni coreane, con la sua ricca cultura e la sua idiosincrasia nazionale, e il leader Kim Il Sung ha sviluppato l’ideologia dello Juche; una versione coreana del socialismo. In Romania, Nicolae Ceausescu era un grande ammiratore degli eroi nazionali del glorioso passato nel Medioevo.
Quindi, quello che era in origine un freddo e senz’anima sistema intenzionato a distruggere i valori tradizionali come “reazionari”, una volta implementato in un determinato paese, è stato assorbito dalla idiosincrasia nazionale prendendo le sue tradizioni come un mezzo di resistenza.
C’è un parallelismo interessante con il cristianesimo. Molti considerano il cristianesimo un antico genere di comunismo, e vi è un qualche fondo di verità in questo. Quando i cristiani sono saliti al potere a Roma, durante i primi secoli, hanno vietato tutte le altre religioni – quelle pagane – nell’Impero e hanno imposto la loro con il dogmatismo e la violenza; erano universalisti, antichi globalisti. Ma dopo qualche tempo, il cristianesimo è stato assorbito nelle nazioni in cui era entrato e si è sviluppato in modo diverso in ogni parte del mondo, a volte introducendo anche sincretismo con la vecchia tradizione. Ciò può essere osservato nel ramo ortodosso del Cristianesimo e nelle sue chiese nazionali: c’è il Patriarcato greco, quello serbo, quello russo, e così via. Nel caso russo, lo zar era il capo dello Stato e della Chiesa, equivalentemente con la tradizionale religione giapponese dello Shinto, dove il Tenno – l’Imperatore – era al tempo stesso leader nazionale e religioso.

Questo stesso fenomeno è accaduto con l’Islam; c’è un proverbio iraniano che recita che “l’Islam non ha conquistato la Persia, ma la Persia ha conquistato l’Islam”. Lo Zoroastrismo e il Mazdeismo hanno avuto un ruolo importante nella formazione della corrente sciita persiana. E nell’odierna Repubblica islamica dell’Iran c’è una Guida Suprema (l’ayatollah Khamenei, che è allo stesso tempo il leader religioso e nazionale). Altri esempi possono essere visti con il califfo ottomano in tempi recenti o con l’imperatore romano nel passato antico.
Il fatto che il comunismo (come il cristianesimo in passato) si stava sviluppando in ogni luogo secondo le sue tradizioni era molto pericoloso per i globalisti (Trotskisti e liberali). Così, la tendenza del nazional-comunismo doveva essere fermata.
Ecco perché hanno deciso di sopprimere il “lato orientale”, porre fine alla guerra fredda e al bipolarismo e di utilizzare da quel momento solamente il sistema liberale capitalistico come l’unico accettabile. L’Unione Sovietica e i paesi del Patto di Varsavia erano un esperimento, e si sono rivelati essere non più utili perché i “padroni” dietro le quinte si resero conto che era il sistema capitalista quello maggiormente idoneo per raggiungere i loro obiettivi.
Cosi è nato il “Nuovo Ordine Mondiale” proclamato da Bush senior, sperando che con il crollo dell’Unione Sovietica, la Russia e le altre nazioni eurasiatiche sarebbero state private della sovranità nazionale e ridotte in schiavitù con il liberalismo. Durante gli anni ’90 del secolo scorso, Gorbaciov e Eltsin tollerarono e fomentarono il saccheggio della ricchezza russa ad opera degli oligarchi e della finanza internazionale, ma con l’inizio del nuovo secolo, cominciò ad essere restaurata la sovranità nazionale dal Presidente Putin, motivo per cui è stato calunniato in Occidente con epiteti come “autoritario”, “dittatore”, ecc …

La libertà offerta dal liberalismo potrebbe essere spiegata molto sinteticamente come segue: libertà di scegliere tra Coca-Cola e Pepsi, o tra McDonalds e Burger King. Non è nient’altro che consumismo, materialismo puro, dove il profitto è l’unica cosa che conta…
Tutti i paesi che non vogliono essere governati da questo cosiddetto sistema democratico, o non collaborano con esso, erano quei pochi paesi rimasti comunisti come Cuba e la Corea del Nord e i Terzi Posizionisti, i non allineati, come la Jugoslavia, l’Iraq , la Libia o la Siria. I globalisti decisero che questi paesi dovevano essere distrutti, uno dopo l’altro. Prima di tutto dovevano essere mediaticamente demonizzati (il concetto di “asse del male” fu reso popolare in questo contesto), minacciati, e, infine, come ultimo passo, distrutti dalle guerre in nome della libertà e della democrazia.
Nel caso particolare della Siria, un fatto che non è così noto, è che prima dello scoppio della crisi, il presidente Assad stava progettando di implementare la strategia dei Quattro mari, per trasformare il proprio paese in un hub commerciale tra il Mar Nero, il Mar Mediterraneo, il Golfo Persico / Mare Arabico e il Mar Caspio. Come un paese sovrano con una moneta stabile e una banca nazionale non di proprietà dei Rothschilds, questo avrebbe potuto rendere la Siria un incrocio geopolitico molto potente. E in Libia, tra l’altro, Gheddafi aveva cercato di introdurre il dinaro d’oro, che sarebbe stato un vero e proprio attacco frontale contro l’internazionale e ingannevole economia basata sul dollaro.
Per tornare ai tempi del bipolarismo:

Questi due sistemi globalisti, utilizzati dagli USA e dai suoi alleati (il cosiddetto “mondo libero”) da un lato e dai sovietici e i loro alleati dall’altro, erano, rispettivamente, come sappiamo, il capitalismo e il comunismo. Entrambe queste ideologie non erano in contraddizione, come molti credono, ma “fratelli di sangue” provenienti dalla stessa origine, dalla stessa visione materialista del mondo, dalla stessa weltanschauung o cosmovisione, che è lineare e crede nel progresso senza fine, senza rendersi conto che le risorse naturali del mondo non sono infinite.

Per dirla in altre parole: il capitalismo e il comunismo sono due facce della stessa medaglia.
Tornando al parallelismo spirituale, è anche possibile affermare che il comunismo era la risposta al capitalismo nel 19 ° secolo come il cristianesimo era la risposta al giudaismo nel 1 °.
L’ebraismo è una religione etnica. Chiamano se stessi il popolo eletto, e questo concetto sviluppato negativamente in alcuni rami del giudaismo, viene utilizzato come una sensazione di superiorità razzista e di diritto divino a governare in modo opprimente tutti coloro che non appartenevano alla loro religione etnica, i goyim. Gesù è venuto per redimere gli ebrei dalla smarrimento, quindi è stato ucciso dai farisei, come i profeti prima di lui. Il sionismo è una versione contemporanea del Fariseismo. Dopo di che, Paolo cercò di estendere il messaggio del giudaismo (la presenza di un Dio assolutista, un creatore separato dalla sua creazione, che vi ricompenserà se lo ricompenserete e vi punirà se non lo farete) a tutte le persone nell’Impero Romano , creando, o inventando, (con gli insegnamenti di Cristo), un “giudaismo per i Gentili”. Karl Marx può essere visto come il San Paolo del XIX secolo; colui che insegna la necessità della ricchezza economica per tutti, non solo per l “elite” dei capitalisti.

La differenza tra l’ebraismo e le altre religioni etniche (pagane) dell’antichità è che l’ebraismo è la prima religione (di quelle che esistono ancora oggi) che si ritiene di essere la verità assoluta, mentre tutti gli altri percorsi spirituali sono errati, tutte le altre tradizioni sono considerate sciocchezze. Si è sviluppato dall’ enoteismo (credendo che Yahweh era il dio più potente, ma che esistevano anche altri dèi di altri popoli) verso una rigorosa e gelosa sottomissione monoteista al Signore come unico Dio.

Più tardi, questa particolarità venne “ereditata” dal cristianesimo e dall’Islam, ma fino ad un certo punto, perché, come il comunismo, nella secolare modernità socio-economica, il Cristianesimo e l’Islam si sono adattati ai diversi paesi quando si diffusero in tutta Europa, Medio Oriente, Asia, Africa e più tardi nelle Americhe.
All’interno del cristianesimo si svilupparono due differenti correnti nel Medioevo europeo: i guelfi e i ghibellini. I primi sostenevano il Vaticano e il Papa incondizionatamente, essendo religiosamente molto dogmatici e intolleranti; i ghibellini, invece, erano orientati verso la nazione e supportavano la multipolarità sotto il dominio di un re o di un imperatore, che sarebbe dovuto divenire il simbolico leader religioso-nazionale. Esiste anche qui un parallelismo con il comunismo, potendo vedere Stalin come ghibellino e Trotsky come guelfo.
Per quanto riguarda l’Impero e l’imperialismo, si tratta di due concetti diversi e in realtà opposti. Mentre l’Impero integra, componendo una unità continentale di natura tellurocratica che rispetta ogni cultura dei diversi popoli al suo interno, l’imperialismo è una moderna parodia mercantile senza confini, con l’unica “patria” rappresentata dal denaro. Non compone o integra, ma, al contrario, impone e disintegra, divide e conquista con la forza o con l’inganno, ritenendosi l’unico sistema possibile o la “verità assoluta”.

Oggi, dopo la guerra fredda, esiste un solo imperialismo, internazionale e mercantilistico, che è anche conosciuto come globalismo e sionismo (Fariseismo moderno).
Questo imperialismo sta diventando ogni giorno più potente e distruttivo poichè le masse non riescono a comprendere qual è il vero pericolo e chi sono i veri nemici. La plutocrazia e l’usura (il capitalismo) sono gli strumenti di questo sistema che, per essere più efficace, opera per idiotizzare le masse (tramite i mass media, la TV, i film di Hollywood, ecc) e dividerle (per esempio, sunniti contro sciiti nel mondo musulmano o cristiani contro i musulmani nei Balcani, ma anche uomini contro le donne nelle nostre società occidentali già laiche, o bambini contro genitori).
In geopolitica, ci sono due flussi in lotta permanente l’uno contro l’altro: Atlantismo o Talassocrazia (rappresentata dal Regno Unito e dalla Francia nel passato coloniale e oggi per lo più dagli Stati Uniti d’America); e il Continentalismo o Tellurocrazia, che è il concetto eurasiatico e utilizzato per essere rappresentato dagli Imperi centrali nel passato e oggi per lo più da una Russia risorgente.
L’atlantismo è un sistema geopolitico globalista, che attraverso il commercio – il liberalismo – alla fine vuole imporsi su tutto il mondo – perché, come detto in precedenza, ritiene di essere l’unica verità, l’unico sistema valido. Il continentalismo, invece, crede in una visione del mondo multipolare, non in uno unipolare e globalistico, ma in un sistema multipolare con diversi blocchi di potere, ciascuno con la propria area di influenza.

Uno di questi blocchi di potere potrebbe essere l’ Eurasia dalle Isole Canarie a Vladivostok. Un altro, per esempio, è il mondo arabo (Nasser e l’ideologia Baath in Iraq e Siria), mentre un altro può essere un America Latina unita (Perón e Chávez hanno seguito questa idea). Anche il Nord America rappresenta un blocco, dato che gli Stati Uniti sono una potenza bi-oceanica e continentale che ha abbastanza ricchezza naturale propria e non ha bisogno di saccheggiare le risorse (petrolio, gas …) dei paesi sovrani esteri distanti migliaia di chilometri sotto il falso pretesto della “democrazia” e di imporre la propria visione del mondo socio-economico (quello globalista), considerata dai loro politici fantocci non solo la più desiderabile o più accettabile , ma l’unica alternativa possibile, la “verità assoluta” .
Questo è il dogmatismo laicista del Kali Yuga.

Il continentalismo è sinonimo di autarchia, piena sovranità, autosufficienza, vera indipendenza, rappresenta la conservazione dei tradizionali confini con la natura, la spiritualità, famiglia, nazione. L’atlantismo, al contrario, ha bisogno dell’ import-export per sopravvivere, quindi, sinonimo di mercantilismo, e incernierato al materialismo, al mammonismo. Questo è il pericoloso e fertile terreno per la pratica della speculazione finanziaria e per la demoniaca pratica della creazione del denaro dal nulla, che rende schiavi tutti i popoli tramite l’usura.
Il continentalismo persegue relazioni amichevoli tra tutti i popoli e le nazioni. L’integrazione territoriale e politica dovrebbe essere ottenuta con l’approvazione reciproca e gli scambi culturali sono benvenuti e desiderabili, ma senza alcuna ingerenza negli affari interni. L’atlantismo, che è controllato da un’ “elite” parassita di bankster criminali, ha bisogno di invadere e depredare le nazioni straniere per sopravvivere, dato che questo è in pieno accordo con la propria natura parassitaria.
E’ importante sottolineare, come ha detto Parvulesco, che non dobbiamo integrare la Russia nella “UE”, ma la “EU” in Russia (che nonostante la debacle del 1990, prosegue mantenendo la propria tradizionale idiosincrasia quasi intatta, cosa che non si può dire dell’Occidente).

Le idee imperiali del geopolitico tedesco Karl Haushofer , orientate verso un asse eurasiatico Berlino-Mosca-Tokyo, dovrebbero essere studiate, diffuse e sviluppate al fine di contrastare la tesi imperialista della Sfera angloamericano-sionista (atlantismo), sempre alla ricerca del sabotaggio delle tradizionali vie commerciali terrestri dell’Eurasia e di dividere maggiormente le popolazioni eurasiatiche mettendole l’ una contro l’altra su una base confessionale o utilizzando il cosiddetto “terrorismo islamico” (in realtà, il terrorismo wahhabita saudito eseguito dalla CIA) come un cavallo di Troia, con la creazione di “Al-Qaeda” come un utile strumento contro la sovranità nazionale e l’indipendenza, come già visto in Jugoslavia, Cecenia, Libia, o in Siria.

Per concludere, il multipolarismo e il globalismo sono gli unici due reali sistemi antagonisti che lottano l’uno contro l’altro e non il capitalismo e il comunismo, che sono stati inventati come una distrazione e un inganno.

articolo originale: http://informazionescorretta.altervista.org/blog/multipolarismo-globalismo-cosmovisioni-geopolitiche-retroterra-spirituale/?doing_wp_cron=1399398269.9989290237426757812500

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UE E RUSSIA: TRA CRISI DIPLOMATICA E INTERDIPENDENZA ECONOMICA

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Nel clima incandescente di questi giorni al confine orientale dell’ Ucraina, cerchiamo in questo articolo di dare un approccio generale al rapporto dell’ Unione Europea con la Russia. Mantenendo una visione d’insieme che vada oltre alla crisi ucraina, molti ritengono che il legame tra Russia ed UE rimarrà solido anche in futuro. Frédéric Oudéa, chief executive officed della Société Générale (una delle banche più importanti dell’ eurozona) dichiara che “nel lungo termine il rapporto tra UE e Russia sarà forte, lo sarà sulla base dell’energia. La Russia è inoltre un importante cliente di molte società europee; se la sfida europea è quella riprendere la crescita certamente la Russia è un partner indispensabile e altrettanto importante resta l’UE per la Russia. Certo, la situazione attuale determina molta incertezza, ma sono convinto che nel lungo periodo i rapporti resteranno forti”. Questa tesi, nonostante la caotica situazione del momento, sembra essere supportata dalla grande interdipendenza economica tra le due parti, che va anche oltre alla sola questione energetica. Un forte legame si è infatti instaurato per quello che riguarda il settore industriale e imprenditoriale. Le esportazioni di merci dall’UE in Russia nel 2012 sono state stimate in circa 170 miliardi di euro, mentre le merci russe importate ammontano ad un valore di ben 293 miliardi. Dal 2009 le esportazioni verso la Russia sono in aumento e rappresentano più del 7% dell’export totale dell’ UE. I beni importati dalla Russia nell’ Unione rappresentano invece il 12% dell’ import totale. La Russia, sulla base di questi dati, è dunque il secondo partner per le importazioni ed il quarto per le esportazioni dell’ UE. L’Unione Europea è invece il principale partner commerciale della Russia, ed assorbe il 22% delle esportazioni totali del paese.
Continuando nell’analisi macroeconomica vediamo come gli altri interlocutori fondamentali per la Russia sono la Cina e, ovviamente, l’ Ucraina. Resta però l’UE il più importante destinatario di esportazioni energetiche (stimate al 75% del totale) e ben il 77% delle esportazioni Russe consiste nel petrolio greggio, prodotti petroliferi e gas naturale. Da parte sua la Russia è il più importante fornitore singolo dell’ UE sui prodotti energetici, con il 30% delle forniture di petrolio e gas ed è il terzo partner commerciale dell’ Unione Europea, dopo Stati Uniti e Cina. Nel suo complesso, in sintesi, vediamo quindi che l’UE riveste grande importanza per la Russia e viceversa: gli scambi tra le due economie hanno mostrato forti tassi di crescita fino alla metà del 2008, quando la tendenza è stata interrotta dalla crisi economica e dalle misure unilaterali adottate dalla Russia, che hanno avuto un impatto negativo sul commercio fra i due partner. Dal 2010 gli scambi hanno ripreso a crescere fino a raggiungere livelli record nel 2012.
A livello legale e diplomatico invece il legame tra UE e Russia è ancora in parte ancorato alla politica europea di vicinato (PEV), che favorisce un alto grado di integrazione con i paesi geograficamente limitrofi all’ Unione, instaurando relazioni privilegiate in vari settori attraverso l’ European Neighbourhood and Partnership Instrument (ENPI). L’Ucraina è stato uno dei tanti paesi che hanno avuto sostegni economici da questo progetto politico, grazie al quale anche la Russia ha stabilito un legame con l’Unione Europea, che si è espresso con il partenariato strategico del 1994: questo è stato l’ultimo vero accordo diplomatico tra UE e Russia ed è scaduto nel 2007. L’ accordo di partenariato e cooperazione del 1994 fa parte di una serie di accordi, di durata generalmente decennale, stipulati con tutti i paesi dell’ ex Unione Sovietica. L’oggetto di questi trattati riguarda un più intenso dialogo per il consolidamento delle istituzioni democratiche, un’integrazione maggiore dal punto di vista commerciale e una spinta verso il mercato. Successivamente a questo accordo, nel 2008, tra UE e Russia vi fu anche il summit a Khanty-Mansiysk, che non lasciò però particolari cambiamenti nel rapporto tra le due parti. Non si sono fatti sostanziali passi in avanti anche perché nel 2003 la Russia non ha voluto essere inserita nei paesi nella European Neighbourhood Policy. Da sottolineare è invece il fatto che nel 2009, in un importante vertice tenutosi a Praga, l’Unione Europea aveva escluso la volontà di stabilire una sua influenza in sei paesi dell’ ex Unione Sovietica, tra cui anche l’ Ucraina.
Lo scenario di cui siamo testimoni oggi dunque è molto diverso da quello che si era sviluppato negli anni precedenti. Cerchiamo insieme di capire il perché. In questi ultimi cinque anni, in cui l’Unione Europea è stata impegnata severamente a gestire la crisi economica che ha colpito molti dei paesi membri, la Russia ha rinnovato la sua politica estera, con particolare attenzione ai paesi del Mediterraneo orientale e delle repubbliche ex sovietiche dell’Eurasia. Già negli ultimi tempi le relazioni tra Unione Europea e Russia erano bloccate, per la mancanza di una nuova visione strategica chiara da parte dell’ UE. Anche la percezione che ha la Russia dell’ Unione europea si è modificata negli ultimi anni: la concezione di cooperazione dei primi anni ‘90 infatti sembra essere lontana e la Russia ormai vede l’ UE come un grande competitore e non solo come un grande socio d’affari. I settori in cui vi è questa concorrenza sono molteplici, basti pensare anche solo agli ambiti energetico, commerciale e della ricerca. Contestualmente però si è registrato anche un avvicinamento per quello che riguarda le relazioni tra Russia ed Italia e Germania. In assenza di una forte politica estera europea infatti, la Russia ha ritenuto importante stringere un maggiore legame con due importanti paesi membri, in modo da garantirle una posizione di forza nel futuro dialogo con l’ Unione Europea. Anche l’ Inghilterra ha importanti interessi in gioco, e vuole che Londra resti la ‘piattaforma’ finanziaria privilegiata degli affari russi su scala planetaria, mentre la Francia ha l’interesse di vendere a Mosca gli elicotteri da guerra Mistral. In molti, tra cui lo stesso Vladimir Putin, ritengono in sostanza che la stabilità dell’intero continente europeo dipenderà dalla capacità di risolvere gli attuali problemi legati alla questione ucraina, per poi gettare la basi su una indispensabile visione strategica dell’ UE verso i paesi dell’ Unione eurasiatica (Russia, Bielorussia, Kazakistan, Kirghizistan, Tagikistan).
Solamente il tempo potrà dirci come si evolverà la situazione Ucraina, e conseguentemente le relazioni diplomatiche tra Russia ed Unione Europea, certamente però i prossimi leader europei che saranno nominati a breve dovranno cercare di trovare una soluzione rapida e meno traumatica possibile.

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EURORUSSIA: UNIRE EUROPA E RUSSIA

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In un momento altamente critico delle relazione fra la Russia e l’Unione Europea e la Nato, nel vivo di questa fiacca campagna elettorale europea, dal “pozzo” in cui mi trovo, desidero affacciare l’ipotesi, ardita in verità, di unire l’Unione Europea e la Russia, sperando che qualcuno ci mediti sopra.

Un’idea che, se avviata, potrebbe modificare radicalmente la prospettiva delle nostre relazioni con la Russia: dalle tensioni attuali, dal possibile conflitto (da evitare ad ogni costo) alla cooperazione, all’integrazione, all’unione.
Ovviamente, la realizzazione dell’ipotesi va vista nel medio-lungo termine e tenendo conto degli sviluppi, e delle conseguenze, degli accordi per il Nuovo ordine internazionale. E senza lasciarsi influenzare dalle “contingenze” ossia dai personaggi, dai metodi e dalle circostanze politiche e militari attuali (“questione ucraina”) che, in quella prospettiva, saranno superati.
In ogni caso, ritengo che già cominciarne a parlare sarebbe di grande aiuto per la pace e un grande beneficio per le due entità e per i loro popoli.

Ma ecco, di seguito, l’ipotesi come l’ho, sinteticamente, formulata nel mio recente libro “I giardini della nobile brigata”. Vedi link. (https://www.facebook.com/notes/agostino-spataro/vi-presento-i-giardini-della-nobile-brigata-eddefinitiva/517156131740082)

Per alcuni l’Europa non è un continente, ma solo una propaggine dell’Asia verso l’Atlantico e il Mediterraneo. Fisicamente, così è. Tut­tavia, da tremila anni, l’Europa è fonte e sede di una delle più grandi civiltà umane. Purtroppo, oggi, è in declino e molti, amici e concor­renti, cercano di anticiparne la caduta, per spolparsi le sue ricchezze materiali e immateriali.
Più che una speranza ben riposta, il futuro dell’Europa è un problema mal posto, poiché resta incerto e succube di forze e interessi ostili e contrapposti.
La soluzione? La risposta non è facile. Abbozzò un’ipotesi, così di getto, che forse risente della contingenza.
Per evitare la disgregazione della U.E. , la prima cosa da fare è quella di cambiare registro politico, per un’Europa dei popoli e non delle consorterie mul­tinazionali.
Sulla base di tale correzione, dovrà proseguire l’allargamento fin dove è pos­sibile nell’ambito europeo, senza più provocare o favorire tensioni per conto terzi.
In secondo luogo, l’Europa deve progettare, e realizzare, l’unione con la Russia. Sì, avete letto bene, con la sterminata Russia che ci viene presentata come l’eterno nemico. Oggi, un’idea simile potrà apparire paradossale, fuori da ogni ragionevole previsione.
Tuttavia, avrebbe un senso, una logica direi, se considerata per il me­dio/lungo termine e alla luce delle nuove riaggregazioni (spartizioni?) mondiali che stanno avvenendo su basi continentali e non più ideologi­che o di reddito: Nord- Sud, Est- Ovest, ecc.
Nel nuovo scenario in formazione, l’U.E., barcollante e squilibrata al suo interno, ri­schia di apparire un “continente” in bilico, alla deriva.
Se l’Europa desidera uscire da tale condizione dovrà ag­gregarsi per creare un nuovo polo dello sviluppo mondiale.
Con chi? Gli Usa sono lontani e i loro interessi non sempre comba­ciano con quelli europei; l’ipotesi euro-mediterranea è stata fatta fallire per volere degli Usa e per subalternità francese.
Non resta che la Russia ossia con un Paese- continente che dispone di territori sterminati e di enormi riserve energetiche e metallifere, di bo­schi, di acque, di terre vergini, di mari pescosi, ecc.
Risorse importanti, strategiche che, unite al grande patrimonio europeo (tecnologie, saperi, scienze, professioni, tradizioni democratiche, ecc), potrebbero costituire il punto di partenza per dare vita a “EuroRussia”, a una nuova “regione” geo economica mondiale, dall’Atlantico al Pacifico, al Mediterraneo.
Ovviamente, questo è solo uno spunto, una “bella utopia”. I giochi di guerra, gli intrighi per il nuovo ordine mondiale sono in corso da tempo. E sono ancora aperti. Il problema è come vi si partecipa, se da protagonisti o da comprimari.
All’orizzonte si profila una nuova bipartizione del mondo, con Cina e Usa come capifila. Taluno prevede una tripartizione, inserendo la Russia nel terzetto. Nessuno pronostica un ruolo primario dell’U.E., condannata a restare sottoposta agli Usa.
Non sappiamo quali saranno la collocazione, il ruolo di Russia e del’Europa fra 30/50 anni. Una cosa sembra sicura: divise, potranno solo sperare che uno dei due capifila le inviti ad accodarsi.

Agostino Spataro, bibliografia in :

montefamoso.blogspot.it/2014/04/agostino-spataro-bibliografia.html

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LA REPUBBLICA CENTRAFRICANA AL CENTRO DELLA GEOPOLITICA INTERNAZIONALE

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La Francia non ha mai messo da parte le sue mire “colonialiste” e la cosiddetta Françafrique nel Continente africano. Osserva sempre con molto interesse le vicende politiche delle sue ex colonie nel continente nero, spesso intervenendo in prima persona. Dopo la Costa d’Avorio, la Libia, il Mali, ora tocca alla Repubblica Centrafricana, scossa da una crisi senza precedenti, ad essere nel mirino dell’Eliseo. La situazione si va complicando giorno dopo giorno tant’è che sono dovute intervenire le Nazioni Unite con una risoluzione del Consiglio di Sicurezza

La Repubblica Centrafricana è diventata un ingarbugliato gomitolo di filo spinato dal quale è difficile trovare l’inizio e venirne fuori. Nel corso degli ultimi trent’anni si sono avvicendate missioni di pace riproposte in tutte le salse per cercare di mettere un po’ di ordine nel Paese. La Francia, che non ha mai messo da parte le sue mire neo-colonialiste nel continente nero e il sogno della Françafrique, ha sempre avuto un ruolo di primo piano. Operazione Barracuda (1979), Minurca (1998-2000), Fomac (2010), Misca, Sangris (2013).
Il Paese è ripiombato nel caos circa un anno fa, quando un gruppo ribelle di fede musulmana, la Coalizione Sèlèka, proveniente dal nord e dal Ciad (alleato storico della Francia) hanno messo a segno un colpo di Stato ai danni dell’ex Presidente Bozizé, costretto alla fuga, rimanendo al potere fino a gennaio 2014. Un lasso di tempo in cui si sono verificati una moltitudine di soprusi ai danni della popolazione e in particolare sui cristiani. In questo contesto di violenza, si è formata la milizia di autodifesa “anti-balaka”, come reazione alle esazioni e ai crimini perpetrati sulla popolazione civile, che a sua volta ha condotto attacchi altrettanto sanguinanti contro i ribelli e i civili musulmani. La conseguenza è che i civili vivono nel terrore e fuggono dal Paese in massa. La situazione è drammatica. Nonostante l’elezione del nuovo capo di Stato, Catherine Samba-Panza, si registra una crisi alimentare e sociale di enorme portata, aggravata dalla guerra civile. Anche l’Unione europea si è attivata raccogliendo circa 500 milioni di dollari. Di questa cifra 200 verranno destinati alla gestione delle emergenze umanitarie più impellenti, mentre il resto verrà impiegato per stabilizzare la zona e per ripristinare i servizi fondamentali, come l’acqua corrente.

Ben poca cosa per togliere il Paese dalle mani del caos. Per il momento le risoluzioni prese a livello internazionale riguardano più l’aspetto geopolitico che l’emergenza umanitaria che sta attraversando la Rca, ricca di minerali.

Il 10 aprile di quest’anno il Consiglio di Sicurezza dell’Onu (su insistenza dei francesi e dei cinesi) ha approvato la risoluzione 2149 con la quale ha dato il via alla creazione di un’operazione di mantenimento della pace delle Nazioni Unite, per proteggere i civili e facilitare l’accesso umanitario nella Repubblica Centrafricana (Rca) devastata dalla guerra. Di pari passo, l’Unione Europea, che continua a seguire la linea d’azione dettata dalla Francia e dal suo presidente Hollande, ha dato il via libera alla missione militare, ribattezzata Eufor Rca, nel Paese africano “per contribuire alla creazione di un ambiente sicuro in questo Paese”, in linea con la risoluzione Onu. L’operazione militare opererà a Bangui e nell’aeroporto della capitale con l’obiettivo di proteggere la popolazione e fornire aiuti umanitari. Dietro ai nuovi provvedimenti, c’è sempre il presidente francese François Hollande che ha cercato di risalire la china dell’impopolarità mostrando i muscoli in politica estera e rilanciando, con le missioni militari in Africa, il ruolo della Francia in uno scacchiere – quello delle ex colonie – in cui Parigi vorrebbe sentirsi ancora egemone e protagonista. Già a dicembre Parigi è intervenuta nella Repubblica Centrafricana, prendendo parte a MISCA (la Missione internazionale di sostegno alla Rca sotto l’egida africana) e dislocando sul terreno circa 1600 soldati.

Fin qui le certezze geopolitiche di un conflitto che secondo l’ultima risoluzione del Consiglio di Sicurezza dell’ONU – 2149 (2014) (1) – desta “profonda preoccupazione” soprattutto perché “la disastrosa situazione umanitaria nella Rca” che riguarda in particolar modo “le esigenze umanitarie degli oltre 760.000 sfollati interni e degli oltre 300.000 rifugiati nei paesi vicini, gran parte dei quali sono musulmani” e le conseguenze che il flusso di rifugiati potrebbe portare “sulla situazione in Ciad, Camerun e nella Repubblica Democratica del Congo, così come altri Paesi della regione “.

L’escalation di violenza cui si è assistito, parallela alla progressiva incapacità di Michel Djotodia, il capo dei Sèlèka che si autoproclamò presidente, di controllare i suoi uomini, anche dopo il loro scioglimento, ha “dato il la” al presidente francese che ha ritenuto necessario un intervento rapido e obbligato che solo la Francia sarebbe riuscita a garantire (data la presenza di contingenti francesi sia in Repubblica Centrafricana stessa, sia nei Paesi confinanti a cominciare dal Ciad e dal Camerun). Inutile sottolineare la somiglianza tra quest’intervento e quello in Mali, dove peraltro le forze transalpine si sono trovate a dover prolungare il loro intervento a data da destinarsi, senza potere ridurre il numero degli effettivi come inizialmente previsto.

Nella Rca non è da minimizzare la riorganizzazione dei ribelli (ex-Sèlèka) che sono scappati a Nord e che si sono dispersi nelle zone rurali. In futuro potrebbero essere fonte di destabilizzazione ulteriore del Paese.
In ultima analisi, la crisi in Centrafrica mette in evidenza ancora una volta la debolezza e l’inefficacia dell’Unione Africana. Nonostante negli ultimi anni abbia intrapreso un lento ma profondo processo di riforma (non ancora terminato), non dispone ancora di strutture adeguate e pronte a intervenire in conflitti “ingarbugliati” come quelli che caratterizzano la fascia del Sahel, in cui milizie, anche provenienti dall’esterno, riescono a impadronirsi rapidamente di porzioni considerevoli di territorio.

*Antonio Coviello, laureando in Scienze Politiche e Relazioni Internazionali, ha cominciato la sua avventura giornalistica collaborando con La Nuova Basilicata. Ha scritto per alcune testate on line e cartacee occupandosi in particolar modo di politica interna ed estera. E’ appassionato di storia araba e di relazioni internazionali.

NOTE:
1) Risoluzione CdS 2149(2014) “its serious concern at the dire humanitarian situation in the CAR, and emphasizing in particular the humanitarian needs of the more than 760,000 internally displaced persons and of the more than 300,000 refugees in neighbouring countries, a largenumber of which are Muslim, and further expressing concern at the consequences of the flow of refugees, on the situation in Chad, Cameroon and the Democratic Republic of the Congo,as well as other countries of the region”

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